
A Napoli dal 17 novembre al 2 dicembre sugli schermi di diverse sale cinematografiche sarà possibile rivedere, in lingua originale e in versione integrale, le opere del cosiddetto “primo periodo” di Jean-Luc Godard (1930-2022), dai cortometraggi degli anni Cinquanta fino a Week End, film che peraltro termina con una didascalia eloquente (Fin… de Cinema), quasi a preconizzare quel suo passaggio al cinema militante dopo gli eventi del ’68. La curatela collettiva è di Armando Andria, Gina Annunziata, Alessia Brandoni, Fabrizio Croce, Salvatore Iervolino, Anna Masecchia, Marcello Sannino, per Ladoc.
GODARD ANNO 1 arriva, appunto, a un anno dalla morte del regista che più d’ogni altro ha saputo incarnare il suo secolo gravido di contraddizioni e di sconfitte per una certa idea di Cinema (“Il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo”) e per una certa idea di Mondo (“Rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole”). Filo rosso di tutte le giornate di proiezione è un “Perché Godard?”, approfondimento critico che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Felice Cimatti, Rezza/Mastrella, Leonardo Di Costanzo, Claire Simon, Antonio Capuano. Approfondimento che non vuole essere una ricapitolazione melanconica del grande cinema che fu, o una pedante vivisezione dei film, ma un modo per trovare aderenze e scontri con l’industria e il cinema contemporanei. La tesi dei curatori è che Godard è vivo più che mai, che ci serve sia nel cinema che nella critica. Perché?
Jean-Luc Godard ha sempre sostenuto che fin dal suo primo film, Fino all’ultimo respiro, prendesse i suoi personaggi “sul vivo” (mai “sul serio”). La teatralità manifestamente esibita delle gag, quel mélange di pianti e risa, paradossi e filosofia, revolver e pubblicità, hanno catturato tutte le generazioni riflesse in quei personaggi anticonformisti, esistenzialisti, militanti, presi e portati al cinema come nessuno aveva mai osato prima. I volti, i gesti, le parole di Anna Karina e Belmondo, Jean Seberg, Anne Wiazemski e Jean-Pierre Leaud sono ormai canone e hanno deciso del destino di una quantità di autori e autrici successive. Forse non sarebbe neppure peregrina l’idea che il geniale montaggio anti-sintattico di Godard, dovuto sia a ragioni soggettive (sfrontatezza dell’autore) che oggettive (limiti di produzione), fosse il sintomo del generale sentimento antiautoritario e anarchico dei giovani del dopoguerra, per intenderci quelli formatisi su Temps Modernes e sul neorealismo italiano, su Sartre e sulle malizie dolceamare di Bergman. “Non fate quello che volete, fate quello che potete”, ripeteva spesso a proposito del lavoro sul set. Il low-budget come opportunità piuttosto che come limite, l’idea di un cinema enciclopedico e totale, capace, con dei propri codici, di essere filosofia, sociologia, ideologia, poesia: insomma il cinema che dilata le proprie possibilità, e in questo antitetico ai film di forte sceneggiatura, alla grande storia. Quelli di Godard sono film-docu, film-saggi, meta-film, al limite film-comizi. Ha detto una volta Jean-Marie Straub: “Fino all’ultimo respiro è un documentario con Belmondo e Jean Seberg”.
Godard inaugura quindi un certo cinema moderno, amato e odiato: nei suoi film i personaggi parlano direttamente allo spettatore, il grado di libertà che si percepisce è massimo, il regista stesso si autocritica e la neutralità dell’obiettivo viene portata dinanzi al tribunale della ragione e dell’ideologia: non ci sono immagini innocenti, né registi oggettivi, né “pura” osservazione. L’attore non deve recitare ma citare, per usare l’espressione di Brecht. Nel primo periodo emerge con prepotenza la contraddittorietà di un uomo di estrazione borghese, guidato nel suo anarchismo idealistico dall’amore per la bellezza e per la purezza del cinema. A poco a poco il suo anticapitalismo romantico diviene più misurato, mediato per così dire da Marx e soprattutto da Brecht. Dopo Pierrot le fou, del 1965, i film successivi saranno caratterizzati da un punto di vista maggiormente documentaristico, giornalistico, tuttavia innestando nel documentario la finzione e viceversa. “Descrivere vuol dire osservare delle mutazioni”, e verranno partoriti Due o tre cose che so di lei (1967) sulle banlieue parigine e sui processi di gentrificazione di quegli anni, La cinese (1967), rappresentazione-pedinamento degli universitari militanti di Nanterre, Il maschio e la femmina (1966) sui giovani parigini, l’industria culturale e la precarietà economica.
I primi film di Godard sono in sintesi la promesse de bonheur di cui parlava Stendhal: dopo il ’68 Godard proverà, nel collettivo Dziga-Vertov, a fare politicamente dei film e non più “film politici”, giocandosi tutto sulla produzione e non sull’opera. Fallirà. Continuerà.
Nella pienissima maturità, caratterizzata da una sorta di autoesilio in Svizzera e apparizioni pubbliche alquanto rade, si tratterà per Godard di fare i conti col naufragare della sua idea folle, cioè che il Cinema potesse salvare il XX secolo. Il tono apocalittico e oracolare della sua scrittura e delle sue citazioni (riferimenti principali dei suoi ultimi anni saranno Anders, Arendt, Weil, Benjamin) troverà un concreto contrappunto nelle violente requisitorie contro l’imperialismo americano e quello dei suoi satelliti, da Israele all’Europa “ricca”, ai caschi blu, oltre che contro la razionalità tecnica, contro la ragione strumentale, senza tuttavia scadere in proposte premoderne o irrazionalistico-magiche. Nasceranno opere sublimi, un disperato tentativo di dare voce a chi non ha voce, di salvaguardare qualcosa di già perduto. Sul tardo Godard è prevista anche la prima proiezione napoletana di Le livre d’image (2018), suo ultimo film.
L’attualità a un tempo etica, estetica e politica di Godard, quel suo principio di fondo, il faut continuer, rendono degni di attenzione i dibattiti e le proiezioni in rassegna. (salvatore iervolino)
A questo link il programma completo della rassegna