Intervista al disegnatore toscano che con le sue graphic novel ha fatto incetta di premi in italia e all’estero. Dall’adolescenza burrascosa in provincia alle prime collaborazioni con Cuore e Blue, fino alle storie disegnate negli ultimi anni
Esterno Notte è la sua prima raccolta di racconti, pubblicata dalla Coconino Press, casa editrice bolognese animata da Igort, che nel fumetto vede la forma contemporanea del romanzo. Prima ancora ci sono disegni su Cuore e brevi storie sulla rivista erotica di fumetti Blue. Esterno Notte rappresenta per Gipi una virata nella sua storia di disegnatore. Paesaggi lunghi, profili di città di provincia che si stagliano in panorami desertificati, tratti infiniti di strade, gallerie, disegnati a olio con una tecnica accurata che trasforma la notte e il lato oscuro della quotidianità in un blu liquido. E poi ragazzi, ragazzini, facce storte, sguardi obliqui, peli di barbe fuori posto, uno stupore misto a incoscienza e spavalderia, una delicatezza che deve continuamente fare i conti con una violenza spietata, senza mezzi termini. Tratti rapidi, sporchi, sovrapposti che fanno emergere i personaggi dallo sfondo con tutta la loro inquietudine. Nel 2004 esce Appunti per una storia di guerra, prima storia lunga che riporta le guerre di altrove a casa nostra, a cui fanno seguito molte altre storie tra cui quelle della serie “Baci della provincia”: Gli innocenti, Hanno ritrovato la macchina. Nel 2007 tocca a S., romanzo a fumetti che narra di un padre, della relazione figlio-padre, di una famiglia, di un periodo lungo decenni; un romanzo che si dipana su piani di tempo sovrapposti e in cui l’intreccio di storie, di frammenti di ricordi stravolge la linearità del tempo unico per ritrovare un senso proprio di memoria, inevitabilmente contrastato.
Gipi ha fatto incetta di premi, in Italia e all’estero, tradotto in numerose lingue è riconosciuto come uno dei maggiori disegnatori di fumetto degli ultimi anni. L’ironia e forse il trascorso punk l’hanno salvato dai bagliori del successo, tanto che il suo ultimo lavoro si intitola LMVDM (La mia vita disegnata male, Fusi orari e Coconino press, 2008). Negli ultimi mesi è impegnato in un tour in giro per l’Italia per la presentazione del suo ultimo libro, in cui legge, i disegni alle spalle e accompagnato da musica ed effetti sonori.
«Saltando la fase dell’infanzia dove tutti i ragazzini disegnano – non è che solo i disegnatori disegnano – sono stato al liceo artistico di Lucca dove mi hanno tolto quasi completamente l’entusiasmo e la voglia di disegnare, per cui in quegli anni non ho quasi mai toccato penna.Voglia di disegnare che ritrovo quando escono le prime riviste di fumetto “serio”, Cannibale e Frigidaire, dove autori come Pazienza e Scozzari mi diedero l’idea che c’erano cose raccontabili, che si poteva trovare bellezza e passione anche semplicemente tenendo lo sguardo sui propri amici, sulle cose che facevamo ogni giorno. In più con il lavoro di Paz c’erano delle similitudini perché il mio gruppo di amici era molto simile ai personaggi raccontati da lui: tutti ragazzi che, per quanto molto giovani, avevano esperienza di droghe. Avevamo spesso l’impressione che lui ci avesse spiato. Così feci un paio di storie corte che finirono anche in mostra a un festival di “Lucca comics” della preistoria. Non valevano niente ma ripresi un poco di voglia. Gli anni dopo in sostanza ho continuato a disegnare con discontinuità, non ho più fatto scuole, ho provato a fare un po’ di accademia di belle arti, mi sono trovato malissimo, ho fatto a cazzotti con un professore dopo due settimane e quindi ho smesso e alla fine quello che sono riuscito a fare in provincia con i disegni era l’illustratore per la pubblicità all’inizio, poi sono finito in un’agenzia di pubblicità e alla fine ho fatto, come dire, “carriera” e mi sono ritrovato art director di quest’agenzia per tre anni e mezzo. In più c’era il fatto che mi fumavo cinquanta canne al giorno e quindi non ero molto presente né a me stesso né alla realtà circostante e tutte le cose che disegnavo, le cose che mi interessavano erano cose fuori dalla realtà. Nello specifico disegnavo fantasy: guerrieri, draghi, cazzate del genere cercando di disegnare bene, e anche qui bene voleva dire secondo dei canoni classici di anatomia e colorazione il percorso è stato questo.
«Tutto è cambiato nel ‘94 quando Berlusconi vinse le elezioni per la prima volta. Ricordo che ero in bagno, sentii la notizia alla tv dall’altra parte del muro e per la prima volta in vita mia ebbi un malessere profondo che però non derivava dalla mia coscienza o da atti compiuti da me o dalla mia cerchia di amici era il primo malessere sociale che ho sentito in vita mia. Perché non mi sono mai occupato di politica ero completamente fuori dal mondo.
«Quello stesso giorno feci i primi disegni fatti male. Feci delle vignette disegnate veramente senza nessuna cura ma dove mettevo delle parole accanto che erano parole sentite, non era imitazione di un’imitazione, un tentativo di creare un mondo fantastico, ma era quello che sentivo, era la prima volta che lo facevo. E dato che sono superbo e pieno di me, presi queste robe che avevo disegnato e le inviai a Cuore, il settimanale di satira che c’era allora, ma lo feci come idea di partecipazione, avevo voglia di mandare il mio disagio in un posto dove pensavo avrebbe trovato dei compagni di disagio. Dopo pochissimo loro mi richiamarono e mi presero a lavorare al giornale. Iniziai a lavorare e mi pagavano tantissimo per questi disegnucchi che facevo senza nessuno sforzo dopo anni che cercavo di diventare un disegnatore, un pittore vero, ecc. E fu uno shock vedere le prime storie pubblicate. Ero un po’ romantico, facevo cose mezze in rima di cui ora mi vergogno. E così ho cominciato a lavorare alla satira politica.
«E anche lì fu un errore. Perché per fare satira politica ti servono un po’ di cose, una è un po’ di cultura e un’altra è un’idea politica. Non puoi solo sputare sul potente di turno quando non hai un’alternativa e io non ne avevo nessuna: ero un nichilista assoluto, anarchico fino al midollo ma non nel senso buono
per cui era facile dire cattiverie sui governanti del tempo ma era vuoto perché non avevo una passione, un’idea del mondo mia. Perciò dopo un poco smisi, sembrava che stessi recitando: avevo imparato il formato, questa tecnica, non c’era l’anima dentro e secondo me si vedeva. Allo stesso tempo questa voglia di cominciare a raccontare cose legate all’attualità, cose che avevo attorno era partita, era una valvola che si era stappata comunque.
«E allora mi chiesi come potessi esprimere tutto questo in un altro modo e cominciai a pensare agli anni che avevo vissuto con la mia banda di amici per strada, dai quindici ai ventitre-ventiquattro anni, in cui avevamo fatto di tutto, eravamo tutti più o meno delinquenti, tutti eravamo finiti in galera per tempi lunghi o brevi, molti erano morti per overdose, altri erano impazziti con l’lsd, altri si erano scoperti sieropositivi in quegli anni, insomma un disastro
soprattutto era un disastro se prendevi questo numero di vite perdute di ragazzi in rapporto a una cittadina di provincia come Pisa. Una cosa del genere nella mia testa andava bene ad Amsterdam ma questo sfacelo in un posto così piccolo mi faceva pensare. Era un pensiero che non avevo mai avuto perché quando ero in quegli anni lì mi sembrava, e un po’ lo penso ancora, che tutto era una nostra responsabilità, che fossero le nostre scelte di tutti i giorni. Invecchiando mi dissi che forse non era così naturale che dei ragazzi di diciassette anni fossero eroinomani e non avessero mai nessuno intorno che gli mostrasse una via possibile, differente. Fu allora che mi dissi forse questa è la critica sociale, la satira che posso fare: se mi limito a raccontare le cose che ho visto, quelle vissute da me o dai miei amici, non avrò bisogno di aggiungere un livello di critica per la quale non ho le basi. E iniziai a fare questo. Cominciai su Cuore a pubblicare delle strisce verticali al posto di Adriano Sofri che se andò.
«Iniziai a raccontare le storie di un personaggio quasi inventato che chiamavo Manubrio e della sua vita. In lui racchiudevo tutte le esperienze fatte da me e dagli altri ragazzi e da lì non ho più smesso. Ritornare con il pensiero a quegli anni, mi ha fatto venire la voglia di raccontarlo in maniera più compiuta, più articolata di una striscia che comincia e finisce. Io ho solo raccontato le vicende della mia adolescenza e giovinezza nei luoghi in cui si erano svolte, senza nessuna intenzione di tipo sociologico o altro. Non ho mai avuto l’intenzione di raccontare la provincia perché penso che nella provincia ci sia un segnale di qualcosa che può sfuggire a chi vive nelle grandi città o perché la trovo rappresentativa di chissà quale contenuto. Per me la provincia era il mio mondo e i miei ricordi sono i ricordi di pomeriggi sulle panchine di un giardinetto dove le questioni che ci muovevano il cuore erano l’amicizia tra di noi, questo senso assoluto di estraneità al mondo; non avremmo voluto andare a Roma o Milano, noi avevamo le nostre panchine. Lì è chiaro che poi ti ritrovi, quando le racconti, a trattare i rapporti umani perché non c’era altro. In più non c’erano le ragazze, eravamo una banda particolarmente spiacevole per cui non c’erano donne e quelle che provavano ad avvicinarsi reggevano cinque minuti e se ne andavano. Era un universo assolutamente maschile e di solitudine condivisa. Quando ho raccontato le storie come in Appunti di una storia di guerra, ho semplicemente ripreso quell’atmosfera, quell’assenza di altre figure attorno, tra cui i genitori intenti a lavorare nei negozi o altre cose. La nostra sensazione era che tutto quello che avevamo al mondo erano i nostri amici. Io avevo fiducia e potevo affidarmi solo a loro e tutto quello che facevo era per guadagnarmi la loro fiducia e per diventare un soggetto a cui potersi affidare. E questa cosa qui alla fine è stata il ricordo più forte. Così ho cominciato a fare storie più complesse fino ad arrivare ai primi libri
«Non so se faccio fumetto o no, bè, in sostanza racconto le storie usando le tecniche del fumetto, faccio parlare i personaggi con le nuvolette e tutto il resto; però non è un problema che mi pongo, nel senso che non avendo un’affezione particolare per il fumetto e avendo piuttosto un desiderio di scappare da ogni catalogazione, non amando l’idea di essere “collega” di qualcun altro o di far parte di una tipologia di persone, mi piace fare qualcosa che sia anche mal definibile. Ci sono storie che richiedono una forma più simile a quella del fumetto tradizionale e altre che spingono verso forme differenti dove magari il suono della lettura e delle parole prende il predominio sulle immagini.
«Nel fumetto tradizionale si procede, di solito, con un soggetto, una sceneggiatura e infine un disegno di questa sceneggiatura. Io ho utilizzato questo metodo in parte in Appunti per una storia di guerra. Seppure ho disegnato le prime sedici pagine improvvisando, senza sapere bene di che cosa stessi parlando, poi mi sono fermato e una volta compreso il senso della storia – cioè la motivazione profonda che avevo dentro e che mi avrebbe poi spinto a stare un anno e passa al tavolo da disegno – ho scritto una sceneggiatura simile a una sceneggiatura cinematografica e ho lavorato nel modo, tra virgolette, tradizionale: ogni giorno hai una pagina di sceneggiatura, la segui, metti le scene e tutto il resto. In altri libri come quello su mio padre, S., invece, la storia richiedeva un approccio differente. Intendo dire che lo richiedeva per me. Affrontando un tema come la perdita del padre, non mi sentivo di lavorare in modo freddo cioè scrivendo una storia, correggendola, rendendola più scorrevole possibile, più piacevole possibile; allora ho adottato un modo in cui improvvisavo ogni pagina: non abbozzavo mai un disegno a parte, non scrivevo mai una frase a parte, non sapevo mai cosa sarebbe successo nella scena successiva. Era una sorta di “omaggio di imprecisione”. Come dire: “ok, papà, io sfrutterò – perché è quello che poi fai insomma – la tua scomparsa, sfrutterò il mio dolore, il dolore di mia madre, delle mie sorelle per un oggetto che alla fine mi renderà soldi anche se pochi, notorietà, sorrisi di ragazze quando faccio le dediche agli stand…”. Insomma, non si può avere queste cose su una faccenda come la morte di un padre, allora ho adottato il metodo per cui scrivevo sulla pagina che poi sarebbe andata in stampa, direttamente a penna, senza possibilità di correggere, quindi con la forma che veniva e quella forma molto spesso non è stata la migliore.
«Questa specie di sacrificio ipocritamente mi metteva un po’ la coscienza a posto, ma dall’altra ha avuto un effetto forte sulla narrazione perché quello che si legge alla fine è una cosa – credo – inequivocabilmente viscerale. Si sente che non ho posato, che non ho costruito le frasi per ottenere il miglior effetto e questa povertà di linguaggio è qualcosa che si avvicina un po’ alla sincerità. La mia paura, lavorando su quel libro, era di arrivare alla fine, pubblicarlo e poi magari scoprire dopo un anno o due di aver fatto un’operazione di sfruttamento di un evento così terribile invece sono tranquillo. Avendo usato questo metodo un po’ rigido, di questo lavoro sono contento.
«In Esterno notte tutte le storie raccontate, tranne l’ultima che è un esperimento di fiction, sono ispirate al mio passato di quando avevo diciassette-diciotto anni, quindi molto lontane nel tempo e che nella mia memoria avevano una sostanza simile a quella dei sogni. Per rappresentare questa sostanza avevo bisogno di una tecnica pittorica, quindi ho lavorato a olio, una cosa piuttosto inusuale nel mondo del fumetto e ho fatto tavole, cioè pagine, dove dominavano spesso delle scene molto grandi, a tutta pagina o a tre quarti di pagina, molto forti, molto evocative e che quando ho cessato di farle, cioè quando ho cambiato stile, mi hanno anche provocato critiche, nel senso che molti esperti del settore mi hanno detto: “accidenti ma quel disegno era bellissimo perché ora fai quel disegno più scarno”. In realtà quel tipo di disegno poteva stare solo lì.
«In LMVDM la leggerezza è la chiave di tutto, disegnare nel tempo più rapido possibile e improvvisando il testo. Questa cosa oltre a essere divertente ha poi risultati sorprendenti, perché ci sono cose che posso raggiungere solo con l’abbandono, con l’improvvisazione. Con S. e LMVDM ho adottato questo metodo naturalmente come dice il titolo (LMDVM: La Mia Vita Disegnata Male). Questo ha portato alla perdita di una qualità grafica. I disegni fanno vomitare, sono fatti di getto, ma quella velocità mi permette di mantenere una freschezza che poi accende la comicità. Non saprei scrivere una battuta comica pensandola, lo so fare se mi lascio andare alla perdita di controllo ma, d’altro canto, il disegno richiede controllo, fare una pagina disegnata bene può richiedere un’intera giornata e questo non era ammissibile per quella storia. Quindi ho sacrificato la parte estetica per privilegiare la parte sonora, la parte del ritmo e quella che innesca anche le risate nei lettori.
«Gli innocenti ha avuto una genesi buffa: era un momento che in Italia c’era una strana glorificazione delle forze dell’ordine, fiorivano sceneggiati sulla polizia, sui carabinieri e io ho, purtroppo per me, un ricordo non bello dei rapporti con le forze dell’ordine quand’ero ragazzo, in più ho ancora nella memoria lo sfacelo di Genova al G8 per cui mi ero un po’ innervosito con questa tendenza della beatificazione. Allora ho raccontato una storia ispirata a dei fatti realmente accadutimi quand’ero ragazzo: una volta che fui scambiato per un’altra persona e fui caricato da due poliziotti della digos che mi sottoposero a un trattamento non piacevolissimo e mi ricordo che quel giorno avevo un coltello a scatto molto grosso in una tasca e che stavo sul sedile di dietro e facevo i conti di quanto tempo avrei impiegato ad assassinarli tutti e due, avevo diciassette anni.
«Ho preso questo ricordo, me lo sono tolto da me, l’ho vestito sopra un altro personaggio e poi ho fatto quello che faccio sempre e ho stirato la realtà. La realtà è stata che questi due a un certo punto si accorgono di aver caricato la persona sbagliata e dicono “ah scusa che ti abbiamo torturato, ciao”. Nella storia porto questo evento alle estreme conseguenze e faccio un passo oltre quello che ho fatto nella vita vera, poi ho mescolato esperienze di altri amici che hanno fatto delle fini non proprio piacevoli e mi sono interrogato, come faccio sempre quando affronto il tema dei miei anni un po’ da quattrocento colpi, del perché io sono qui a fare un’intervista in un appartamento di Parigi e altri miei amici sono in prigione o sottoterra. Questa cosa qui, che è un misto di riflessioni e senso di colpa, poi ritorna sempre: perché io ho preso la buona china e altri pur avendo fatto le stesse identiche cose si sono prese quella brutta?
«Io sono ossessionato da questa idea di destino inevitabilmente legata alle esperienze passate e all’evoluzione che queste hanno avuto su persone differenti. In fondo, finisco sempre a trattare di questo tema. Le origini forse sono legate a una sorta di senso di colpa per averla sfangata». (lea nocera)