Una sera di settembre ho percorso ancora la strada che va all’Ex-Moi. Dopo la stazione, gli edifici in stile liberty, le caserme e l’ipermercato sempre aperto, sono giunto alle palazzine occupate di via Giordano Bruno. Tempo fa nell’aula al piano terra insegnavo italiano agli abitanti. Intorno avevamo due lavagne, il murale dipinto da Sarda, libri sparsi e ai nostri piedi, d’inverno, un termosifone elettrico. Adesso m’avvicino alla parete della palazzina arancione e ritrovo la vecchia orma di stencil: si legge ancora la parola “scuola” e una freccia indica la destra. Ma la porta d’ingresso è murata, cemento e mattoni chiudono tutti gli ingressi. Due mezzi dell’esercito e una camionetta dei carabinieri mantengono il presidio. Una barriera metallica circonda il cortile delle palazzine, restano poche feritoie protette da grate in ferro. Attraverso le maglie intravedo il cortile e ritrovo i disegni sui muri, leggo ancora: “Siragi Bishara Abdallah Liberi” e “Hurrya Libertà”. Dell’occupazione restano pareti screpolate e sigilli; contro l’orizzonte lampeggiano i lumini del nuovo grattacielo. Dopo lo sgombero d’agosto le palazzine sono blocchi inerti: terminato il brusio delle attività quotidiane, dei dissapori e delle lotte, le speranze e il malessere degli abitanti si sono frazionati, dispersi altrove. Dal silenzio – e contro di esso – nasce il desiderio di raccontare ancora l’occupazione, la violenza dolce del potere e il destino degli abitanti. Le ambiguità del compito, però, rompono la voce: come raccontare, con quale lingua? E secondo quale diritto dominare il discorso? Durante la ricerca di un metodo, in questi ultimi mesi, mi è tornata in mente la storia del ghetto di Varsavia, una fonte feconda d’ispirazione. Intendo Varsavia come un campo dove affinare gli strumenti: l’analogia non riguarda gli eventi storici (così diverso è il nostro tempo), ma la forma dei problemi da affrontare.
LA VITA NEL GHETTO
Nell’autunno del 1940, un anno dopo l’occupazione della Polonia, il governo nazista impose che il quartiere ebraico di Varsavia divenisse un ghetto. Vi furono rinchiusi quattrocentomila ebrei – abitanti della città e fuggitivi dalla Germania e dall’Est – poi un muro fu ultimato nell’estate del ’41. Dopo un inverno di fame e lavori forzati, iniziarono le deportazioni dalla Umschlagplatz a Treblinka, era l’estate del ’42. A partire dal settembre il movimento ebraico di resistenza clandestina s’organizzò e nel gennaio del ’43 i primi colpi di pistola esplosero contro i nazisti. Per tutta la primavera i combattenti – dotati di poche armi rudimentali – affrontarono l’esercito e le SS. Gli scontri avvenivano improvvisi tra le strade, poi in rifugi allestiti negli scantinati; i nazisti incendiarono ogni edificio conquistato. Soltanto pochi superstiti si nascosero nei condotti fognari, trovarono la via per i sobborghi di Varsavia e fuggirono nei boschi. Alla fine della guerra il ghetto era un cumulo di macerie, pochi muri portanti s’alzavano in un deserto di rottami. Nel ’46 emersero dal sottosuolo – là dove un tempo c’era la scuola ebraica di via Nowolipki – dieci scatole di metallo. Quattro anni dopo alcuni operai polacchi trovarono poco lontano due taniche da latte. I contenitori emersi dalla distruzione contengono documenti nascosti al tempo del ghetto: sono più di trentamila pagine e costituiscono gli Archivi Ringelblum.
Gli archivi raccolgono diari e interviste degli abitanti, fogli di stampa clandestina, disegni di bambini e carte di caramelle, tessere annonarie, appunti e bozze per una storia contemporanea; notizie giunte dagli altri ghetti polacchi e racconti delle deportazioni, manifesti nazisti e appelli in yiddish della resistenza armata, biglietti del teatro. Gli archivi sono l’esito di un progetto clandestino che aveva due scopi principali: costruire una storia delle masse ebraiche durante l’occupazione nazista; salvare testimonianze concrete dei crimini degli occupanti. Il progetto era animato da abitanti del ghetto di formazione eterogenea – rabbini, sionisti di sinistra, socialisti e rivoluzionari – ed era diretto da Emmanuel Ringelblum, storico e attivista vicino all’ala marxista del partito Poalei Tziyon. A proposito del gruppo di collaboratori – nominato Oyeng Shabes, in yiddish “la gioia del sabato” – scriveva Ringelblum: “Gli O.S. sono passati da un lavoro ‘scadente’ (ottobre 1939-maggio 1940) a un lavoro ‘buono’, ma da venerdì 18 aprile siamo di nuovo al lavoro scadente. È necessario mettere al sicuro le informazioni che riceviamo. Il metodo: sedersi con l’informatore davanti a un bicchiere di the e scrivere le notizie più tardi. Fortuna per noi che il lavoro degli O.S. è sinora rimasto segreto”.
I temi toccavano diversi aspetti della vita politica e sociale: “Durante le riunioni che, di solito, duravano molte ore, furono stabilite le tesi di ciascun tema. Sono state elaborate le tesi sulla polizia ebraica, sulla corruzione e sulla demoralizzazione del ghetto, sulla vita pubblica, sulla scuola; un questionario sulla vita e sull’attività letteraria e culturale durante la guerra, sulle relazioni ebraico-polacche, sul contrabbando; un questionario sui rapporti tra le diverse categorie di lavoratori, sulla gioventù, sulla donna, ecc.”.
Dagli archivi si ricavano le prove della deportazione e i metodi di repressione: “Oggi, notte del 12 maggio 1942 […] sono stati uccisi quattro ebrei […]. A quanto pare si trattava di uomini che avevano a che fare con il movimento di liberazione. Sono stati portati nottetempo alla prigione di via Pawia e poi uccisi all’aperto, ciascuno in una strada diversa. A partire da aprile queste uccisioni di gente per la strada sono diventate una tattica deliberata. Scopo: spaventare, terrorizzare la popolazione”.
La vita del ghetto affiora dagli appunti sul contrabbando e le condizioni economiche: “C’è un punto nel quale hanno attrezzato una gru per far passare dall’Altra Parte del Muro sacchi di farina, zucchero e altre cose del genere. È un punto in cui il Muro che isola il Ghetto dal resto del mondo è più basso. – Si dice che a Lodz il pane costi 8 marchi. Carbone non se ne trova. Una pentola d’acqua calda costa un capitale”. Ai fogli di cronaca si mescolano poesie scritte nel ghetto come questa di Moshe Kaufman, È giunta la primavera: “Giocate bambini, giocate ai vostri giochi / sull’alta collina, nella verde valle / Venite bambini giocate ai vostri giochi / Gioventù viene solo una volta, e se ne andrà”.
Dal diario di Ringelblum del febbraio 1941: “L’impulso di mettersi a scrivere le proprie memorie è irresistibile. Lo fanno persino i giovani che si trovano nei campi di lavoro. I manoscritti vengono scoperti, stracciati, e gli autori percossi”. Oltre a salvare dalla distruzione documenti e voci del ghetto, i redattori accolgono “l’impulso di mettersi a scrivere” e foggiano le condizioni per una collezione di testimonianze: “Tutti si misero a scrivere: giornalisti, scrittori, maestri e professori, attivisti sociali, giovani e perfino bambini. Più che altro scrivevano dei diari, in cui gli avvenimenti tragici venivano raccontati e commentati col criterio dell’esperienza personale”. Quando sfoglio il catalogo dell’archivio (tra foto, documenti sulle istituzioni ufficiali e clandestine, lettere private e proclami nazisti) m’appare in forma di mosaico una storia materiale del presente assemblata da chi s’oppone al potere. Forse, e nonostante la mediazione degli intellettuali di Oyeng Shabes, il ghetto parla da sé e il suo idioma è lo yiddish, lingua minore sepolta nei campi ormai.
Scrive Ringelblum nella primavera del ’42: “Adesso stanno riprendendo cinematograficamente il Ghetto. Hanno trascorso due giorni a filmare la prigione ebraica e il Consiglio. Hanno condotto in via Smocza una folla di ebrei, poi hanno ordinato alla polizia ebraica di disperderla. In un altro posto hanno girato la scena di un poliziotto ebreo che picchia un cittadino ebreo, poi arriva un tedesco che salva quest’ultimo, aiutandolo ad alzarsi”.
Una troupe di operatori tedeschi s’aggira nel ghetto per realizzare un documentario di propaganda: le macchine da presa indugiano sui moribondi supini per strada e sui sorrisi soddisfatti in un ristorante, ritraggono il bagno rituale e la circoncisione, lo scomposto brulicare per le strade e l’interno benestante di una dimora. Il film dovrebbe dimostrare l’abiezione della società ebraica e giustificare i provvedimenti degli occupanti. Nel 2010 Yael Hersonski realizza A Film Unfinished, una revisione del documentario nazista. L’autrice rallenta, ingrandisce e arresta l’immagine: dallo sfondo, sgranati, compaiono operatori nazisti intenti a riprendere da un’altra angolazione. Così la realtà svela il suo artificio. Hersonski monta in sequenza le diverse versioni di una medesima scena: un bambino chiede l’elemosina, passanti scavalcano indifferenti i morti sul marciapiede, un cadavere rachitico è gettato in una cassa. L’operatore dietro la macchina da presa costringeva i personaggi a ripetere l’azione, le ombre umane sulla pellicola sono movenze coatte di una sceneggiatura. “Continuano a girare documentari sul Ghetto. Ogni scena è girata con malizia”, annota Ringelblum in un foglio nascosto nel sottosuolo.
MONTARE E SMONTARE
A partire dai resti del ghetto di Varsavia trovo due movimenti di un metodo possibile: l’assemblaggio per giustapposizione di documenti e testimonianze, la decostruzione per svelamento dell’artificio retorico. La collezione per montaggio di materiali eterogenei avviene nonostante e contro il potere che esclude, cancella e dimentica. Lo smontaggio – pratica inversa e complementare – svela il funzionamento della propaganda che giustifica il medesimo potere. Chi ha frequentato l’occupazione dell’Ex-Moi a Torino sa quanti reperti d’esperienza, documenti e memorie si sono depositati tra il cortile e le palazzine in sei anni d’esistenza. Molti sono andati perduti, alcuni sono stati salvati, altri possono ancora essere recuperati. Sappiamo anche come le istituzioni e gli organi di informazione abbiano confezionato discorsi a sostegno dello sgombero, mescolando le fosche tinte del “degrado” ai buoni sentimenti, e ipocriti, d’inclusione. La nostra opera di decostruzione resta attuale: questo settembre il sindaco della città ha vantato “la liberazione” delle palazzine come uno dei principali successi del suo governo. Ora la coscienza di un metodo traccia il possibile avvenire di una storia materiale dell’Ex-Moi e degli effetti dovuti allo sgombero.
Who Will Write Our History è un film di Roberta Grossman del 2018 ed è dedicato alla formazione degli archivi. Voci fuori campo leggono gli scritti salvati, mentre sullo schermo appaiono immagini di repertorio, interviste a storici e intellettuali a noi contemporanei, scene ambientate nel ghetto con attori che interpretano Ringelblum e i suoi collaboratori. Il film è una discreta ricostruzione del lavoro di Oyeng Shabes, eppure restituisce una versione convenzionale e poco problematica della storia delle vittime. Who Will Write Our History trascura le ombre livide e inquietanti che il gruppo clandestino ebbe la forza d’indagare: le contraddizioni interne al ghetto.
Ringelblum dedica pagine amare allo Judenrat e alla polizia ebraica. Lo Judenrat era il Consiglio Ebraico, organo amministrativo del ghetto creato dai nazisti e governato da membri della borghesia ebraica. A capo vi era Adam Czerniaków, ingegnere e senatore del governo polacco. “Il Consiglio Ebraico – scrive Ringelblum – ha adottato l’antica massima zarista: ‘Sta’ zitto. Non discutere’. Alle sue riunioni non è permesso discutere, e tanto meno mettere in dubbio qualcosa. […] Czerniaków è considerato un idolo. I suoi editti non devono essere messi in discussione, la sua parola è legge. Si può dire che in generale abbiamo adottato i principi del Führer”.
Nel marzo del ’41 il Consiglio collabora con i nazisti per reperire i lavoratori da impegnare nelle fabbriche tedesche, inoltre “[il Consiglio] né l’anno scorso né quest’anno ha mosso un dito per assistere le famiglie dei lavoratori coatti. E nemmeno, del resto, ha assistito i lavoratori. L’anno scorso, i rappresentanti del Consiglio, andati a visitare i campi, in realtà non li visitarono affatto; eppure, al ritorno riferirono che tutto andava bene”. Secondo Ringelblum “nei campi ci vanno solo i poveri. I figli dei ricchi lavorano nella polizia, o nelle organizzazioni della comunità […]; il diapason dello sconcio è che possono sempre sottrarsi ai campi pagando, e la cosa costa pochissimo”.
Altrettanto crude sono le note sul compito della polizia ebraica. Il 22 novembre ’43 otto ebrei sono stati giustiziati per aver tentato la fuga dal ghetto: “Resta il fatto che tutti i preparativi sono stati compiuti dalla polizia ebraica, il Servizio della Legge e dell’Ordine. Sono stati gli uomini della Legge e dell’Ordine a far uscire i condannati, uno per volta, quindi a legarli a un palo e infine bendare i loro occhi”. Dicembre del ’42: “Nel novanta per cento dei casi furono gli agenti della polizia ebraica a scoprire i nascondigli. Prima li scovavano, poi andavano ad avvertire gli ucraini e i tedeschi. Quei farabutti hanno sulla coscienza centinaia di migliaia di vittime”. Nonostante la rabbia e lo sconforto, Ringelblum ha la lucidità di individuare nello stesso progetto di dominio nazista l’origine dell’abiezione: “È un’idea del diavolo in persona, questo tentativo di ricorrere agli ebrei stessi per far morire di fame il Ghetto. D’altra parte, non è la prima volta che l’Occupante ha costretto la popolazione ebraica a scavarsi la fossa con le proprie mani”.
Resta ancora una domanda: perché le immagini tedesche che mostrano le differenze sociali nel ghetto sono ributtanti, mentre sono intense e necessarie, pur nel loro stridore, le note tratte dagli archivi? Se ogni rappresentazione è l’effetto di un montaggio manipolato in un contesto concreto, l’interpretazione critica deve considerare chi parla e scrive, da quale posizione e secondo quale fine. I membri di Oyeng Shabes ambivano all’obiettività, ma non erano neutrali e non descrivevano una realtà assoluta, distaccata dal loro presente. La cura dell’archivio era un’attività complementare all’azione politica nel ghetto. Sin dai primi giorni dell’occupazione nazista Ringelblum s’impegnò nell’assistenza della popolazione e dei profughi, senza collaborare con il Consiglio Ebraico. Era inoltre tra i promotori dei Comitati di Caseggiato, strutture di base in conflitto con il Consiglio che instaurarono un’organizzazione autonoma negli isolati. Il lavoro degli archivisti, ancora, era in connessione con il focolaio di resistenza clandestina, preludio della lotta armata: “Dobbiamo opporre resistenza, dobbiamo difenderci dal nemico tutti quanti, uomini e bambini”, scrive Ringelblum poco prima di affidare il diario alla terra. Nel tardo autunno del ’42 l’organizzazione ebraica di combattimento aveva esautorato lo Judenrat, aveva colpito i vertici della polizia ebraica e preparava la battaglia disperata della primavera. Così gli archivi, anche nelle loro denunce più scabrose, sono immanenti al tessuto politico.
Anche noi – attivisti del comitato di solidarietà dell’Ex-Moi o insegnanti della scuola – abbiamo operato in un contesto concreto, e complesso. Negli anni abbiamo denunciato le contraddizioni dell’accoglienza, i sogni urbanistici e gli interessi immobiliari, la continuità tra le amministrazioni della città, l’approccio superficiale o servile dei giornali. Eppure non siamo noi gli abitanti: la nostra lingua e il nostro ruolo mantengono ancora una posizione di forza. Per questo sinora è stato efficace lo smontaggio del discorso istituzionale, ma quasi assente, ancora, è la collezione di una storia orale, un archivio di testimonianze nere. Se tra le donne e gli uomini allontanati dalle palazzine vi sarà un “impulso” a esprimersi, avremo il compito di raccoglierlo e diffonderlo. Immagino i racconti di chi gestiva il ristorante, l’angolo del barbiere, il piccolo spaccio di bibite; testimonianze sulle condizioni di vita dopo lo sgombero; storie di chi raccoglieva il ferro, di chi vendeva oggetti ritrovati al Balon; note sul lavoro nei frutteti di Saluzzo, sul malessere dell’alcol, sulle tensioni interne tra le diverse nazionalità; e ancora testimonianze degli attivisti del comitato di solidarietà e degli insegnanti; una descrizione del funzionamento del magazzino, soprattutto durante i primi tempi dell’occupazione; i ricordi dei ragazzi finiti in carcere in seguito agli atti di resistenza; le memorie dei giocatori dell’Africa United. In merito allo stile, suggerisce ancora Ringelblum in una pagina del 1943: “Noi evitavamo di proposito di agganciare nella nostra attività giornalisti professionali, non volendo che venisse un lavoro standardizzato. Volevamo che il corso degli avvenimenti, le esperienze di ogni ebreo (e ogni ebreo, in questa guerra, rappresenta un mondo), fosse raccontato nel modo più semplice possibile, con fedeltà. Ogni parola superflua, ogni coloritura letteraria, ogni ornamento, stonava e ci faceva rabbia”. (francesco migliaccio)
Nota bibliografica. Le citazioni dal diario e dalle note di Ringelblum provengono da E. Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Appunti dal Ghetto, Castelvecchi, Roma, 2013 e da A. Nirenstajn, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Einaudi, Torino, 1958. Sugli archivi e la loro composizione ho consultato R. M. Shapiro e T. Epsztein, The Warsaw Ghetto. Oyneg Shabes-Ringelblum Archive. Catalog and Guide, Indiana University Press, Bloomington, 2009, e in particolare l’introduzione di S. D. Kassow. Sulla storia del ghetto, oltre al testo citato di Nirenstajn, ho consultato I. Gutman, Storia del ghetto di Varsavia, Giuntina, Firenze, 1996 e L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino, 1955.