Dovete immaginare la formazione del sistema metropolitano caotico nel quale abitiamo come un missile a più stadi, che attraversa tutte le fasi della storia repubblicana. La prima ondata è quella del trentennio dopo la guerra, nel corso del quale le superfici delle aree edificate febbrilmente raddoppiano. La crescita urbana si concentra soprattutto nel capoluogo, assieme ai comuni costieri a est e ovest, da Pozzuoli a Torre del Greco, dando così vita a una brutta copia, congestionata, della “Grande Napoli” immaginata da Nitti negli scritti di inizio Novecento.
La seconda fase inizia con il terremoto del 1980, e dura un altro trentennio. La città raddoppia di nuovo, ma questa volta la colata edilizia tracima oltre le colline di Napoli, riversandosi nella grande pianura, sui suoli più fertili del creato. Borghi rurali come Giugliano si trasformano d’improvviso in città con più di centomila abitanti. Non c’è un piano, la città esplode nella campagna, dando vita ad un caos di elementi rurali e urbani che si incastrano disordinatamente, senza più un ordine leggibile.
E siamo alla fase attuale, che penseremmo caratterizzata da un rallentamento dell’urbanizzazione, ma nulla è più lontano dal vero. A scala metropolitana, nonostante lo scempio, la città occupa ancora “solo” il quaranta per cento della superficie territoriale, l’altro sessanta sono ancora boschi e campagne. Questo significa che c’è ancora da consumare, e infatti le superfici urbanizzate continuano a crescere al ritmo di duemila ettari l’anno, in barba al rischio ambientale, al paesaggio, al consumo del suolo.
Metà di questa nuova città è illegale, non ha dietro una previsione, un piano, un controllo, come vorrebbe la Costituzione, e soprattutto è difficile farla funzionare, averne cura. È impossibile infatti inseguire questa dispersione urbana dotandola delle reti, dei servizi essenziali, dei sistemi per la depurazione e i rifiuti. Lo scandalo della terra dei fuochi, alla fine, è soprattutto qui, nella insostenibilità ambientale, sociale ed economica di un sistema fondato sul disordine, sullo sperpero del territorio e delle sue risorse.
Nel frattempo, l’area metropolitana è diventata “città metropolitana”, con dentro i novantadue comuni della vecchia provincia, ciascuno dei quali, come un bancomat impazzito, vorrebbe continuare a disporre a piacimento della propria quota di capitale territoriale, nell’idea ancora di convertirla in consenso, controllo elettorale e sociale.
In questa situazione drammatica, inspiegabilmente, lo statuto metropolitano di recente approvazione, non fa l’unica cosa veramente necessaria, quella di costruire un governo unitario di scala metropolitana delle trasformazioni territoriali. Un centro di potere sufficientemente lontano dagli interessi, in grado di perseguire, a beneficio di tutti, quegli obiettivi minimi di sostenibilità, che a scala comunale non riusciamo più a vedere.
Se non facciamo rapidamente questo, la democrazia locale è a rischio, il caso di Quarto insegna. Le amministrazioni comunali, di qualsivoglia segno e colore, non ce la fanno proprio a reggere la forza d’urto di un apparato di interessi consolidato, a forte controllo malavitoso. L’unica prospettiva è quella di promuovere una nuova capacità di governo, politica e amministrativa, di scala metropolitana.
In questa complessa partita è necessario assolutamente comprendere che Quarto siamo noi, che c’è una inscindibile comunità di destino, ma anche che il ruolo di Napoli è decisivo. Il capoluogo rappresenta solo un decimo del territorio metropolitano, ma comprende un quinto delle aree urbanizzate, un terzo della popolazione. Dalla credibilità del suo gruppo dirigente, delle proposte che esprimerà, delle responsabilità generali che sarà in grado di assumere, dipenderà il suo ruolo. Che potrà essere quello di socio di riferimento dell’alleanza, oppure di giocatore scomodo, contro il quale tutti gli altri, alla fine, scelgono di coalizzarsi. Per questo, anche scelte felici e improvvise come quella della Apple, sarebbe meglio viverle come un gol di Higuain, un risultato di squadra, un buon segnale per l’intero sistema metropolitano, piuttosto che come affermazione solitaria di un comune capoluogo che non riesce più a parlare con il suo territorio. (antonio di gennaro)