Incontriamo Luigi (nome di fantasia) in un bar del centro di Napoli, durante una piovosa serata di inizio novembre. Luigi è un vulcanologo e lavora all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, dove si occupa di Vesuvio e Campi Flegrei. Da qualche tempo, però, la grande caldera che si estende per chilometri a ovest della città di Napoli ha concentrato gli interessi scientifici dell’équipe in cui Luigi opera.
Ci incontriamo a pochi giorni dalla tafazziana uscita del ministro della protezione civile Musumeci, che il 31 ottobre aveva parlato di un possibile innalzamento del livello di allerta da gialla ad arancione, in riferimento al rischio vulcanico dell’area dei Campi Flegrei. Dopo aver sentito la Commissione grandi rischi – Settore rischio vulcanico, e aver preso atto del “coinvolgimento di magma nell’attuale processo bradisismico di sollevamento del suolo”, il ministro aveva rilasciato a fine ottobre un comunicato contribuendo ad aumentare il panico tra i cittadini dell’area, che già fanno fatica a ricevere comunicazioni e dati comprensibili dalle istituzioni locali.
Luigi ci spiega che già intorno al 2000 i Campi Flegrei hanno invertito il trend di subsidenza del suolo. Si tratta di un processo non nuovo, che l’area ha vissuto per esempio con la crisi del 1970 e nel biennio 1982-84 quando, in concomitanza con forti scosse di bradisismo, superiori anche ai quattro gradi della Scala Richter, il suolo ha interrotto il suo processo di abbassamento e ha iniziato a innalzarsi. Per quanto riguarda quest’ultima crisi, la curva di innalzamento ha cominciato a salire lentamente dal 2006, poi sempre più velocemente fino a una piccola impennata a partire dal 2012, quando si è reso necessario un passaggio dal livello di allerta verde a giallo.
Proprio mentre siamo con Luigi, però, le agenzie di stampa battono i report relativi all’incontro del pomeriggio tra Musumeci e i sindaci della “zona rossa”. Dopo aver presumibilmente ricevuto le rimostranze dei primi cittadini per la sua uscita, il ministro ha fatto retromarcia smentendo la possibilità di un passaggio a livello arancione.
Sebbene la nostra chiacchierata fosse avvenuta prima di questa retromarcia, Luigi ci aveva fornito elementi utili a capire come il rapporto tra enti di ricerca e relativi esperti, esecutivo, amministrazioni locali e in ultima analisi cittadini, sia uno dei nodi più delicati nella gestione dell’attuale crisi bradisismica. Lo scenario si è complicato dal novembre 2022, quando alla Protezione civile, struttura incardinata dai primi anni Novanta presso la presidenza del consiglio dei ministri, è stato dedicato un ministero ad hoc. A presiederlo è Nello Musumeci, già ministro per le politiche del mare e per il sud, che ora può proporre decreti-legge, come quello poi emanato a metà ottobre (decreto “Campi Flegrei”), e rilasciare dichiarazioni con maggiore autonomia rispetto a quanto avesse fatto finora il capo dipartimento della Protezione civile.
Luigi ci spiega che la Commissione grandi rischi – Settore rischio vulcanico rappresenta la massima espressione accademica sui temi della vulcanologia. È nominata dalla Protezione civile e ha il compito di fare domande specifiche ai diversi centri di ricerca competenti in materia: l’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv, alcuni centri del Cnr, il Centro Studi P.lin.i.u.s. dell’Università Federico II e ReLuis, la rete dei laboratori di ingegneria sismica e strutturale attivi in tutta Italia, istituzione già presieduta dal 2007 al 2019 dall’attuale sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi.
Sulla base dei dati prodotti dai centri di ricerca e analizzati dalla Commissione, la Protezione civile disegna diverse opzioni a breve, medio e lungo termine, che dovranno essere messe in pratica a seconda dell’esigenza dai sindaci dei comuni interessati. Questi ultimi, resi edotti della situazione solo al termine di questo giro di walzer, e potendo contare su risorse molto esigue, finiscono – citiamo Luigi – «per restare col cerino in mano», dovendo anzi fare da argine alle paure dei cittadini, che rispetto ai sindaci vengono informati in ulteriore ritardo e in maniera ancora meno precisa.
Se è vero che i fondi per una evacuazione arriverebbero dal governo (e in questo senso si spiega l’uscita del ministro, che sembra aver voluto dire ai suoi colleghi dell’esecutivo: “Ho bisogno di soldi: preparatevi!”), è anche vero che la responsabilità organizzativa della gestione emergenziale spetterà ai comuni, che appaiono allo stato attuale abbastanza impreparati. Manca, per esempio, un qualsiasi tipo di filtro tra le istituzioni nazionali, quelle locali e i cittadini. «Non esiste – spiega Luigi –, che io sappia, interlocuzione tra le amministrazioni e la cittadinanza. All’Osservatorio Vesuviano, per esempio, c’è un telefono per le emergenze, ma la gente ci chiama per parlare dei propri problemi, perché non sa a chi altro rivolgersi. Chi fa i turni di sorveglianza nella sala di monitoraggio a volte fa anche da supporto psicologico, tipo per la mamma col bambino che chiama perché la casa vibra troppo. Dovrebbe chiamare i vigili del fuoco o un ufficio comunale ad hoc, ma il filtro amministrativo tra la scienza e le persone è inesistente».
L’eventuale passaggio del livello d’allerta da giallo ad arancione, al momento non all’ordine del giorno, comporterebbe una serie di provvedimenti molto complessi nella loro attuazione. Al di là dello spostamento dei privati cittadini che potrebbero muoversi a livello volontario, bisognerebbe per esempio evacuare le carceri e gli ospedali della zona rossa (i penitenziari di Nisida e Pozzuoli, gli ospedali La Schiana, San Paolo, Fatebenefratelli, più cinque Rsa e sei case di cura). Un’evacuazione che, al netto dei piani di dislocazione istituzionali, si interseca con il complesso tema delle trasformazioni urbane e con la (mancanza di) visione, da parte delle istituzioni locali, della città: c’è qualcuno che si sta interrogando sulle esigenze dei cittadini rispetto a spostamenti già di per sé traumatici e in molti casi fisicamente provanti? Vengono considerate, nell’ambito di questo processo, le trasformazioni in termini di turistificazione, l’inaccessibilità degli affitti, le speculazioni in atto sugli appartamenti di una percentuale altissima di quartieri di Napoli e Pozzuoli? È noto alle istituzioni (e se sì, qual è l’idea di gestione del fenomeno?) che in quartieri come Bagnoli e Agnano, o in comuni come Pozzuoli, è già in atto un processo di spostamento da parte di cittadini a cui, in molti casi, non resta che andare ad abitare a decine di chilometri di distanza dal proprio lavoro e dai propri affetti, senza un supporto di alcun tipo in caso di fragilità (sanitarie, assistenziali, familiari, legate alla difficoltà di utilizzo di mezzi di trasporto privato e così via)?
Sembra di no, considerando che le risorse di cui si parla nel decreto Campi Flegrei vengono stanziate (e per fortuna vengono stanziate!) quasi esclusivamente per la valutazione e la messa in sicurezza di edifici nella zona rossa. Le vite delle persone invece si stanno trasformando, mentre qualcuno lascia il proprio territorio e la propria casa, e molti altri sono obbligati a vivere in situazioni emotivamente molto delicate, sbrigandosela da sé, perché di tutto ciò nessuno sembra pre-occuparsi. (gloria pessina / riccardo rosa)
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Pubblichiamo a seguire alcuni estratti dell’intervista fatta a Luigi, che non abbiamo riportato nel testo che avete letto per ragioni di spazio, ma che ci sembrano interessanti.
Come funziona il lavoro nell’Istituto?
L’Istituto ha diverse sezioni sparse sul territorio nazionale, delle quali tre sono osservatori: quello vesuviano, che si occupa dei vulcani campani, quello etneo, che si occupa dei vulcani siciliani, e l’osservatorio nazionale terremoti, che fornisce dati sismici su scala nazionale e che ha sede a Roma. È un ente relativamente giovane, nasce alla fine degli anni Novanta con lo scopo di studiare le attività sismiche e vulcaniche in Italia. Napoli è concentrata sugli studi vulcanologici, con l’osservatorio vulcanologico più antico al mondo. Il centro degli studi è tra Vesuvio, Campi Flegrei e Ischia, anche se le attività di ricerca e monitoraggio si estendono anche alle Eolie. A Napoli lavorano un centinaio di persone, tra tecnici e amministrativi. La rete che si estende sui tre vulcani si aggancia alla rete nazionale sulla deformazione del suolo e i segnali sismici, che sono utilizzati anche per la localizzazione di eventi sismici a scala regionale: se avviene un terremoto in Appenino, alla rete nazionale servono anche i dati registrati sulla stazione del Vesuvio.
Come si vive un momento come quello che stanno attraversando i Campi Flegrei all’interno dell’Osservatorio?
C’è ovviamente un enorme interesse per il fenomeno, ma allo stesso tempo è il nostro lavoro, in un certo senso “ordinaria amministrazione”, seppure in una fase particolare. I Campi Flegrei sono vulcani non in eruzione, è difficile avere il quadro completo della situazione. Cosa più semplice è per esempio sull’Etna, perché sai che è un vulcano attivo, che erutta con frequenza e sai che quel fenomeno ha una tendenza. Prima del 1538, con la formazione del Monte Nuovo, non c’era nessuna idea sull’attività dei Campi Flegrei. Per quell’attività ci sono delle testimonianze storiche, ma non c’è documentazione strumentale, che è quello che ti fornisce degli elementi decisivi.
In questo momento stiamo lavorando davvero tanto, ognuno elabora dati del passato, in maniera diversa, per avere un quadro generico più ampio. I dati sono quelli, si tratta di interpretarli. Le piccole variazioni possono dirci tanto su come si comporta un determinato fenomeno, che tipo di sismicità ha, e questo per esempio ti aiuta a capire come mai l’attività si concentra più su una zona che su un’altra.
Quali sono i punti di discussione più importanti?
Una discussione tecnica è sul perché ci sia così tanta sismicità localizzata nella zona Astroni-Pisciarelli. È una cosa che non cambia lo scenario ma può darti degli elementi importanti. Poi c’è la domanda sul magma, che al momento è plausibile si trovi intorno agli otto chilometri di profondità, anche se poi ci sono altri dati che evidenziano come la “spinta” del sollevamento della caldera dipenda da una sorgente localizzata a tre-quattro chilometri, ma potrebbe anche trattarsi di acqua bollente, come dimostrano molti studi, anche molto recenti. Questa è una interpretazione, ci sono ovviamente delle incertezze, ma in molti casi è quasi impossibile dire “sicuramente questo” o “sicuramente quello”. Quando ci sono elementi sufficienti lo si dice, si interloquisce con la Protezione civile che fa le sue valutazioni sui rischi e sulle allerte. Noi forniamo i dati e i possibili scenari a breve, medio e lungo termine.
Che tipo di confronto c’è tra Commissione grandi rischi e Ingv?
Per tradurre il nostro linguaggio la Protezione civile si affida alla Commissione grandi rischi. La commissione prepara delle domande e i vari osservatori di ricerca devono dare delle risposte. In altre fasi, nel passato, le domande erano più specifiche, mentre recentemente si sono fatte più scientifiche, chiamando anche grandi esperti dell’università. La commissione sceglie autonomamente gli esperti da chiamare, che variano di volta in volta. La vecchia commissione era meno interventista, ora lo è molto di più. Si tratta dei maggiori esperti accademici in ambito vulcanologico e hanno la loro visione sui Campi Flegrei: prima di insediarsi pubblicarono come équipe un articolo (nel 2021), in cui si sosteneva che la situazione di oggi era una situazione al limite tra l’allerta gialla e arancione, e quindi una volta che si sono ritrovati nella commissione non potevano smentirsi.
La commissione viene nominata dalla Protezione civile. Questa cosa che il ministro prende parola e fa dichiarazioni così nette è un’anomalia rispetto all’iter precedente, ricorda un po’ la fase di lockdown del Covid, in cui prima usciva la notizia e poi il comunicato. Si parla apertamente di un cambiamento di stato di allerta ma non viene reso chiaro il perché. In generale credo che non sia corretto fare una dichiarazione in cui si dice “stiamo valutando il passaggio”, perché scientificamente non significa niente, e al contrario crea un allarme inutile.
Come stanno lavorando i comuni della “zona rossa” a tuo avviso?
Mi sembra che i comuni stiano comunicando poco con i cittadini. Naturalmente Napoli si attenziona di più di altri comuni, cosa di cui ti accorgi anche vedendo l’equipe di cui dispone rispetto per esempio a Pozzuoli, parliamo dei centri di ricerca della Federico II, direttamente legati alla figura del sindaco Manfredi. L’équipe di Napoli che studia gli edifici ha avuto un confronto diretto con i ministri per il decreto Campi Flegrei, una voce in capitolo su quanti soldi stanziare, che schemi tecnici utilizzare per gli edifici, quali parametri, quali priorità.
Non è molto chiaro ai cittadini cosa potrebbe succedere nel caso in cui si arrivi addirittura a una allerta rossa…
Il passaggio all’allerta rossa significherebbe che il magma sta risalendo. Questo non significa che erutti subito, ci può mettere settimane, mesi, ma potrebbe anche non eruttare per niente, anche se questa opzione è molto difficile. Sicuramente ci sarebbero dei forti segnali, perché il magma inizia a migrare verso la superficie indirizzandosi verso una determinata zona, inizia a spaccare di più, ci sarebbero terremoti più frequenti. Pensiamo a quello che succede in Islanda negli ultimi anni o a cosa è successo sull’isola di La Palma nelle Canarie. Lì la deformazione e la sismicità hanno indicato chiaramente, con giorni di anticipo, la zona in cui si sarebbe aperta la bocca eruttiva. Per quanto riguarda i Campi Flegrei, consideriamo che il vulcano va da Quarto a Monte di Procida, da Posillipo a Torregaveta, e ha delle aree di maggiore apertura che si sono concentrate verso il centro, intorno alla zona Agnano-Solfatara-Astroni-
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