Se non interverranno cambiamenti, il prossimo anno, il governo trasferirà alla Campania, per le politiche sociali, meno risorse di quanto il premier abbia generosamente elargito alla sua vasta schiera di amici e amiche “in difficoltà”. Fare i conti è facile. Nel 2012 il Fondo nazionale politiche sociali, secondo una prima stima, riserverà alla Campania solo quattro milioni di euro. Se solo sommiamo i due milioni e ottocentomila dati a Lele Mora, i cinquecentomila euro per i coniugi Tarantini, i dieci milioni dati a Dell’Utri, e qualche milionata per le spese spicciole delle ragazze (sessantamila a Ruby, centomila alla Sorcinelli, etc.) è facile costatare che i soldi investiti in beneficenza da Silvio Berlusconi superano le risorse che il welfare regionale riceverà l’anno prossimo.
Non è, sia inteso, un problema che riguarda solo la nostra regione. Questo governo, in soli tre anni, è infatti riuscito a smantellare e a prosciugare ogni fonte di finanziamento per servizi sociali, non autosufficienza, pari opportunità e famiglia. Non è una questione ideologica, ma è la fredda legge dei numeri. Se il Fondo nazionale politiche sociali ancora nel 2008 ammontava a circa 930 milioni, nel 2011 è stato fissato a 218 milioni di euro. Per la Campania significa che si passa da circa 70 milioni a 17 milioni. Per gli altri, poi, il calcolo è presto fatto. Da quest’anno non esistono più, perché non più finanziati, il Fondo per la famiglia, il Fondo per l’infanzia, il Fondo per le pari opportunità e il Fondo non autosufficienza. E non è solo per la crisi, che pure ha un suo peso, ma per una precisa scelta politica, resa ufficiale nei documenti del governo e ben sintetizzata dal ministro Sacconi con il suo Libro Bianco.
Un welfare, si legge nei documenti ufficiali che “si limita a tutelare una minoranza in situazione di disagio sociale estremo (…)”. E dalla carità, secondo il ministro Sacconi “nasce una capacità di costruzione sociale”. In effetti, l’unico intervento previsto dal governo, la cosiddetta carta acquisti, in tema di contrasto alla povertà ha tutto il sapore di un atto caritatevole. La carta, una erogazione di quaranta euro al mese, spendibili solo per alimenti, (se e quando partirà) sarà erogata solo nei Comuni con popolazione superiore a duecentocinquantamila abitanti attraverso “enti caritativi” che selezioneranno la platea dei beneficiari. Le risorse copriranno solo una piccola parte degli aventi diritto.
Su queste basi, il governo ha anche ricevuto la delega alla riforma assistenziale. Assieme al federalismo fiscale, è questo il definitivo tassello che mette fine all’idea di un welfare fondato su diritti e alla speranza di una riforma che realizzasse il passaggio dalle politiche dell’assistenza a quelle dell’inclusione. Basti leggere, ad esempio, l’articolo 10 della legge delega, che stabilisce “di integrare le risorse pubbliche con la diffusa raccolta di erogazioni e benefici a carattere liberale, di affidare alle organizzazioni non profittevoli la gestione della carta acquisti attraverso le proprie reti relazionali”. Fuori dai denti del linguaggio tecnico, tutto si traduce in un “welfare della carità”, le cui scarne risorse verranno per di più distribuite in modo sostanzialmente discrezionale. E se l’ essere caritatevoli è un atto di enorme moralità se riguarda le scelte individuali, nulla appare più è pericoloso di uno Stato caritatevole che fa dell’elemosina il cardine degli interventi sociali.
Ma le elemosine non mettono fine ai bisogni sociali. Si possono avere idee diverse su cosa debba essere lo stato sociale, ma qui siamo in presenza di un processo senza precedenti che sta sostituendo con nulla quel poco che c’era. I tagli ai Comuni e agli Enti locali, che oggi investono il settanta per cento delle risorse per i servizi sociali, impediranno di garantire anche semplicemente i livelli essenziali di assistenza. Se si vuole evitare questo scenario, è urgente e indispensabile che dalle regioni del mezzogiorno, si levi una forte, ampia e compatta opposizione a questo federalismo della povertà. Altrimenti non rimarrà che andare ad ingrossare le file delle feste di Arcore, in attesa di “erogazioni e benefici a carattere liberale”. (dario stefano dell’aquila)