Da Napoli Monitor n.51, novembre 2012
Quattro e quaranta del mattino. È buio in questo paese di collina, diecimila anime, l’ultimo della provincia di Avellino. In passato terra di braccianti, rifugio di briganti. Terra di emigrazione: Stati Uniti, Canada, poi Germania, Francia, Milano, Torino. Pochi quelli rimasti in paese a lavorare la terra. Qui la fatica ha lasciato segni indelebili, visibili nei volti consunti dei contadini ancora vivi seduti ai tavoli dei bar, impressi nel curvamento di colonne vertebrali inarcatesi a furia di piegarsi dinanzi a piante, padroni e miseria.
Una ventina di donne sostano silenziosamente all’inizio dell’unica strada di accesso al paese. Ognuna di loro porta con sé una borsa. All’interno ci sono panini e acqua, armi con cui fronteggiare la stanchezza fisica e il calore delle serre. È maggio, e la stagione delle fragole è già cominciata. Loro sono braccianti, attendono il pulmino che le porterà nella Piana del Sele, a ottanta chilometri da casa.
Giovanna è una di loro, è la sorella di Luciano, il mio compagno di banco alle elementari. Lui ora fa il militare in Friuli, lei invece cala le mani tra le piante, si piega di solco in solco nelle campagne. Pochi mesi, pochi spiccioli, tanto lavoro. Si torna a casa dopo dodici ore, sporchi e sfiniti. A luglio le braccia sono libere di riposare per qualche mese, fino a settembre.
Al mio passaggio Giovanna sorride. Poi mi blocca e mi chiede con cortesia di comprarle le sigarette al distributore prima che parta il pulmino. Ci siamo visti la sera prima e ci siamo dati appuntamento per la domenica, l’unico giorno in cui lei non lavora. A casa sua, quando arrivo, ad aprire il cancello è l’amica. Giovanna sta preparando il pranzo per il lunedì. La cucina è una commistione di rumori e di odori. Al mio ingresso lei è lì, rivolta verso la bambina, e ha già caricato la macchinetta per il caffè.
«Ho ventotto anni, una bimba che ne ha tre e sono sposata da cinque. Nella mia vita faccio un po’ di tutto: raccolgo fragole, nocciole, castagne. Poi faccio anche le pulizie. Le fragole le raccolgo a Battipaglia, le castagne a Solofra. Sono dieci anni che vado a raccogliere le fragole. Il lavoro è pesante perché sotto le serre si suda, stai sempre con la schiena abbassata e fa un caldo esagerato che tu non puoi nemmeno immaginare. Il raccolto inizia ad aprile e finisce a giugno. Lavoro dalle sei di mattina all’una di pomeriggio o dalle sette alle due. Sono sempre sette ore. Di mattina parto da casa mia alle quattro, quattro e mezza per mettere mano alle sette a Battipaglia. A casa poi arriviamo sempre alle quattro di pomeriggio. Ci accompagnano e ci riportano con il pulmino; però, ovviamente, lo devi pagare».
La Campania è prima in Italia per la produzione di fragole e copre il trentacinque per cento della produzione nazionale. Sessantasettemila tonnellate all’anno, più della metà prodotte nella sola zona di Battipaglia, a pochi chilometri da Salerno. Qui si coltiva soprattutto in coltura protetta. Migliaia di lavoratori italiani e stranieri. La manodopera è stagionale, spesso prestata a nero alla luce del sole cocente, lontana dai salotti sindacali e intermediata da barbari caporali.
A raccogliere le fragole sono sempre donne, ragazze e adulte, una cinquantina per ogni serra. Agli uomini invece spetta il compito di caricare le casse sui furgoni diretti nei mercati ortofrutticoli di mezza Italia. Le braccianti arrivano da diversi paesi del napoletano e del salernitano: Nola, Palma Campania, Sarno, San Giuseppe Vesuviano. Ci arrivano attraverso una rete di caporali distribuita a macchia di leopardo sul territorio provinciale. Su richiesta delle aziende, a seconda dell’andamento del raccolto, si contattano le braccianti e si organizzano squadre di lavoro da dieci o da dodici. Sulla paga giornaliera di ognuna al caporale spettano sei euro. È il costo della sua illecita attività di intermediazione per ogni singola unità di lavoro.
Prima che inizi il raccolto le braccianti devono inoltre decidere se accettare o rifiutare l’ingaggio: ventisette euro con contratto e quarantuno senza. L’ingaggio ovviamente costa e, se lo si vuole, bisogna pagarselo di tasca propria accettando una paga da fame. «Il lavoro è assai faticoso, noi ci andiamo giusto per i contributi perché la paga è bassa, sono solo ventisette euro al giorno, non è che ti danno chissà che! In effetti sulla nostra busta paga stanno segnati trentatre euro però sei euro vanno a quello che ci accompagna. A lui il padrone gli paga il trasporto, sei euro a persona, e lo scala dai soldi nostri. Anziché darlo a noi sulla giornata, lo toglie a noi e lo dà a lui. Lui campa così, col trasporto. Va prendendo le femmine in giro e si piglia sei o sette euro su ognuna. È lui che, per esempio, ci chiama e ci dice: “Guardate sta la fatica nei pomodori qua, le fragole là, le castagne da un’altra parte”».