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16 Dicembre 2015

I Terremoti dei Bisca. La Napoli degli anni Ottanta vista da Sergio Maglietta

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(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

“Diciamo le cose come stanno: l’Italia ha prodotto tantissime intuizioni e suggestioni nel Settantasette, ma poco o nulla in ambito musicale. Il rock ‘n roll non aveva potuto o saputo dispiegare la sua potenza eversiva e il massimo che ti potevi aspettare era qualche scimmiottamento di cose angolofone con un po’ di lavoro sui testi. Il corpo (la sfacciata liberazione del “Pelvis” di Elvis) lasciava molto a desiderare e James Brown sembrava ai più un prodotto da discoteca chiattilla (fighetta in neoitaliano). Le persone vivevano il concerto come un fatto da consumare seduti in  statica ammirazione del “Messaggio”. Il punk era del tutto inconcepibile”.

È sempre difficile guardare Napoli e vederne il volto, osservarla liberi da quella patina confezionata da chi vuole venderla come chincaglieria da salotto o simbolo di tutti i mali a uso mediatico. Pesano, sull’iconografia della città, le immagini stereotipate che non dicono nulla di Napoli “in sé”, ma molto delle sue classi dominanti e le narrazioni fabbricate da chi la città la comanda e ne vende brandelli in giro. Questo non significa che non ci siano sguardi “eccentrici” o iconoclasti. Vengono fuori in maniera disordinata narrazioni “eretiche”, pur facendo fatica nel panorama desolante del mercato culturale. Però ci sono.

A proposito di iconoclastia, a Napoli Bisca è uno dei nomi più significativi, con il suo percorso da sempre obliquo rispetto alla storia musicale partenopea. Trentacinque anni di eventi, facce, cazzate, poesia, amori, canzoni che raccontano la città fuori dalla narrazione ufficiale. Bisognava riavvolgerlo, il nastro, e lo ha fatto la persona più autorizzata, Sergio Maglietta, con Terremoti. Una vita e un sax nella Napoli degli anni Ottanta (Vololibero, 2015). Dal primo giorno Maglietta è anima dei Bisca, musicista che ha attraversato la città insieme a quei “figli ingrati” di Napoli che negli anni Ottanta hanno provato a esprimere un’altra visione delle cose. Facendo musica, tanta buona musica.

I Bisca sono stati una banda di irregolari che ha espresso, nel suo essere ostinatamente refrattaria alle gabbie semiotiche, la frattura fra una generazione e il suo tempo, dando voce a chi sentiva di voler uscire da Napoli e dalla sua atmosfera opprimente. No grazie il caffè mi rende nervoso, giallo entrato nella mitologia cinematografica partenopea, metteva in scena quel contrasto fra la città e le nuove energie che vi si agitavano all’interno. Il gruppo di Sergio e soci ha cantato l’urgenza di abbandonare il proprio nido e le sue comodità per riconnettersi a quanto si muoveva nel resto d’Europa. Voglio viaggiare ma non per forza sono un emigrante: così Troisi riassumeva quella voglia di evadere per far parte del mondo e non di una città feticcio rinchiusa in una palla di vetro con la neve finta. La musica dei Bisca ha reso concreto quel desiderio di fuga senza, però, indicare strade. Bisca suona punk ma non è punk, suona rock senza esserlo, suona funky, persino roots. Bisca suona. Ma non appartiene a nessuna di queste “famiglie”, non ha mai indicato percorsi o obiettivi da raggiungere. Bisca è stata, sempre, la frattura. Il taglio, come quelli sulle tele di Fontana.

BISCA SUONA. Comparvero all’improvviso queste scritte, che erano la prima pubblicità autogestita sui muri della città dove una storia di arte murale non era ancora nata e Felice Pignataro era uno dei pochissimi artisti a colorare i muri. Da “FASCIO TI SFASCIO”, rimasta poi negli annali dell’antifascismo militante alla metafisica “IL TEMPO HA LE ORE CONTATE”, il “marketing” stralunato del gruppo in quei primi anni Ottanta chiariva subito quale fosse la linea poetico/musicale che, come fa notare lo stesso Maglietta, aveva “un’aggressività comunicativa che incarnava (anche se in contrapposizione) uno degli aspetti peculiari di quella che sarebbe diventata l’estetica commerciale e rampante degli anni Ottanta”. Quelle incursioni sui muri dicevano già molto di quello che sarebbe stato Biska, (in principio con la K), nata nel 1980 per “rompere con tutti i cliché logori dell’italico cantautorismo”.

Uno dei simboli di questo processo è il Tango glaciale, decostruzione di un brano di Astor Piazzolla per uno spettacolo di Martone, all’interno di “Falso Movimento”, laboratorio che affrontava una delle icone napoletane più dure da scalfire, il teatro. Dentro quell’officina di sperimentazioni Bisca ci stava alla perfezione, e il loro tango aprì la strada al primo LP di cinque brani chiamato proprio “Bisca”, che si presentava con una radicalità espressiva con pochi eguali in Italia. Un linguaggio “a un tempo intellettuale e popolare, sofisticato e stradaiolo, alto e basso, leggero e pesante, locale e internazionale”.

Da quell’autunno del 1980, quando il terremoto scatenò le energie che portarono alla nascita della band, questa storia ha scosso le fondamenta di differenti “palazzi” della cultura partenopea: quello poetico, quello musicale, quello danzereccio. Da locali ormai nella mitologia del nightclubbing, come il Trilogy e il Diamond Dogs, fino alla Napoli in effervescenza dei primi anni Novanta e alla connessione con un gruppo dal profilo culturale all’epoca inedito per la città, come i 99 Posse. Sergio e i suoi compari hanno animato un pezzo delle dancefloor alternative al circuito delle discoteche, dove si è ballato, pogato, ci si è ubriacati, ci si è amati, pagando un amaro dazio a quell’istinto ribelle troppo spesso ustionato dall’eroina. Insomma, si è vissuto.

Bisca, con la k o senza, c’era dietro tutto questo e muoveva i suoi passi con un piglio deciso, che spesso è sembrato anche scontroso, ma era il grugno di una musica scandalosa, che aveva deciso di prendere a pugni le convenzioni e qualsiasi decoro. Può piacere o meno, ma la sua storia fa parte di quella narrazione sommersa che prova a delineare la vera fisionomia della città. (antonio bove)

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