Vogliamo ricordare Carla Melazzini, scomparsa un anno fa, con un articolo scritto per Una città (numero 157, giugno-luglio 2008), la rivista mensile in cui ha raccontato e riflettuto sulle sue esperienze di educatrice.
Stiamo tornando a pessimi accordi nell’uso del linguaggio: parole di significato incerto vengono giorno dopo giorno appesantite da un alone magico-esorcistico che le rende tanto più pericolose quanto più indefinite e indifferenziate. “Sicurezza”, prima di tutte; “periferie degradate”; “infiltrazioni” camorristiche: che nella sua ridicolaggine fa il paio solo con “emergenza” per definire la pluridecennale politica di gestione dei rifiuti in Campania.
L’unica difesa sta nel circostanziare, specificare, dare a ogni cosa il suo nome e la sua storia, senza stancarsi mai. Ogni periferia infelice è diversa dalle altre, che sono altrettanto infelici ma ciascuna nel suo modo peculiare. Ponticelli deve il suo nome poetico all’essere stata in antico una zona acquosa, ricca dunque di ponti e mulini. In seguito ha gravitato sulla seconda zona industriale di Napoli (dopo l’Ilva di Bagnoli), che comprendeva l’industria metalmeccanica e conserviera degli altri due quartieri della zona orientale, Barra e San Giovanni a Teduccio: zona rossa quant’altre mai, patria di Bordiga, di associazioni operaie delle quali rimangono qua e là stinte insegne su intonaci scrostati; oggi conosciuta col nome poco onorevole di “triangolo della morte”.
Quali le tappe di questo infausto percorso? Mentre le fabbriche chiudevano una dopo l’altra, gli ampi spazi vuoti venivano riempiti da una dissennata politica urbanistica, che andava incuneando a casaccio nel tessuto sociale di tre antichi quartieri orrendi agglomerati di prefabbricati pesanti, cui era prescritto alla nascita il destino del ghetto. Quando leggete o ascoltate i nomi di Barra, San Giovanni e Ponticelli, per prima cosa sostituite questi nomi con quelli di Bronx 2001, Bronx 2002, Case gialle, Lotto O (da leggere “zero”, come hanno fatto i suoi abitanti dall’inizio), e così via. Sono le enclaves dalle quali proviene la quasi totalità dei nostri alunni, fuggitivi dalla scuola; nei colloqui di selezione spesso registriamo che la storia di queste famiglie – definite nel triste linguaggio dei servizi sociali “multiproblematiche” – inizia con un trauma da trasferimento. Perché il trasferimento ha avuto i connotati della deportazione: approfittando del terremoto, migliaia di famiglie sono state sradicate dai loro quartieri, scaricate alla rinfusa e là dimenticate, come le ecoballe.
Anni fa la psicologa del Sert di Ponticelli mi raccontava che i cinque anni successivi alla deportazione sono stati, nel Lotto O, anni da far west: una sequela ininterrotta di risse e conflitti, prima di arrivare a una qualche forma di equilibrio. Così una popolazione ferita e abbandonata a se stessa elaborava il lutto della separazione dalla propria casa, dal proprio tessuto di relazioni sociali. Contemporaneamente costruiva la propria nuova identità con i connotati del ghetto, a cominciare dai nomi con i quali battezzava il proprio spazio di vita collettiva. Inutile dire che niente è stato fatto dai responsabili politici di tanto sfacelo, per integrare queste famiglie, che sono state semplicemente messe a carico delle poche, disperate assistenti sociali. Anzi, qualcosa è stato fatto: per riqualificare, sovrapporre una patina di bellezza allo squallore del Lotto O, il comune di Napoli, con un’operazione di stampo sovietico, ha ribattezzato tutte le sue strade, che oggi portano nomi (quasi impronunciabili per i suoi abitanti) quali “via dei bronzi di Riace”, “via dei papiri ercolanensi”, “via delle ville romane”, eccetera.
Nel frattempo avveniva l’ultima, decisiva tappa di questa storia triste, quella che ha prodotto la sottomissione di queste popolazioni al dispotismo del potere criminale. “Infiltrazione della camorra” significa che non si può verificare qui una sana scazzottata tra ragazzi, perché viene subito trasformata in un meccanismo giudiziario di punizione/vendetta con intervento di terzi, e questo avviene fin dentro le scuole: quante volte, mostrando di non avere paura, abbiamo difeso il diritto dei ragazzi di litigare come si deve fare da ragazzi. Significa che una bella ragazza, a meno che non aspiri proprio a quello, deve sperare di non attirare l’attenzione di coloro che esercitano, in forme svariate, una sorta di ius primae noctis. Significa che sono state confiscate tutte le manifestazioni e tradizioni popolari, religiose, musicali (a San Giovanni il parroco chiamò la polizia a difesa del Santo solo quando la statua trapuntata di biglietti di banca fu fatta inchinare davanti alle effigi dei due ultimi boss ammazzati; e le signore protestarono perché per anni erano state accettate le loro elargizioni). Significa che sono state confiscate anche le modalità e gli scopi della ribellione popolare, a cominciare da quelle cariche di donne infuriate che tanto colpivano la nostra immaginazione romantica trent’anni fa. Oggi si mandano avanti le donne per cacciare la polizia che tenta di arrestare qualcuno, o per terrorizzare e cacciare i nomadi che fino al giorno prima erano stati in qualche modo inseriti nel “sistema”. Nessuno ha impedito che questo ultimo anello della catena dei rifiuti umani occupasse gli ultimi spazi rimasti liberi: sotto i viadotti, nei pochi prati incolti, nelle strade costruite e abbandonate e riempite di rifiuti illegali. I coraggiosi che come ratti sono tornati nelle baracche bruciate hanno dichiarato che qui avevano lavoro, il quale consisteva nella ricerca e vendita di rifiuti, attività per la quale pagavano un triplice pedaggio: per l’affitto della baracca, per la loro porzione di attività, per la vendita sulle bancarelle dell’usato. Non so dalle altre parti, ma in questa zona di Napoli il sistema criminale gratta il fondo del barile fino all’ultima briciola.
Il bottegaio di Ponticelli, costretto a pagare il “sistema” per il suo negozio, per i festeggiamenti e quant’altro; a pagare la “finanza” che periodicamente fa la spesa gratis; e infine a fronteggiare quotidianamente gli ultimi arrivati, che nel migliore dei casi mendicano, è uscito inferocito ad affrontare il corteo degli studenti del liceo che lo accusavano di razzismo: così è andata a finire la storia di questa periferia.
Per favore, tenetela a mente le prossime volte che sentirete parlare di Ponticelli.
P.S. A proposito di bellezza: ai ragazzi dei ghetti facciamo vedere le immagini di quanto di meglio l’umanità ha prodotto in fatto di arte; loro guardano attentamente, scelgono quella che li ha colpiti e la copiano rielaborandola in modi commoventi. La settimana scorsa abbiamo esposto questi lavori nel centro di Napoli, con una cerimonia nella quale ai ragazzi e ai loro genitori è stata consegnata una pergamena di cittadinanza dagli assessori delle municipalità, alcuni dei quali sono gli unici membri del corpo politico capaci di manifestare interesse e cura per le persone dei loro elettori. Pochi passi più in là, sindaci e governatori usavano Beethoven per celebrare il rituale dell’“evento”, altra parola magica che funge da ponte sull’abisso che li separa dalla città. (carla melazzini)