Il 10 maggio scorso è stato presentato al laboratorio Le Scalze di Montesanto, a Napoli, Fatti fummo, libro di esordio di Augusto Penna, pubblicato dalla casa editrice napoletana Magmata. All’iniziativa ha partecipato lo scrittore scozzese Irvine Welsh, che ha scritto la prefazione al volume e ha accompagnato Penna nelle presentazioni dei giorni successivi a Roma e a Milano. Prima della presentazione napoletana abbiamo avuto modo di incontrare Welsh e, più che intervistarlo, abbiamo scambiato con lui idee e impressioni sul nostro presente, su musica, letteratura e politica.
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Torni a Napoli a tre anni di distanza dall’ultima volta, che poi era la tua prima per un evento pubblico in Italia. Che sensazioni hai?
Ho ricordi molto belli, sono stato al Museo Nazionale per suonare e leggere alcuni brani di Trainspotting. È un posto meraviglioso, è stata un’esperienza fantastica.
Cosa fai in questa fase della tua vita?
Suono. E scrivo. Ho una scadenza per l’estate, sto lavorando alla seconda stagione della serie-tv tratta dal mio romanzo Crime, la gireremo a fine agosto. Poi c’è un libro in uscita sempre ad agosto, e sto partecipando alla scrittura di un musical di Trainspotting che porteremo nel West End londinese, probabilmente la prossima primavera, per il quale ho fatto anche le musiche insieme al mio partner Steve.
Sei sempre stato molto legato alla musica, oggi lo sembri più del solito…
Si, sto facendo il dj, porto in giro una sessione di techno che dura un paio d’ore. Ho a disposizione un po’ di tempo e posso fare le cose che voglio fare.
Di certo non sembri uno a cui piace troppo andare in giro a parlare del suo lavoro…
C’è da dire che non ho fatto niente per due anni, come tutti d’altronde. Qualche anno fa avevo fondato un’etichetta discografica, all’inizio sembrava andar forte, ma con il Covid e i lockdown le cose hanno cominciato a non girare bene, e ora ne sto pagando il prezzo. Questo c’entra anche con il libro di Augusto, che ha una lettura nuova, interessante ma leggera su questi temi. Prendi la musica, ormai è morta. Non ci sono più i club notturni, non si programmano eventi, rave nemmeno a parlarne, non ci sono dj… Cosa puoi fare in questa situazione?
Già, cosa puoi fare?
Io ho un appartamento a Edimburgo da trent’anni, ma non conosco quasi nessuno lì, perché non ci sono mai, sono sempre in America o a Londra. La mia compagna invece ha un pub da quelle parti, lei è una inserita nella zona, e ha un atteggiamento del tipo: “Devi farti conoscere dalla gente, il pub potrebbe essere una buona occasione per farlo, mentre invece tu te ne stai lì a mettere musica da solo, sei un antisociale, respingi le persone…”. E in effetti io sono proprio così! Capisco che se in un posto non ci sei mai non lo tratti con lo stesso rispetto che avresti se ci fossi sempre… per cui sì, forse faccio fatica a interagire con gli altri, faccio un sacco di casino con la musica, e spero sempre di non incontrare nessuno la mattina giù per le scale. È lo stesso motivo per cui ho trovato il libro di Augusto interessante, perché l’idea è che noi tutti dobbiamo giocoforza entrare a far parte di un’altra comunità, che nemmeno ci rendiamo conto che esiste. Il protagonista di questo libro ha uno shock quando vede la vita degli altri. Tu credi di essere il pazzo della situazione, ma poi ti rendi conto che sono loro quelli un po’ pazzi…
A proposito di comunità: negli ultimi decenni in Gran Bretagna si sono sviluppati dei filoni narrativi interessanti che hanno raccontato tanto la working class quanto il proletariato marginale. Tu l’hai fatto per molti anni: hai l’impressione di far parte di un filone, individui questa continuità?
Oggi parlare di classi in senso tradizionale è complicato. Abbiamo creato un sistema economico in cui tutto è stato finanziarizzato, tutto è capitale, mentre i salari crollano e noi diventiamo parte di una sorta di immenso precariato urbano. Non ci sono più i capitalisti a distruggere le classi, ma c’è un sistema economico che sta distruggendo tutto, risucchiando tutto in un buco nero. Le persone si trovano in perenne guerra una con l’altra, e questo ha un impatto su tutto: sugli equilibri sociali, sulle condizioni di genere, sulla cultura, perché molta della nostra cultura, della cultura contemporanea, deriva dalla cultura “media”, dalla cultura di strada. Alcuni libri, compreso quello che presentiamo oggi, possono essere importanti perché è importante che la gente torni a percepirsi come una comunità. È un’esigenza che cresce in parallelo alla degenerazione dell’economia di mercato: tutte queste persone che sono state rese invisibili ma che sono attorno a noi, e vicino a noi, sono il nostro futuro. Io credo che il futuro sia in piccole comunità locali. Il fatto che nel futuro ci sia la cittadinanza globale esclude l’idea di un proletariato in senso marxista, perché l’industria è stata smantellata. Quello che avremo, invece, sarà una polarizzazione ancora più netta tra le élite e la sterminata massa dei cittadini globali, e anzi è probabile che le stesse élite diventino sempre più esigue, perché questa macchina ha la capacità di risucchiare tutto ma anche di autodistruggersi, ed è quello che io credo stia per succedere.
Un processo comunitario locale è stato teorizzato vent’anni fa a livello politico, ma nella cultura, nel cinema, nella letteratura, anche nei tuoi libri, una crisi del sistema vigente si intravede già da prima. Per esempio, nel tuo caso attraverso gli occhi di questi personaggi che odiano il proprio paese in quanto istituzione, odiano i nazionalismi, mentre l’unica appartenenza che riconoscono è quella iper-locale…
Già, qualcosa che voi in Italia conoscete bene, con i vecchi comuni, Genova, Firenze, Machiavelli… Io credo che stia arrivando il tempo di tornare verso quel tipo di comunità. O quantomeno lo auspico. Vedi, se prendi tutti quei tizi alla Bill Gates, che si credono e si mostrano come dei filantropi… loro sanno benissimo che la finanza, il capitale, sono concentrazioni di potere, e non intendono mollarlo. Non saranno certo loro a fermare le storture di questo sistema. Non sono credibili quando dicono che sarebbe giusta una ridistribuzione della ricchezza, perché al massimo si pongono come dei benefattori, come qualcuno che crede di avere il pieno controllo di tutto e di poter decidere. In realtà è tutta vanità, ego. Possono controllare solo i coglioni.
Avevi le idee così chiare quando hai iniziato a scrivere di questi personaggi?
Mi piacerebbe dire di sì, ma non puoi dirlo se non lo vedi. Nel corso della mia vita ci sono state cose grosse come la repressione dei minatori da parte della Thatcher o i controllori di volo con Reagan (il licenziamento di tredicimila lavoratori in sciopero nel 1981, ndr). C’è stata una deregolamentazione del capitale e una irregimentazione degli esseri umani; le persone sono state sempre più bloccate, gli viene impedito di fare cose e il flusso di denaro è diventato fuori controllo. Questa estraneità è diventata la cosa naturale, mentre i nostri diritti e le nostre vite sono la prima cosa che viene messa in discussione in ogni legislatura, in ogni parte del mondo. Le uniche cose che sono in grado di dire sono: le persone non possono fare questo o quello, mai che si dica che il capitale deve essere controllato in qualche modo. Questo è un tabu, e questo è il mondo che ci hanno lasciato in eredità il Thatcherismo e il Reaganismo. Ma se lo scopo di ogni attività economica è il benessere delle famiglie, è produrre del bello per le persone, case buone, scuola, lavoro, prospettive di vita, e oggi mi pare chiaro che non lo si riesca più a fare… vuol dire che siamo arrivati al punto di non ritorno, vuol dire che il sistema è inutile alle persone.
Tu hai vissuto a lungo a Dublino, ora vivi tra Edimburgo, Londra e Miami. Come ti muovi e come ti percepisci nella città globalizzata, in trasformazione?
Beh, i processi di trasformazione che state vivendo qui a Napoli, a Londra, a Edimburgo e in tante altre città europee vanno avanti da anni. È un processo distruttivo: le caratteristiche dei luoghi si perdono, le specificità diventano omologate, prive di interesse. Una cosa interessante è che con il Covid alcune persone che avevano una seconda o una terza casa l’hanno lasciata, questo potrebbe voler dire un ritorno delle persone che sono state espulse, ma in verità per ora questo non sta succedendo. L’alternativa è una concentrazione ulteriore delle grandi proprietà, un processo che si abolisce solo con la collettivizzazione, l’abolizione del possesso. Qualcosa che potrebbe avvenire domani, o tra cinque anni, o chissà.
Nel frattempo, trovi che nei tessuti urbani lontani da queste concentrazioni di ricchezza continuino a succedere fenomeni culturali interessanti?
Le persone quando sono insieme producono sempre cose interessanti. E i posti migliori in questo senso sono quelli in cui le persone riescono ancora a incontrarsi, a non cedere alle pressioni del capitale. Però bisognerebbe far sì che di queste cose beneficino i locali e che si inneschino dei processi di riproduzione culturale, mentre invece finiscono per diventare cose a uso e consumo dei turisti, degli studenti internazionali, eccetera. A Edimburgo, quando hanno costruito il centro direzionale, hanno smantellato un intero quartiere operaio, un bellissimo posto pieno di case popolari, pub, gente interessante che si aggirava, e l’hanno rimpiazzato con qualcosa di orribile. Ora tu vedi ancora qualche angolo che è rimasto intaccato, un palazzo che è rimasto lì, quando ci passi davanti pensi che sia fico ma… sai che gli immobiliaristi in realtà mettono il loro timbro mediocre su tutto.
Stai leggendo qualcosa di interessante? Che tipo di libri leggi?
Ho scritto molto recentemente, più che leggere. Ho letto il libro The Secret DJ, un romanzo incentrato sulla vita di un dj, molto interessante, scritto bene. Non ho letto molti romanzi. Sto leggendo qualcosa di Jenni Fagan, giovane romanziera scozzese che mi piace.
Sembri più attratto dalla musica che dalla letteratura. C’è qualche differenza nell’approccio che avevi con la musica per esempio negli anni Settanta, o col punk, rispetto a oggi?
Negli anni sono diventato più emotivo. Quando sono entrato in contatto con la musica ero attratto dai cantautori, da quelli che tramite la musica parlano sul serio, raccontano storie, per esempio Lou Reed, Iggy Pop, Nick Cave, Shane MacGowan. La musica mi accompagna nel quotidiano. Quando scrivo cerco di darmi un metodo, lavoro per un certo numero di ore al giorno, con regolarità. Questo fa sì che io sia sempre sulla scrivania e sempre con la musica accesa, alta o bassa che sia: lounge, techno, qualsiasi cosa. Quest’alternanza mi stimola le idee. Le due facce della musica, la quiete e il caos, mi stimolano molto nella scrittura. (intervista di riccardo rosa / con la collaborazione di serena fadwa rtail e alessio mirarchi)