«Mi chiamo Beatrice, sono venuta in Italia con mio marito. All’inizio abbiamo fatto il permesso di soggiorno qua. Mio marito a Napoli, io a Caserta. Poi siamo andati a Foggia a raccogliere i pomodori. Ma era un po’ dura e ci siamo spostati al nord, a Udine. Abbiamo lavorato nelle fabbriche di sedie di Rosazzo, San Giovanni e Cividale. Mio marito ha lavorato anche a Pordenone, alla fabbrica di arredo bagno Dolomiti. Dopo ho cambiato, ero stanca, il lavoro era troppo faticoso, e ho cominciato nel settore delle pulizie. Ho lavorato per diciotto anni, in regola. Nel 2008 era molto difficile trovare lavoro e ho pensato di andare a lavorare sulla spiaggia a Lignano Sabbiadoro, ma Lignano è lontano da Udine, la gente non ci abita, ci va solo d’estate e dopo tutti vanno via. Quindi ho cambiato idea, ho deciso di venire a Napoli, perché qua il mare è molto vicino. Per questo sono tornata indietro a Napoli, se no sarei rimasta ad abitare a Udine. Questa è la mia storia.
«Io vengo da Berekum, Ghana. Lì abita ancora la mia famiglia. Mio papà era un insegnante e mia mamma una sarta. Quando avevo quattordici anni mi hanno mandato in una scuola dove dormivo e studiavo, facevo tutto lì. Dopo tre mesi tornavo a casa. Ogni anno facevo tre times, come si dice? Dopo il terzo tempo facevo gli esami, se avevo avuto il pass andavo avanti. Dopo gli studi ho fatto un corso di insegnante per sei mesi. Poi mi hanno mandato in un paese e ho cominciato a insegnare. Mentre insegnavo sono andata a trovare mia mamma, che abitava in un altro paese, sempre in Ghana – mio papà e mia mamma sono separati –. Lì ho conosciuto mio marito. Mi sono sposata e dopo il matrimonio lui mi ha detto: “Guarda, mia sorella e mio fratello abitano in un paese che si chiama Italia, è un buon paese, ci sono soldi, abbiamo la possibilità di andare lì, andiamoci insieme”. “Ok, vai prima tu, e quando arrivi lì mi aiuti e io ti accompagno”, gli ho risposto. In quel periodo mio papà era un pensionato e in Ghana, se hai fatto bene il tuo lavoro, quando vai in pensione ti danno dei soldi ogni mese. Ho parlato con lui, gli ho detto che volevo viaggiare e mi ha lasciato un po’ di soldi.
«Siamo andati all’ambasciata italiana e ci hanno rilasciato il visto. In Italia c’erano i mondiali di calcio e chiunque andava all’ambasciata e mostrava qualche soldo, aveva il passaporto e il visto per venire. Una volta qui siamo stati fortunati perché quando siamo arrivati il governo stava dando il permesso di soggiorno agli stranieri. Abbiamo fatto la richiesta in questura e ci hanno rilasciato il permesso di soggiorno per cominciare a lavorare.
«Quando sono venuta a Napoli, mio marito abitava a Castel Volturno, al centro Caritas. Lì però c’erano solo uomini e per me aveva affittato una casa piccola. Dopo due settimane ha preso la sua roba ed è venuto a stare insieme a me. Poi ha detto: “Beatrice, andiamo a Foggia per i pomodori”. Allora abbiamo lasciato la camera a un signore e siamo andati a Foggia a raccogliere i pomodori.
«Siamo arrivati a Orta Nova, eravamo in tanti, tutti ghanesi, era estate. Siamo arrivati in questa piazza con la nostra valigia, ci siamo seduti a chiacchierare, c’era un supermercato dove siamo andati a comprare panini, pomodori e tonno, e drink. Abbiamo dormito lì per due giorni, il terzo giorno abbiamo trovato lavoro. È venuto un signore con una macchina e ci ha portati sul posto dei pomodori. Purtroppo quando siamo arrivati quel signore ci ha detto che non c’era posto per dormire nella loro casa, ma che c’era un palazzo grande dove potevamo andare. Quel palazzo non era un buon posto e quando lo ricordo mi viene da piangere.
«Il giorno dopo, non c’era acqua, non c’era niente. Siamo andati al campo di pomodori, abbiamo lavorato ma non eravamo contenti del pagamento, abbiamo litigato con la padrona, abbiamo preso la nostra roba e siamo andati a trovare un altro lavoro. Abbiamo camminato, camminato, camminato. In quel periodo non c’erano i telefonini, c’erano solo le cabine telefoniche. Siamo andati a Foggia, abbiamo trovato un altro posto. Era una casa abbandonata. Siamo entrati, abbiamo pulito e ci abbiamo dormito. Il primo giorno eravamo in pochi ma il giorno dopo sono venute altre persone. Io ero l’unica donna, tutti gli altri erano uomini. Lì abbiamo lavorato due o tre settimane, poi la padrona ci ha detto che i pomodori erano finiti e siamo andati in un altro posto. Anche lì c’era una casa abbandonata. Mio marito era molto stanco e si è ammalato. Era fine agosto. Ha detto: “Beatrice, adesso non possiamo più continuare, dobbiamo tornare a Castel Volturno”. Abbiamo preparato la nostra roba e siamo tornati. Due o tre giorni dopo siamo andati a Udine. Prima mio marito aveva pensato di andare a Como perché aveva sentito che era un buon posto. Ma poi aveva incontrato un suo amico che gli aveva detto: “George, a Como c’è troppa gente, vieni a Udine, lì non c’è nessuno”.
«Quando siamo arrivati a Udine non avevamo casa e la Caritas ci ha aiutato moltissimo. Tutta la nostra roba era lì; non solo la nostra, in quel tempo i ghanesi che arrivavano a Udine andavano tutti in Caritas e poi si fermavano in un giardino accanto. Restavamo lì fino alle 11, dopo andavamo in parrocchia a mangiare e il pomeriggio tornavamo ancora lì. La sera dopo mangiato ognuno andava in albergo o in altre strutture offerte dal Comune.
Noi dormivamo al Vienna Hotel, vicino la stazione di Udine. Poi abbiamo trovato altre soluzioni. Io sono andata in via Rivis, dalle sorelle cattoliche. Quelle che mettono le sciarpe bianche o nere. Ho abitato lì con altre donne e mio marito, che non poteva stare con me, abitava in una casa per uomini: l’Asilo notturno. Ma non era un buon posto e poco dopo si è spostato in via Volturno.
«Negli anni Novanta in via Volturno c’erano due palazzi, non palazzi, case. Una a sinistra e una a destra. Quella di destra era per i bianchi, quella di sinistra per noi. E c’era un parcheggio di cemento molto grande, dove ghanesi e nigeriani si incontravano in occasioni di feste o il fine settimana. Il venerdì sera dopo il lavoro tutta la gente andava lì a trovare gli amici. Lì poi c’era una signora, adesso è tornata in Ghana, che portava polenta con il sugo o con il pesce fritto, un mangiare speciale per noi ghanesi, e tutti gli uomini andavano da lei a comprarlo. C’era un ragazzo che faceva il kebab e tutta la gente che voleva il kebab con il drink andava da lui. Era come un mercato per i ghanesi, per gli stranieri, perché qualche volta veniva anche altra gente, non solo ghanesi. Chi ha abitato a Udine in quegli anni sa di via Volturno.
«Con il tempo le suore ci hanno dato una casa in vicolo di Pangrasso. Suor Carla mi ha detto: “Beatrice, parla con tuo marito, abbiamo trovato una piccola casa, è meglio che abitate insieme”. Siamo andati a vederla, mio marito ha detto che andava bene e ci siamo trasferiti. Quella in vicolo Pangrasso è stata la nostra prima casa in affitto a Udine.
«In quegli anni c’era tanto lavoro, soprattutto al nord, e nessuno andava in giro a cercarlo, lo si trovava tra amici o attraverso l’ufficio di collocamento. Per esempio, se io lavoravo in una fabbrica, il mio padrone veniva e diceva: “Beatrice, mi servono due o tre persone, se hai qualche amico domani mattina portalo”. Poi c’era l’ufficio di collocamento, avevamo il libretto e il cartellino rosso e con queste due carte trovavamo lavoro.
«A Udine c’era una signora che si occupava di lavoro, che ci diceva: “Oggi c’è un lavoro di sartoria”. La signora prendeva il mio cartellino rosso, scriveva il mio nome e poi diceva: “Vieni alle 11”. Io andavo, venivano altre persone, poi la signora vedeva chi aveva preso il cartellino rosso per prima. Se al lavoro avevano bisogno di tre persone, il primo, il secondo e il terzo che avevano preso il cartellino avevano il lavoro. Dopo hanno cambiato metodo. Si metteva un avviso davanti all’ufficio di collocamento con il numero di telefono e l’indirizzo, così chi era interessato chiamava. Se era una fabbrica di sedie, tu andavi e facevi una prova. Ti facevano subito il contratto per una settimana. Se dopo una settimana eri stata brava, il contratto continuava. Se dopo una settimana la padrona non si era trovata bene ti diceva: “Mi dispiace”. In quei momenti cominciavi a piangere perché avevi perso il lavoro. Era un problema, un grande problema. Pian piano abbiamo superato tutto questo. Qualche volta anch’io ho pianto sul posto di lavoro.
«Carteggiare le sedie non era il mio lavoro, ma ho imparato, però è stato difficile. Avevamo una macchinetta piccola con un bottone e la carta vetrata sotto, schiacciavi e cominciavi a lavorare. Dove la macchinetta non arrivava, dovevi fare con le mani. Con tutte e due le mani, per fare più veloce. Non potevi andare piano, bisogna fare tanto e veloce.
«C’era una signora, si chiama Marinella, che prima di iniziare il lavoro – noi iniziavamo alle 8 – veniva e diceva: “Oggi ognuno deve fare centocinquanta sedie”. La sera lei tornava a calcolare e se non arrivavi a centocinquanta era un problema. Un giorno ero stanca e non sono riuscita a fare tutto, e la signora ha detto: “Vai via, non venire più”. Quel giorno ho pianto tanto. Non sono tornata più. Però ho trovato un altro posto, ma anche lì la comanda era la stessa. Ho lavorato eh! Ho trovato un lavoro a Corno di Rosazzo. Lì fanno lettini per bambini. Erano due i capi. Ho lavorato due anni con loro. Nessuno mi ha mandato via perché erano buoni, questi due uomini. Poi ho lavorato in un’altra fabbrica, tutte fabbriche, tante tante. Poi ho avuto un incidente stradale, mi hanno portato in ospedale, mi hanno messo il collare. In quel momento ho detto: “Basta, adesso sono stanca”.
«Era il 2000, ho lasciato il lavoro in fabbrica e ho iniziato a lavorare con una ditta di pulizie. La mattina presto pulivamo un supermercato Despar, prima che la gente vi entrava dentro. Poi tornavo a casa e il pomeriggio andavo in una grande fabbrica che si chiama Snaidero, loro fanno solo cucine. Andavo in ditta, lasciavo la mia macchina, prendevo il furgone con tutte le cose dentro: scopa, pattumiera, tutto; e insieme ad altre due persone – io ero la capa – andavo fino a Majano, in provincia di Udine. Iniziavamo alle 4, pulivamo tutta la fabbrica, i tavoli, tutto bene bene. Alle 8, anche in inverno, riprendevamo il furgone e tornavamo a Udine, lasciavo la macchina e prendevo la mia. Arrivavo a casa forse alle 11 che ero stanca, mangiavo e andavo a dormire.
«Mio marito prima lavorava con l’agenzia. Poi ha trovato lavoro a Pordenone, cinque anni con Ceramica Dolomiti. Dopo ha lavorato da Edil Standard, poi da Electrolux a Pordenone, ma non tanto, mi pare solo un anno. Dopo non gli hanno rinnovato il contratto di lavoro. In quel periodo aveva difficoltà e siccome il suo lavoro non era fisso come il mio, ho deciso di pagare ogni tanto l’affitto. Poi lui ha comprato una macchina da portare in Ghana ma diceva che era sua. Ho detto: “Ok. Se io pago l’affitto e poi tu con i soldi che risparmi compri qualcosa solo per te allora io non pago più nulla”. Capito cosa sto dicendo?
«Ero stanca, perché ero io che lavoravo ogni giorno per pagare l’affitto e lui non voleva aiutarmi. Non si poteva più andare avanti così, ogni giorno lavoro, lavoro, lavoro, giorno e notte. Così abbiamo litigato e lui ha preso tutta la sua roba, l’ha messa in un container ed è partito per il Ghana.
«Poi ho perso anch’io il lavoro e ho deciso di andare via da Udine. Sono andata a Milano, ma anche Milano era un posto difficile. Quando sono arrivata sono andata in Caritas. Lì mi hanno detto che non avevano un posto per me e mi hanno dato l’indirizzo delle suore di Madre Teresa di Calcutta, a Bande Nere. Un palazzo molto grande, per sole donne, tutte straniere, che abitavano lì, mangiavano lì, dormivano lì. Sono stata un anno con loro, ma non ho mai trovato lavoro e ho pensato: “No, è meglio che vado al mio paese”. In quel tempo c’era la guerra in Libia, in Italia c’erano troppi stranieri e in ogni posto dove andavo mi dicevano che non c’era lavoro. Dicevano tutti così: “Non c’è lavoro”.
«Per un periodo andavo in Ghana e poi tornavo a Milano. Poi nel 2014 ho detto a mia mamma: “No, non torno più”. Dal 2008 al 2014 non avevo trovato un lavoro stabile ed ero stanca di cercarlo. Ho litigato con mia mamma e lei in ginocchio mi ha detto: “Beatrice, tutti questi anni tu non hai mai lavorato in Ghana, tutto il tuo lavoro l’hai fatto in Italia. Il Ghana è il tuo paese e tu puoi venire qua, ma solo quando tu sarai in pensione così anche se tu starai in Ghana il governo italiano ti aiuterà. Qui c’è l’ambasciata italiana e se dimostri che hai lavorato in Italia, forse ogni mese ti danno qualcosa per mangiare. Tu non hai più fiducia in Dio. Devi avere fiducia in Dio e provare ancora”. Ho detto: “Ok mamma, se tu mi dici così, torno in Italia”.
«Nel 2015 quando sono tornata in Italia ho pensato che era meglio andare a Udine. Sono passata da Roma e ho preso il treno per Udine. Ma quando sono arrivata mi hanno detto: “Beatrice, da quando tu sei andata via Udine non va bene, non abbiamo lavoro, tutti stiamo a casa”. Tre giorni dopo ho pensato: “Se non posso trovare lavoro qua allora voglio andare sulla spiaggia, forse lì c’è della possibilità per me”. Per questo sono tornata a Napoli, per lavorare sulla spiaggia. E grazie a Dio da quando sono venuta ogni anno vado a lavorare sulla spiaggia.
«Era la seconda volta che venivo a Napoli. La prima volta quando sono arrivata in Italia. Solo due mesi, prima di andare a Foggia a raccogliere i pomodori e poi a Udine. Quindi non conoscevo bene Napoli, non sapevo niente di Castel Volturno. Sì, sapevo della Caritas, perché mio marito ci aveva abitavo, ma non molto altro. Ed è stato difficile.
«A Napoli Centrale ho trovato una persona, alla quale ho raccontato la mia storia e quella persona mi ha detto: “Prendi la metro e vai a Fuorigrotta. A Fuorigrotta scendi e prendi l’autobus, chiedi di andare a Castel Volturno. Quando arrivi, vai a Pescopagano, lì ci sono tanti tuoi paesani”. Ho seguito le sue indicazioni e sono andata a Pescopagano. Lì ho trovato una stanza a casa di una famiglia. Poi ho incontrato un mio fratello, un paesano. Lui mi ha detto: “Beatrice, c’è un amico che abita a Destra Volturno. Se vuoi andiamo a vedere. Puoi abitare insieme a lui”. Quando ho visto l’appartamento ho detto: “Qua è largo, c’è la cucina, c’è una camera per me, c’è un grande giardino. Mi piace”
«Se a Udine non fosse diventato difficile trovare lavoro, io non sarei venuta qua. Perché sarei dovuta tornare a Napoli? A fare che cosa? Ma adesso lì non posso starci perché non c’è lavoro, mentre qua io so che pian piano arriviamo in aprile e vado sulla spiaggia.
«Ora sono contenta. Non conosco bene la gente. Esco solo per andare in Comune o al supermercato, altrimenti non esco. Apro il mio cellulare – what’s app ha aiutato le persone che rimangono a casa – e ogni mattina, quando mi sveglio, c’è il messaggio da vedere, c’è il download da fare, c’è la storia da leggere. Qualche volta io sto qua e non mangio neanche. Poi io studio, io studio molto. Quando uno va su internet ci sono tante cose da imparare, e io voglio sapere tante cose. Internet mi ha aiutato tantissimo. Qualche volta quando uno scrive, uno sbaglia, internet ti corregge subito. A me piace andare su internet. Internet ha preso tutte le mie ore di andare in giro». (salvatore porcaro)