Da: Repubblica Napoli del 28 gennaio
È ricominciata Astradoc, la rassegna che da alcuni anni propone al cinema Astra di via Mezzocannone i migliori documentari recenti. Occasione rara se non unica, visto il panorama alquanto depresso degli spazi per il cinema d’autore disponibili in città. Non a caso, alla prima proiezione la sala era strapiena, affollata da un pubblico in gran parte di giovani, che in questi anni hanno dimostrato grande interesse per l’iniziativa, forse anche per una sorta di “fame arretrata”, causata dalla scarsità estrema di offerte cinematografiche di qualità.
Fino a qualche tempo fa, infatti, era ancora possibile, nel corso di una stagione, intercettare due o tre rassegne costruite con cura, qualche retrospettiva lunga o breve, o anche soltanto una scelta di buone seconde visioni a un prezzo più accessibile – alcune resistono in periferia, ad Agnano e Ponticelli per esempio –, senza dover aspettare le proiezioni delle arene estive. Da qualche anno non esiste più nemmeno quello. Restano i soliti film, nelle non certo numerose sale cittadine, anche se ognuna va moltiplicata per tre o per quattro grazie all’inganno delle “multisale”. E non è un caso nemmeno che Astradoc abbia puntato decisamente sul documentario, sempre meno genere a parte, fratello minore del cinema “vero”, e sempre più specchio di un modo di fare film che la tecnologia sta trasformando profondamente. La consacrazione di “Sacro Gra”, primo documentario a vincere il festival di Venezia, è l’esempio più eclatante del mutamento in corso, anche nei gusti della critica e del grande pubblico. Ma anche se osserviamo il panorama napoletano, è innegabile che proprio il “cinema del reale” abbia fornito in anni recenti alcune tra le rappresentazioni più acute e variegate della nostra società.
A fronte di tanti scrittori fermi a contemplare il proprio ombelico, oppure bravi a usare il fondale della città per insaporire schemi narrativi soliti, e mentre il teatro celebra, adatta, riscrive testi e autori dei secoli scorsi, questa nuova leva di cineasti si cimenta direttamente con il presente, usando la leggerezza dell’equipaggiamento – impensabile per chi faceva cinema fino a vent’anni fa – per guardare le cose più da vicino, ma stando attenti a calibrare la distanza, a non diventare invadenti. Sembrano quasi gli unici rimasti con la curiosità e la voglia per confrontarsi con l’altro, con il diverso da sé. Basta passare in rassegna alcuni dei temi toccati nelle loro opere. Leonardo Di Costanzo ci ha dato limpidi ritratti di bambini e adolescenti, ma anche di adulti incapaci di trovare con loro un terreno comune: in casa, a scuola o sulla strada; Vincenzo Marra ha portato la sua telecamera tra gli ultras, nelle aule di un tribunale, nel carcere di Secondigliano; Andrea D’Ambrosio nelle discariche dell’hinterland; Pietro Marcello ha raccontato i pendolari che salgono da sud a nord in cerca di lavoro; Abate e Oliviero le lotte di chi occupa le case in periferia; Luglio la difficile convivenza tra giovani rom e napoletani; Sannino la storia di un pugile ragazzino; Di Vaio la vita a metà delle donne dei detenuti. Alcuni tra questi, e anche altri registi, hanno realizzato opere di finzione che nello stile, nella scelta dei temi e dei personaggi risentono in maniera evidente delle esperienze fatte con il documentario. E qui citiamo solo gli autori più maturi. Molti altri si cimentano a partire da questi e altri modelli, e l’esistenza di case di produzione che hanno deciso di restare in città e di concentrarsi su questo tipo di film – la “Figli del Bronx” di Di Vaio e soci, per esempio, o la “Parallelo 41” di Antonella Di Nocera – potrebbero incoraggiarli sulla strada intrapresa, aiutarli a crescere.
Una scena in espansione che sconta però arretratezze profonde su altri terreni, a cominciare dalla distribuzione. Ancora oggi, per la maggior parte dei documentari italiani, anche quelli migliori, la programmazione in sala è da considerarsi una chimera. Ci si accontenta dei festival – a Napoli ce n’è uno che sta crescendo bene, il festival di cinema e diritti umani –, oppure di serate-evento per presentare il film, e infine delle rassegne. Ma almeno a Roma, Milano, Torino, Bologna qualcosa comincia a muoversi, alcune sale sembrano convincersi che fare spazio a questi film potrebbe diventare un investimento, e non solo un fiore all’occhiello. A Napoli il cinema Astra è gestito dall’università Federico II, che di mattina lo ha destinato alle lezioni e di sera lo concede una volta alla settimana ad Astradoc. È ancora poco. Si potrebbe fare di più. Ma potrebbero fare di più anche i gestori privati delle sale cittadine. E non solo loro. L’assessore comunale alla cultura, che si dice senza risorse, potrebbe accorgersi di quel che si muove intorno a lui e farsi mediatore per qualche iniziativa virtuosa e non episodica. L’assessore regionale, che le risorse le ha, potrebbe smettere di concentrarle in pochi settori secondo criteri non sempre trasparenti, e provare a dare respiro a chi ne ha bisogno davvero, e se lo merita. Vista l’accoglienza del pubblico, e le energie messe in circolo, ne varrebbe la pena. (luca rossomando)