Il 9 luglio, a un anno esatto dall’arrivo delle ormai famose email di licenziamento, davanti ai cancelli della GKN si ritrova la comunità larga nata intorno alla lotta degli operai metalmeccanici fiorentini e riunita intorno al motto “Insorgiamo”. Più che una festa è un urlo di lotta, un momento collettivo che consolida il rapporto tra gli operai e i solidali, organizzati e non, che in questi dodici mesi hanno percorso insieme un cammino di rispetto del lavoro, dei diritti, della dignità. Una strada che Napoli Monitor ha seguito fin dall’inizio e che vi riproponiamo in due interviste (qui la seconda parte) pubblicate nei numeri 7 (novembre 2021) e 8 (maggio 2022) de Lo stato delle città a Dario Salvetti, delegato RSU ex-GKN, nelle quali si ripercorrono le tappe dal 9 luglio 2021 al 26 marzo scorso, quando a Firenze sono scese in piazza 30mila persone. Nel frattempo ci sono stati altri incontri istituzionali, dai quali però non è emerso niente di certo: la fabbrica è ancora ferma, gli operai sono in cassa integrazione, non è stato definito il piano industriale né gli investitori e intanto si cerca in tutti i modi di accelerare la deindustrializzazione, ossia l’uscita dei materiali dalla fabbrica, senza che ci siano garanzie reali sulla reindustrializzazione.
Se c’è una cosa che inizia a cambiare in questi dodici mesi di lotta, sono i rapporti di forza, perché laddove un anno fa si consumava una delocalizzazione oggi si riunisce una comunità, pronta a difendere la fabbrica coi propri corpi, perché quello stabilimento è riconosciuto come patrimonio collettivo, simbolo delle ormai vistose devastazioni del neoliberalismo contro le quali continuare a mobilitarsi.
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Gkn Driveline è una multinazionale con sede a Londra: cinquantuno stabilimenti e quasi trentamila dipendenti in tutto il mondo che producono semiassi ed elementi di trasmissione per il settore automotive. Dal 2018 Gkn è di proprietà del fondo di investimento finanziario Melrose Industries.
Il 9 luglio 2021, dieci giorni dopo la fine del blocco dei licenziamenti in Italia, la multinazionale ha licenziato con una comunicazione via mail tutti i 422 operai dello stabilimento di Campi Bisenzio, alle porte di Firenze – cui vanno aggiunti i circa ottanta dipendenti delle ditte in appalto.
Il giorno prima di licenziarli, l’azienda ha messo tutti i dipendenti in permesso, in modo da avere le mani libere. Poche ore dopo, però, gli operai sono rientrati nello stabilimento, hanno cacciato i vigilanti e dato avvio a un’assemblea permanente. Da allora, ogni giorno, presidiano l’accesso, si riuniscono in assemblea, organizzano cortei per la loro e per altre vertenze. Hanno ricevuto solidarietà da tutto il territorio, mentre politici e capi sindacali, locali e nazionali, hanno speso parole impegnative in favore della loro causa.
Il ministro del lavoro Orlando ha manifestato l’intenzione di mettere in cantiere una legge “anti-delocalizzazioni”, ma secondo i lavoratori Gkn, la bozza di decreto, che non prevede multe ma solo un obbligo di preavviso, è largamente insufficiente. “È necessaria – hanno scritto in un documento redatto con un gruppo di giuslavoristi – una normativa che contrasti lo smantellamento del tessuto produttivo, assicuri la continuità occupazionale e sanzioni compiutamente i comportamenti illeciti delle imprese, in particolare di quelle che hanno fruito di agevolazioni economiche pubbliche. Tale normativa deve essere efficace e non limitarsi a una mera dichiarazione di intenti”.
TRE ANNI DI LOTTA
«Mio padre è livornese, si trasferì a Milano negli anni Ottanta per lavorare alla Carlo Erba, quindi sono nato e cresciuto lì. Poi da grande sono tornato in Toscana, nei primi anni Duemila, ma lavoro ce n’era poco. Venivo da un’azienda dell’automotive a Desio, facevamo gli interni per Iveco, ma mi ritrovai a fare minuterie metalliche per l’alta moda a Scandicci: le fibbie, i particolari per borse da tre-quattromila euro. Nel 2006 decisi di mollare, nonostante mi avessero assunto a tempo indeterminato: non era tollerabile timbrare e non sapere quando uscivi di là. Così sono rientrato in un “giro” di lavoro precario da cui sono riuscito a uscire solo in questa azienda. Mi hanno chiamato tramite agenzia interinale, andando a ripescare l’esperienza dell’automotive… Sono entrato nel 2013 come interinale e dopo quindici mesi sono stato assunto. Io qua sono la fanteria, sto nella cella di montaggio. La Gkn era un’aspirazione di molti all’epoca, la battuta era che se entravi qui avevi il posto statale…».
Abbiamo intervistato Dario Salvetti, delegato sindacale Fiom della Gkn, il 25 agosto 2021. Partiti da Firenze in motorino, abbiamo sbagliato strada un paio di volte, girato a vuoto nella zona industriale di Campi Bisenzio tra svincoli e stabilimenti, stradoni e cavalcavia, finché non siamo planati davanti allo stabilimento, riconoscibile dalla moltitudine di bandiere e striscioni a tappezzare i cancelli. Nonostante il ritardo, il nostro uomo non si è fatto attendere. Seduti a uno dei lunghi tavoli posti nel piazzale, circondati da persone che discutevano, mangiavano o leggevano il giornale, abbiamo discusso con lui per più di un’ora.
«È tre anni che siamo in lotta – ci ha detto Salvetti –, anche se intorno a noi non se n’era accorto nessuno». E ha ripercorso tutte le tappe: «Nell’estate 2018 ci portano via un pezzo di produzione del Ducato. A ottobre scioperiamo e riportiamo in fabbrica la produzione, ma se l’hanno fatto una volta possono rifarlo, così firmiamo un accordo in cui loro, tutti i mercoledì – perché ci incontravamo con loro tutti i mercoledì, anche quello prima che ci chiudessero –, ci dovevano dire che cosa succedeva la settimana dopo. Sempre in quell’accordo, creiamo i “delegati di raccordo”, per tenerli d’occhio nei reparti, per vedere se stavano “facendo magazzino”. Due mesi dopo, infatti, nel gennaio 2019, ci accorgiamo che avevano portato via di nuovo un pezzo di produzione. Li denunciamo per condotta antisindacale, articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Il giudice ci dà ragione, ma non c’è nessuna sanzione, avrebbero solo dovuto avvertirci prima di esternalizzare. A febbraio quindi siamo scarichi di produzione, prendono la palla al balzo e per la prima volta dopo diverso tempo non stabilizzano gli interinali che arrivavano “a battuta”, come si dice in gergo, cioè in quel periodo in cui o ti assumono o non ti possono più prorogare. Allora c’è un forte sciopero e in quel momento, in modo unilaterale, loro usano uno strumento che si chiama “staff leasing”, ovvero l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore non presso l’utilizzatore, cioè la Gkn, ma presso il somministratore, cioè l’agenzia interinale. Noi denunciamo a mezzo mondo questa cosa e diciamo che un’azienda che non assume più e un’azienda che sta per chiudere. Ripeto, febbraio 2019. Attorno a questi venti ragazzi a cui non rinnovano il contratto si scatena una campagna di lungo corso, difficile perché non tutti capivano la situazione, i ragazzi continuavano a lavorare, quindi la gente diceva: ma qua o là, cosa importa? Il sindacato non ci risulta che abbia mai condotto una campagna generalizzata contro lo staff leasing, che è una forma subdola di caporalato che si sta diffondendo in tutto il paese…
«A quel punto inizia un’altra tecnica, che ci indica che stanno preparando qualcosa di losco: iniziano a cambiare uno dopo l’altro i direttori dello stabilimento. In questo modo non avevamo mai un interlocutore stabile. Nell’ottobre 2019 arriva un direttore nuovo che finalmente mette le carte in tavola e ci comunica che in fabbrica ci sono tra i settantacinque e i cento esuberi. Se è così, diciamo, bisogna andare in Regione a discutere perché la questione non riguarda più solo noi, ma tutta la collettività. Da allora in poi la Regione è sempre stata informata. E se voleva intervenire poteva farlo. Il direttore, però, ha fatto le valigie e se n’è andato. Noi avevamo preannunciato alla Regione che il motivo per cui li avevamo coinvolti era che ci cambiavano continuamente i direttori…
«Nel gennaio 2020 arriva un responsabile delle risorse che nega gli esuberi. Noi diciamo va bene, allora ci firmi un accordo in cui affermi la tenuta occupazionale dello stabilimento. Non lo firma. Sciopero. Incontro in Regione. Il 14 febbraio 2020 lo sciopero è duro, assediamo la Regione, alla fine l’azienda firma un accordo in cui, pur non rinunciando allo staff leasing, si impegna, appena ci fosse la possibilità, ad assumere a tempo indeterminato quei venti ragazzi. Inoltre, si crea una task force paritetica dove noi sfidiamo l’azienda, linea per linea, postazione per postazione, a rendere più efficiente lo stabilimento dimostrandogli che in realtà le assunzioni si potevano fare.
«Nel marzo 2020, però, comincia la pandemia e dobbiamo avviare un’altra tornata di scioperi con una ragione completamente diversa, perché non ci volevano lasciare a casa sostenendo che eravamo “essenziali”. E quindi, con il rischio di ammalarci, senza dispositivi di protezione, lottiamo per essere lasciati a casa. Già allora si fece questa battuta tra di noi: oggi lottiamo perché ci dicono che siamo essenziali, domani lotteremo perché ci diranno che siamo esuberi…
«Dal 16 marzo 2020 abbiamo ottenuto di stare tutti a casa, in cassa integrazione anticipata dall’azienda. In realtà, loro cedono la domenica sera, ci mandano un sms dicendo: domani non vi presentate al lavoro… quindi sto vizietto ce l’hanno sempre avuto. Tre giorni dopo mandano un altro messaggio e avvisano i venti ragazzi in staff leasing che non rientreranno. Proteste social, dirette, promesse di dargliele di santa ragione appena rientravamo… Purtroppo il rientro, a metà maggio, riguarda solo un terzo dei lavoratori. La produzione è bassissima, la paura tanta, le mascherine ci sono e non ci sono, tutta una discussione difficilissima sul protocollo anti-contagio, l’Asl che ha un atteggiamento molto debole verso l’azienda… Solo il 26 maggio 2020 riusciamo a fare tre ore di sciopero, simboliche perché non c’era produzione, per questi venti ragazzi, poi dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco e riprendere a lavorare.
«Il 3 luglio 2020 ci ritroviamo di nuovo tutti dentro e iniziamo, con la gente che ci guardava come se fossimo marziani, con una settimana di scioperi articolati. Il primo giorno di lavoro pieno – perché il lavoro era ritornato alla grande – che fai, scioperi? E sì, sciopero, perché il 15 agosto cessava il blocco dei licenziamenti e nello stabilimento Gkn di Birmingham avevano annunciato centottanta esuberi mentre noi lavoravamo tantissimo. A quel punto ci guardiamo in faccia: ci siamo, stanno “facendo magazzino” per chiuderci.
«Dopo una settimana di scioperi articolati, l’azienda firma un accordo sempre in sede regionale: confermiamo tutti gli accordi precedenti al Covid, non ci saranno licenziamenti, e se cambiamo idea ve lo diremo in anticipo. Questo un anno e un mese fa. A settembre la produzione riscoppia, loro pur di risparmiare ci avevano lasciato a casa ad agosto con tre settimane di ferie, accumulando un ritardo verso il cliente incredibile. Ci mettono di fronte al ricatto: o fermiamo il cliente, che nell’automotive è una cosa gravissima perché si paga fino a ventimila euro al minuto di penale, oppure ci fate rientrare i venti ragazzi in staff leasing che abbiamo cacciato durante la pandemia. Ok, diciamo noi, li fate rientrare con quale prospettiva? Due mesi e poi li rimandiamo a casa, dicono loro. Per noi era inaccettabile. Un venerdì di inizio settembre questi ragazzi ci avvertono che le agenzie interinali avevano già fissato le visite, li stavano facendo rientrare mentre noi trattavamo. Li contattiamo e loro, in maniera eroica, decidono di rifiutare le visite mediche e di non presentarsi all’agenzia. In realtà sono diciotto, perché due manutentori siamo riusciti a non farli uscire mai… L’azienda allora ci scavalca e fa entrare diciotto interinali presi dalla strada. Noi gli facciamo l’articolo 28 e il tribunale ci dà ragione, ma niente sanzioni… Si arriva al gennaio 2021. Si bussa alla Regione, che ci dà appuntamento a febbraio, e gli si dice: guarda, sono già due accordi che questi violano; noi si è fatto gli scioperi, il tribunale, voi che pensate di fare? Risposta: gli chiederemo un incontro. La Regione non l’abbiamo più rivista, l’abbiamo rivista qui dopo essere stati chiusi. Se non altro negli incontri al ministero ha testimoniato di essere stata frodata quanto noi, perché poi chiesero un incontro all’azienda e quella rispose: “Perché ci chiedete un incontro? Noi non siamo un’azienda in crisi, ve lo diamo il 20 luglio”. Intanto a marzo si avvia una procedura d’urgenza, dove si chiede all’azienda trasparenza sui seguenti temi: i futuri programmi, i volumi che stanno arrivando e gli eventuali esuberi, perché nel frattempo c’era tutto un processo di automazione, di robot che sostituivano l’uomo, e dai nostri calcoli si perdevano settanta posti di lavoro a regime. Gli incontri sono andati avanti fino all’8 giugno. In questi incontri ci hanno dato i programmi 2022-2023, un head counting come dicono loro, un “conto delle teste”, in cui dicevano che nel 2022, nella peggiore delle ipotesi, ci sarebbero state difficoltà a ricollocare ventinove persone, che è una cifra irrisoria; noi gli avevamo fatto uno schema di figure professionali mancanti dove si potevano ricollocare queste persone. Gli abbiamo mandato una mail il 26 giugno con il nostro piano e gli abbiamo detto: oh, voi siete spariti, ma noi vogliamo vederci, non è che si va a settembre. Ci hanno risposto il 6 luglio: sì, sì, ora fissiamo l’incontro. Il 9 luglio ci hanno chiuso.
«Tutto questo discorso per far capire che l’unica cosa inaspettata è stata il giorno, l’ora e la modalità. E per eludere tutta la rete di scioperi, scontri, sanzioni, accordi che noi gli abbiamo messo intorno per provare a tenerli sotto controllo hanno dovuto dissimulare tutto, nel senso che negli ultimi tempi secondo noi hanno mentito ai loro stessi dirigenti. C’erano tecnici che facevano gli straordinari perché c’erano i “business” che partivano a settembre… Hanno continuato a ordinare un sacco di roba, dalla mensa che aveva una settimana di viveri, fino alle batterie dei muletti ordinate il giorno prima, ventimila euro… Insomma, un enorme sperpero di soldi».
COINVOLGERE TUTTI
Gkn ha acquisito da Fiat lo stabilimento di Novoli (Firenze) nel 1994, per poi trasferire la produzione a Campi Bisenzio un paio d’anni dopo. L’ottanta per cento dei componenti prodotti è destinato a Stellantis-Fca, quindi alla Fiat. Questo, secondo gli operai, è l’indizio di un ulteriore probabile disimpegno di Stellantis dall’Italia, con ricadute gravi sui posti di lavoro nel settore automotive, già in crisi da alcuni anni.
In Gkn il rapporto di fiducia tra i delegati sindacali e la base è molto forte, fin dai tempi della Fiat. Una tradizione rinverdita e aggiornata attraverso meccanismi di partecipazione che hanno permesso un crescente coinvolgimento di tutti i lavoratori, simboleggiati dalla nascita del Collettivo di fabbrica tre anni fa e dalla formalizzazione dei delegati di raccordo, figure intermedie che affiancano la Rappresentanza sindacale unitaria (Rsu) e permettono una presenza capillare in tutti i reparti.
«Abbiamo sempre coinvolto la Fiom – dice Dario Salvetti –, che è il sindacato principale qua dentro. Gli articoli 28, per esempio, li può fare solo l’organizzazione sindacale. Ma l’iniziativa è sempre stata dell’assemblea dei lavoratori, della Rsu e del Collettivo di fabbrica. Qua si sono contaminate tante cose. Va riconosciuto alla “generazione Fiat” di avere creato delle tradizioni che comunque ci sono rimaste. L’esperienza con i vecchi di Fiat era basata su piccole cose, per esempio farti capire che tra te e chi comanda non è la stessa cosa, che bisogna lavorare con lentezza, lavorare in sicurezza, lavorare in qualità, non stare dietro alle mille urgenze che per l’azienda ci sono sempre, salvo poi lasciarti fermo quattro ore perché non sanno fare bene la manutenzione… Credo che i vecchi Fiat abbiano trasmesso un misto di ribellione e allo stesso tempo di orgoglio lavorativo che ci ha permesso di avere sempre la nostra testa e allo stesso tempo di sfidare l’azienda sul lavoro.
«Il legame tra la fabbrica e la politica si è andato sfilacciando negli anni, ma ci sono state altre contaminazioni, c’è chi ha scoperto il gusto della ribellione nella curva di uno stadio, c’è poi qua un cantiere sociale che si chiama Camilo Cienfuegos con il quale abbiamo sempre collaborato, infine c’è stato chi si è posto questa domanda: come rivitalizziamo un’organizzazione sindacale che ha una tradizione ma è sempre più vuota di contenuti? Non so quante aziende usufruiscono delle loro dieci ore di assemblea, noi addirittura in uno degli ultimi accordi le portammo da dieci a tredici perché si arrivava a ottobre che erano già tutte esaurite. Questi ultimi tre anni non so più quante assemblee abbiamo fatto. Per gli scioperi abbiamo usato tutti i tipi di articolazioni: quando c’era poco lavoro facevamo solo tre ore ma con corteo interno, oppure articolato di mezz’ora in mezz’ora, con un reparto che entra a lavorare e uno che esce; oppure di ventiquattrore, oppure semplicemente lo sciopero di indignazione di un’ora a fine turno, a volte l’iniziativa di fronte l’azienda il sabato, non in sciopero, perché in quel momento non avevamo l’energia per la lotta ma dovevamo tenere accesa la fiammella… E questo ci ha salvato tante volte, perché se noi li chiamavamo, i lavoratori uscivano in sciopero, poi dopo si discuteva dei motivi dello sciopero. Io sono nella Rsu da due mandati. Si è cominciato a creare un legame forte, fiduciario, tra lavoratori e parte della Rsu, che poi questa parte è diventata maggioranza, e nell’ultima fase c’è l’unanimità. Ma anche lì non è bastato, perché questa fiducia era passiva, era una fiducia per delega, per acclamazione, per voto, ma lo scontro era talmente forte che non bastava più nemmeno quello, avevi bisogno di poter distribuire tra i lavoratori quei mille compiti militanti, sindacali, che poi fanno sì che oggi tu sia in grado di riuscire a tenere in piedi tutto questo. Oggi lo riusciamo a fare perché abbiamo preso la rincorsa tempo fa e si può dire, date le circostanze, che tutto quello che abbiamo seminato è dovuto venire fuori dal terreno.
«Nell’ultima fase avevamo: l’assemblea dei lavoratori, che comunque rimane sovrana; la Rsu eletta per tre anni e poi il Collettivo di fabbrica, un organismo fluido e volontario, fatto di persone che si riunivano fuori dell’orario di lavoro, che potevano ritrovarsi in cento un sabato in un circolo Arci o in venti per riunioni tra quelli più assidui. Questa fluidità ha fatto sì che oggi tutti si definiscono parte del Collettivo, anche saltando sul carro un po’ all’ultimo, ma è umano e naturale che sia così. Di contro a questa fluidità, avevamo bisogno di figure più stabili su cui basarci. I delegati di reparto non bastavano, perché i nostri reparti sono troppo eterogenei, sia sindacalmente che a livello di numeri. Ci sono reparti di cinque persone e altri di cinquanta. Alla fine l’idea è stata di usare questo termine, il delegato di raccordo tra il lavoratore e la Rsu. Questi delegati sono coperti dalle garanzie dello Statuto dei lavoratori, hanno tre ore di permesso, quindi possono fare attività durante l’orario di lavoro, ma godono di permessi non cumulativi, se non usano quelle tre ore le perdono. Sono dodici, quattro per turno. Più i sette Rsu, più un rappresentante per la sicurezza. In tutto venti. A differenza della Rsu, che viene eletta dal basso, il delegato di raccordo è un misto tra una proposta dall’alto e una ratifica dal basso, nel senso che noi chiedevamo di farci arrivare le candidature, le vagliavamo insieme ai candidati e provavamo a rimodularle in modo che fossero coperti tutti i reparti e che ci fosse anche un minimo di rotazione, perché a parità di proposte andava scelto chi lo faceva per la prima volta, in modo da costringere la Rsu stessa a selezionare continuamente le persone, a parlare, a valutarle, e le persone a fare un’esperienza che poi passava ad altri.
«Quando è scoppiato questo casino, la Rsu e i delegati di raccordo sono diventati in maniera abbastanza naturale il comitato di assemblea permanente, cioè quelli che gestiscono tutto e che permettono alla Rsu di non essere schiacciata dalla parte organizzativa. Oggi abbiamo un responsabile vettovagliamento, che ha a sua volta responsabili di turno, un responsabile del servizio d’ordine, il cassiere che si basa a sua volta su cinque cassieri che coprono i turni… C’è un numero maggiore di persone che si prendono responsabilità».
CONTO ALLA ROVESCIA
«Abbiamo incassato la solidarietà di tutte le istituzioni – ha continuato Salvetti –. Una solidarietà che è in contrasto con le politiche di questi stessi partiti al governo. Noi non imploriamo nessuno, nemmeno le nostre organizzazioni sindacali. Non sarebbe corretto dire che il sindacato non sta facendo niente alla Gkn. Potrebbe fare di più? Secondo me sì. Farà di più? Vedremo. Spero non sarà necessario fare tutto da soli. Se si pensa che la nostra vertenza possa essere un momento simbolico di resistenza per tutti allora la si pratica, altrimenti cercheremo di praticarla con le nostre forze; però se poi questa vertenza perde e tu l’hai indicata come simbolica allora perdono tutti.
«Qual è oggi la differenza grossa tra la nostra proposta e quella del governo e dell’azienda: il fatto che le loro proposte non prevedono i mezzi di produzione. Prevedono il ricollocamento, i soldi, l’ammortizzatore, ma come individuo sei staccato dal produrre ricchezza con una professionalità, con dei diritti, con la possibilità di costruire intorno a quello una prospettiva di vita… Questo non è concepibile… cioè quei cazzo di macchinari che sono lì dentro, per loro sono quello che non deve stare lì dentro, in mano nostra. Per noi sono cinquecento posti di lavoro, per loro sono cinquecento individui. È una cosa diversa, sottile ma è diversa. E quindi per noi lo stato dovrebbe dire: libertà d’impresa? Vai, sei libero di andartene, ma gli strumenti di produzione rimangono qui. Questo ribalta tutta la narrazione di Confindustria, perché a noi ci stanno offrendo sussidi per diventare disoccupati, per poi polemizzare sul fatto che i disoccupati prendono i sussidi. È quello che vogliono. Oppure di ricollocarci da un’altra parte, ma intanto i posti di lavoro vengono distrutti.
«Questi pescecani della finanza sono l’ultimo distillato di un processo che va avanti da tanto, non è che lo fermi con la lotta del singolo stabilimento. Quindi noi abbiamo detto “la Gkn non si tocca”, ma allo stesso tempo “insorgiamo”, per dire che siamo solo l’anello di un processo, gli ultimi di una catena di smantellamento dei diritti del lavoro e i primi di una serie ulteriore di passaggi. Abbiamo rifiutato di descriverci come il caso del povero operaio che va a casa, perché la nostra condizione rimane comunque migliore di quella di quattro milioni di poveri che ci sono nel paese e di tre milioni di precari. Noi abbiamo avuto il privilegio di considerare anormale quello che ci è successo, quindi abbiamo detto: estendiamo. E il messaggio è stato compreso, il territorio ci ha abbracciato, tutti i settori, anche quelli non appartenenti alla nostra classe. Però non è sufficiente, abbiamo bisogno di estendere ancora, è una lotta contro il tempo e contro grosse forze contrarie».
Il conto alla rovescia della procedura di licenziamento – settantacinque giorni – si concludeva il 22 settembre. Il 18 settembre a Firenze più di ventimila persone hanno partecipato alla manifestazione nazionale organizzata dai lavoratori Gkn. In testa al lungo corteo, aperto dallo striscione “Insorgiamo”, i lavoratori del Collettivo di fabbrica, poi le bandiere dell’Anpi e della Fiom, gli striscioni di collettivi studenteschi, di gruppi politici e sigle sindacali, i lavoratori provenienti da altre regioni come quelli della Whirlpool di Napoli e della Embraco di Torino, ma anche dalle fabbriche toscane come i lavoratori licenziati dalla stamperia tessile Textprint di Prato. Il 20 settembre è arrivato l’annuncio che i lavoratori hanno vinto il ricorso per la condotta antisindacale dell’azienda. La procedura di licenziamento è interrotta. Si apre una nuova fase della vertenza, ma la lotta contro il tempo continua. (carmelo argentieri / luca rossomando)
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