Il testo che segue è la versione integrale di un articolo pubblicato da Il Corriere del Mezzogiorno il 16 febbraio
La notizia del nuovo studio dell’Istituto Superiore di Sanità sulla relazione tra contaminazione da rifiuti e insorgenza di patologie in Campania è arrivata come un sasso a smuovere le acque di un passato che in molti volevano dimenticare. Un passato che, come certifica il rapporto, non è mai veramente passato, e si dirama nel presente senza smettere di reclamare il suo credito di sofferenza e malattia.
Il nuovo studio, commissionato dalla procura di Napoli e consegnato dopo quattro anni di ricerche, mette in luce, per l’ennesima volta, le condizioni socio-ambientali disastrose in cui le comunità della piana campana si ritrovano a vivere. Riporta all’attualità il nodo del nesso di causalità tra rifiuti e malattie che figure istituzionali di tutti i colori per anni hanno negato, nascosto, ridimensionato, e che in molti dal basso, nelle aule di tribunale e in quelle delle università, nei corridoi degli ospedali e nelle strade, in parrocchia e nei centri sociali, hanno tentato di rendere visibile. Risiedere nelle vicinanze di siti di smaltimento legali e illegali di rifiuti aumenta le probabilità di contrarre malattie specifiche, di nascere e di morire prematuramente, in sostanza di vedersi negati il diritto a una vita in salute, se non proprio il diritto alla vita. Urlare “ve l’avevamo detto” sarebbe scontato e superfluo, sebbene non del tutto inutile. Chi non ascoltava allora di certo non farà ammenda adesso. Tuttavia, per due ragioni, una legata al passato e al presente, e una inerente al futuro, non possiamo tacere.
Per ristabilire la verità storica e affinché si inizi a tenere conto delle valutazioni ambientali dei cittadini, va affermato con forza il valore imprescindibile che hanno avuto le mobilitazioni sociali in Campania durante gli anni dell’“emergenza rifiuti” e oltre. Le comunità campane non hanno solo agito da controllori dei governanti, riuscendo in alcuni casi a evitare disastri, quando questi avallavano, tra il 1994 e il 2009, piani gestionali fallimentari, tecnologie obsolete e localizzazioni di impianti in spregio a basilari valutazioni tecniche e a fondamentali norme ambientali e diritti civili (come accaduto a Chiaiano, Terzigno, Acerra e Pianura, tra gli altri). I comitati hanno soprattutto imposto all’agenda governativa regionale e nazionale il riconoscimento dell’esistenza di una normalità tossica incistata nel corso di decadi nel corpo fertile della terra campana. La Terra dei Fuochi è stata certificata dalle leggi nazionali solo dopo più di un decennio di mobilitazioni, denunce, documentazione e cause legali da parte degli attivisti, culminato nella coalizione regionale di Stop Biocidio e nella manifestazione dei centomila a Napoli nel novembre 2013. La Terra dei Fuochi non sono solo i roghi di monnezza e i micro-siti di smaltimento abusivo, tra l’altro mai del tutto sradicati. Zone specifiche della Campania sono anche state il terminale di quantità gigantesche di materiali di scarto pericolosi – spesso finiti in discariche legali e certificate – risultanti dai processi di una parte importante dell’apparato industriale italiano, i cui manager hanno potuto tagliare i costi e aumentare i profitti grazie all’intercessione dei clan ma anche e soprattutto coadiuvati da distinti imprenditori e da ufficiali pubblici con pochi scrupoli. Sono i comitati che hanno acceso i riflettori sulle vere priorità, e solo dopo sono arrivate le norme ambientali, i protocolli d’intesa, le cabine di regia, l’attenzione dei media e le risorse (ancora insufficienti) per affrontare il problema.
Va ricordato che i comitati non erano solo messi alla sbarra (in alcuni casi, letteralmente), ma che la narrazione dominante non accettava in alcun modo l’esistenza di una crisi socio-sanitaria in Campania, evocando gli stili di vita individuali come spiegazione del numero inusitato di morti e malati. Ora che un’altra pietra è stata messa su questa narrazione tossica, verrà appresa la lezione che i cittadini hanno non solo il diritto ma anche le competenze per giudicare la salubrità dei luoghi che abitano e l’opportunità o meno di ulteriori carichi ambientali nei propri territori?
Il nuovo rapporto dell’ISS va anche letto nell’ottica delle possibilità che offre per dare nuovo slancio alla risoluzione delle questioni sociali e ambientali ancora aperte. Una dimostrazione del nesso tra rifiuti e malattie potrebbe diventare la base per una nuova stagione di azioni legali nei confronti di chi ha sottovalutato gli allarmi e ha avallato gli scempi. Le perdite e i danni che i residenti delle aree inquinate in Campania hanno subito non troveranno mai compensazione adeguata, ma forse cause vincenti che portino a risarcimenti materiali, a obblighi giudiziari comminati al governo, e a stabilire nuove verità processuali, sulla scorta della sentenza della Corte di Strasburgo del 2019, potrebbero aiutare a raddrizzare la curva d’ingiustizia e aprire a ulteriori e più incisive azioni. Ci fa strano stare qui a celebrare che finalmente si è riconosciuto che la gente si ammala di contaminazione; è come se invece di cercare i colpevoli si fosse impiegato il tempo prima a verificare se davvero c’era un morto sul selciato e poi a discutere se fosse davvero stato ucciso da qualcuno. Finalmente il morto sul selciato lo hanno visto e dicono che in effetti non è morto di vecchiaia.
Guardando al futuro, questo studio intima di prendere in carico una volta per tutte le sue conclusioni. Il Coronavirus ha dimostrato la capacità del governo di mettere in moto vaste campagne di test e vaccinazione. Ciò significa che sarebbe possibile avere delle risposte definitive sul grado di contaminazione dei territori e sulla migrazione dei contaminanti nei corpi dei residenti delle zone inquinate di tutto il paese. Il bio-monitoraggio individuale su larga scala è il mezzo per far emergere questi dati, collegato alla diffusione di terapie e protocolli medici sulla base dei risultati. L’unico studio di bio-monitoraggio individuale mai effettuato in Campania è quello del progetto pilota Veritas, frutto degli sforzi della Rete di Cittadinanza e Comunità, basato su una raccolta fondi dal basso e sulla cooperazione con esperti, che ha dimostrato quel che si troverebbe se solo si andasse a cercare: una correlazione tra inquinanti e malattie, che con abbastanza dati diventerebbe un nesso causale. Bisogna pretendere lo stesso grado d’interventismo cui abbiamo assistito nell’era del covid anche per le miriadi di siti d’interesse nazionale, aree industriali dismesse e siti inquinati disseminati per il paese. La violenza lenta dell’inquinamento va riconosciuta per quello che è: una crisi sanitaria ancora più subdola e a lungo termine del Coronavirus, e che quindi impone misure adeguate per conoscerne la portata effettiva e soluzioni definitive tramite l’allocazione di risorse e la partecipazione delle comunità. Non lo chiedono solo i comitati, lo impone il diritto costituzionale a una vita sana e dignitosa. Alla fine, la lezione principale è ancora la stessa di cui abbiamo scritto per anni: scienza e diritti avanzano grazie alle mobilitazioni, non contro di esse. (marco armiero / salvatore de rosa).