È un momento concitato, la polizia carica trotterellando senza troppa convinzione la piazza composta in maggioranza da giornalisti. Preso in mezzo al movimento convergente di due plotoni, cerco di non farmi travolgere, confidando che, come al solito, per scamparla basti dire «presse» e mettere bene in vista il Bracciale Ufficiale del Giornalista, rilasciato in cuoio di vera pelle dalla Commissione della Carta dei Giornalisti, che contiene la famosa carta gialla che sancisce l’ingresso nella Casta.
Invece no. Stasera non basta. È il 21 novembre. La piazza è stata chiamata dalla totalità della professione giornalistica, dai sindacati, dalle associazioni, chi più ne ha più ne metta, il fronte è molto largo. La polizia, dal canto suo, la senti che non aspetta altro. Potersi sfogare su qualche giornalista, persino a loro fa piacere. Ogni tanto dalle linee di caschi scaturisce un insulto, seguito da qualche risatina. A un collega che filma col telefono gli dicono, «approfittane finché sei in tempo». Una della tivù si piglia scherni un po’ osceni quando si ritrova bloccata tra due cordoni di polizia.
Mentre mi faccio da parte per evitare i manganelli, facendo attenzione a non disturbare in alcun modo gli agenti, ben consapevole che basta pochissimo per farsi sfondare il cranio, sento uno che mi fa lo sgambetto. Uno sgambetto in piena regola. Lo sento, mentre cado, e penso: «Dio fa, mi ha fatto lo sgambetto. Non ci posso credere». Per fortuna avevo messo il casco, e quindi posso cadere all’indietro coprendo col corpo la telecamera. Mezzo travolto, batto il gomito e riesco a recuperare il mio materiale. La caduta ha rotto qualche pezzo della telecamera, ma il grosso è salvo. Nella concitazione riesco a sfuggire ai calci e alle cariche, sono intero, niente di rotto. Stacco il microfono, poi vado via: ormai la piazza è vuota. Faccio in tempo a vedere un gruppo di giornalisti circondati dalla polizia. Prima di lasciarli andare gli controlleranno i documenti in massa. Roba mai vista.
Prendo la metro, e sui social vedo che qualcuno ha filmato la scena. Il poliziotto mi vede, mi guarda bene, non può non capire che sono un giornalista: ho una grossa telecamera, ho il Bracciale, c’ho scritto presse addosso, sono con altri cameraman. Mi vede, mi prende con una mano la spalla e con la gamba mi manda a terra.
Nel giro di mezz’ora la mia caduta ha fatto il giro del web. Questo mi fa riflettere: a ogni manifestazione, ormai, c’è un’immagine come questa che appare e fa il giro dei social. La scorsa volta è toccato a una fotografa portata via in manette. Quella dopo, a un giornalista massacrato in un angolo di un portone, mentre brandiva il tesserino. Quella prima ancora, a un giornalista della tivù pubblica portato ventiquattr’ore al commissariato. A questo giro è toccato a me. Certo, la mia storia non vale niente, rispetto alle violenze reali della polizia nei quartieri, ai casi di omicidio o di stupro a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Sono un privilegiato e questo si riflette anche in piazza. Tuttavia, è interessante come questo accada a una manifestazione per la libertà di stampa. Ha un che di grottesco.
L’offensiva di Macron contro la stampa è spettacolare e senza precedenti, e dice un sacco di cose interessanti sul liberalismo contemporaneo. La manifestazione dello Sgambetto era indetta contro la loi de sécurité globale: la legge di sicurezza globale. In una serie di articoli, la legge introduce il divieto di filmare e diffondere le immagini di poliziotti e militari e, allo stesso tempo, autorizza le forze dell’ordine a riprendere e diffondere anche e soprattutto a mezzo stampa e social tutte le immagini che desidera. Un altro articolo prevede la generalizzazione dell’utilizzo di droni e altri sistemi di sorveglianza durante le manifestazioni e apre al riconoscimento facciale preventivo. Infine, l’articolo 25 della “legge contro il separatismo”, anch’essa in discussione in questi giorni, anch’essa un-nome-un-programma, introduce pene severe per chi diffonde immagini o informazioni su di una persona in maniera malveillante, malevola, pene che si inaspriscono nel caso si tratti di un pubblico ufficiale o funzionario statale, e che impongono alle piattaforme online il ritiro immediato dei post.
Dopo due anni di dibattito sulla polizia più violenta d’Europa, dopo le decine di occhi cavati, di mani esplose, di mutilati e traumatizzati, di morti ammazzati, di «j’étouffe» (la versione francese di «I can’t breathe»), la risposta del governo è semplice: dovete smetterla di rompere i coglioni. Le immagini delle violenze della polizia hanno provocato un terremoto mediatico che dura da due anni, quindi è ora di vietare le immagini. Il sillogismo è tanto autoritario quanto prevedibile. Di fatto, è uno dei più duri attacchi alla libertà di espressione conosciuti da un paese occidentale negli ultimi decenni. A oggi, Macron è presidente del governo più autoritario, meno democratico e più in rotta con le libertà individuali del continente, a parte l’Ungheria di Viktor Orban. Forse.
Certo, tutto questo non sarebbe possibile al di fuori del sistema istituzionale francese, che è una specie di monarchia al servizio del Presidente e si presta a ogni genere di abuso. Tuttavia, i suoi attacchi alla stampa sono sorprendenti. Una volta messi in fila gli eventi, il quadro è inquietante: ha introdotto il “segreto degli affari”, che limita il campo d’azione dei giornalisti d’inchiesta qualora violino il segreto commerciale delle aziende; ha inviato i poliziotti da Mediapart (uno dei giornali online più conosciuti del paese), quando ha rivelato lo scandalo Benalla, dal nome dell’ex-collaboratore di Macron sorpreso a picchiare dei manifestanti; ha permesso che i servizi segreti interrogassero i giornalisti di Le Monde, quando hanno rivelato il ruolo delle armi francesi in Yemen; ha cercato di introdurre una preoccupante e oscura commissione deontologica della professione; ha cercato di far approvare una legge che obbligasse le piattaforme social a rimuovere post giudicati “dubbi” dalla polizia, compresi quelli dei media; ha introdotto il nuovo “schema nazionale dell’antisommossa”, nel quale si trova scritto che i giornalisti sono come gli altri manifestanti, e che se la polizia decide che bisogna sgomberare una piazza, i giornalisti devono ubbidire come gli altri, pena l’arresto. E ora, sta cercando di impedire di filmare la polizia e di sottomettere le piattaforme online – ormai imprescindibili per qualunque redazione – al controllo dei prefetti.
Macron, l’enfant prodige del liberalismo europeo, ha questa stupefacente facoltà di esibire i mostri che si annidano nelle pieghe dell’ideologia liberale in tempi di crisi. Una volta, un celerino mi ha detto che il governo e la polizia avevano chiarissimo in testa il fatto che, senza quest’ultima, i gilet gialli avrebbero invaso l’Eliseo. Erano i tempi in cui Macron e sua moglie Brigitte erano costretti alla fuga in elicottero. Il governo deve la propria sopravvivenza alla polizia. Da allora, è stato fatto di tutto per accontentare i sindacati delle forze dell’ordine, tradizionalmente estremisti di destra.
Quando, all’indomani dell’assassinio di George Floyd, i movimenti antirazzisti e contro le violenze della polizia hanno invaso le strade francesi approfittando dell’onda emotiva e dell’ovvia assonanza tra razzismo americano e polizia francese, il ministro degli interni ha dichiarato che, ok, va bene, da ora in poi vieteremo la “presa di collo”, un metodo d’arresto che prevede di schiacciare il collo dell’arrestato col ginocchio del poliziotto. I sindacati di polizia hanno manifestato, e il ministro degli interni ha fatto marcia indietro. Riassumendo, pur di non dare fastidio ai sindacati di polizia, il governo ha autorizzato una pratica letteralmente omicida, nonostante che la sua pericolosità sia stata dimostrata, ben al di là di ogni ragionevole dubbio, da decine di vittime, processi, inchieste giornalistiche, rapporti di Ong.
L’idea di vietare la produzione di immagini potenzialmente compromettenti per la polizia è una vecchia rivendicazione di questi sindacati. Affiora ogni due o tre anni, bandiera dell’estrema destra, poi scompare, troppo assurda per essere presa in considerazione. Il fatto che a questo giro sia stata tradotta in legge, assieme ad altre misure egualmente liberticide, la dice lunga sul rapporto tra Macron e la polizia, e sul disegno autoritario al quale deve il suo potere. Eletto per un soffio, senza sostegno popolare, all’interno di una crisi sanitaria ed economica senza precedenti, il campione della borghesia ha un solo e unico santo a cui votarsi, certamente non destinato alla beatitudine: il manganello.
E tuttavia, questa storia dice qualcosa anche sulle immagini. Per anni, nei cortei si è preteso che i giornalisti e le persone non producessero immagini, coscienti del rischio che queste venissero utilizzate dalla polizia. La situazione si è ormai invertita. Quelle immagini che mostrano la polizia nuda, in azione, che hanno la forza dell’evidenza, sono essenziali. Abbiamo bisogno di pubblicarle, e in fretta. L’esperienza francese, l’evoluzione del potere di Macron ci insegna che siamo diretti verso un mondo in cui le forze di polizia si appropriano dei mezzi di comunicazione senza alcuna mediazione istituzionale. Un mondo nel quale le prefetture postano su Twitter i video dei casseur. Le immagini, che fino a poco tempo fa venivano giudicate pericolose dagli stessi manifestanti, sono oggi imprescindibili. Sono un terreno di lotta da difendere con le unghie e con i denti. Ne abbiamo bisogno come l’aria, sono ciò che ci permette di respirare. (filippo ortona)