Una mattina d’agosto mi sono messo in cammino verso i Balzi Rossi, l’estremo limite dello stato italiano. Ho lasciato la stazione di Ventimiglia e ho seguito strade calcate dal viavai estivo fino al mare, apparizione fra i richiami dei venditori e le palme. Fuori dalla città ho proseguito la marcia tenendo a sinistra un orizzonte dai toni spenti e nuvole lontane. Lungo un sentiero foderato di campanule dai petali blu e dal cuore malva un uomo con maglietta e cappellino mi veniva incontro pensieroso, a testa bassa. Ho chiesto se andavo bene per il confine. «No. Devi passare sopra, sulla strada delle auto. Qui c’è solo il porto, poi le spiagge». Davanti a noi ruspe immobili in un cantiere di mare. «Il porto di Ventimiglia. I lavori vanno avanti da cinquant’anni e ancora non sono finiti». Poco lontano sul lungomare svettavano i palazzoni degli anni Cinquanta e Sessanta, un’indigestione di edilizia costiera. L’uomo ha aperto una borsa e ha spiccato more selvatiche dai rovi oltre una rete. «Nessuno le raccoglie, come i fichi che stanno più su. Tutto lasciato a se stesso, ma al mercato la frutta costa tre euro. Mangiamo un po’ di more che la via fino alla Francia è lunga».
La strada d’asfalto saliva sul fianco montuoso, seguendo l’andamento della costa, con il mare immobile in basso. L’aria sapeva di fichi e i profili dei pini marittimi si stagliavano sul crinale come sentinelle. Sullo sfondo la Francia era una sagoma di un blu più scuro. Ville chiare e silenziose emergevano fra ulivi e inflorescenze d’agave, una piscina di un albergo rifletteva il sole pallido. Ogni tanto un treno francese scivolava sulle rotaie a fianco del mare. A Latte, l’ultima frazione, ho notato un negozio di alcolici Eurodrinks e nell’ultimo supermercato gli scaffali di vini e liquori s’allungavano davanti a me interminabili: merci convenienti per chi attraversa il confine. Dopo Latte, a Capo Mortola, ho di nuovo sbagliato strada. Alla ricerca di una scorciatoia ho seguito un sentiero ripido sino a un borgo dalle vie strettissime. Non so quale sia la sua origine, oggi è un agglomerato di case-vacanza di lusso. Ancora più in alto è possibile contemplare il giardino botanico e la villa di un ricco possidente inglese dell’Ottocento.
Dopo tre gallerie buie e inquietanti – solo all’esterno l’odore di eucalipto regalava un poco di quiete – ho raggiunto i Balzi Rossi. Il valico del ponte San Ludovico si allungava fra il mare e la montagna, sugli scogli sventolavano ancora alcuni teloni del primo presidio di migranti. Poco discosto, sotto una pineta, ho intravisto l’accampamento organizzato nelle ultime settimane dai viaggiatori africani e dai militanti del presidio No Border. Lungo il perimetro gli striscioni in italiano, francese e inglese erano dispiegati al sole. All’ombra del primo pomeriggio due migranti battevano il ritmo sui tamburi e un italiano teneva dietro con la chitarra. Ho camminato in giro e ho raccolto le voci degli attivisti. «Ci siamo allacciati alla rete delle irrigazioni e abbiamo tirato su le docce. Il bagno delle donne è un gran lavoro, abbiamo messo le piastrelle, quando è libero vai a vedere». Teloni e asciugamani erano stesi intorno alle arcate che circondavano i bagni, le tende erano disseminate all’intorno. Per lavarsi i denti e sciacquarsi il viso c’era un vecchio lavandino, poco più in là un altro rubinetto era adoperato per i piatti. Sopra di me è passato un treno francese, ho alzato lo sguardo: le arcate dell’accampamento sorreggevano la ferrovia. Lo sferragliare del passaggio segnava le ore di coloro che attendono.
Oltre la pineta ho osservato l’Hotel Balzi Rossi: i terrazzini dai muri ocra e le tende bianche sovrastavano un ristorante affacciato sul mare. Fra gli scogli e i pini vagavano gli ospiti dell’albergo, gli attivisti impegnati a organizzare il campo, i migranti. «Sono in gran parte sudanesi – mi ha detto un attivista –, nessun francofono. Gli operatori di France 3sono venuti per un reportage e pretendevano che i ragazzi parlassero francese. Non hanno capito nulla».
Ho assistito a un’assemblea di soli migranti, chissà cosa si sono detti. Erano tutti in cerchio e un ragazzo in centro gestiva il dibattito in arabo, poi ha pronunciato il nome di ciascuno e la riunione si è sciolta. «Sono circa novanta. Ogni giorno arrivano dei nuovi, altri partono. Se passano la frontiera? Passano, passano». Si organizzano in piccoli gruppi e tentano la sorte, oppure si affidano ai passeur. Ho osservato alcuni sudanesi seduti sul muretto davanti al mare. Due settimane fa erano dall’altra parte del Mediterraneo e presto – questo il mio augurio –, presto calcheranno le strade di un’altra nazione. Siamo tutti in transito qui, non ci sono parole per descrivere un’immagine nitida e precisa. Mi sono chiesto come appariamo noi – con le nostre chitarre, gli striscioni, il taccuino blu – ai loro occhi.
Da ponte San Ludovico ho preso un sentiero molto stretto che s’inerpicava fino al valico alto di ponte San Luigi. Ho costeggiato la stazione doganiera di polizia e in una piccola stanza ho visto sei, sette migranti seduti. Un uomo della Croce rossa era in piedi sulla porta con le mani dietro la schiena. Un agente ripeteva una cantilena nel silenzio: «What’s your name? And your name? Your name?». Cento metri oltre un altro spaccioEurodrinks ammiccava ai viaggiatori, poi la garitta d’altri tempi riposava inerte e dimenticata. Nessun posto di blocco per le auto, sono passato. Sul lato francese ho scorto ladouane di Mentone: in un angolo laterale c’erano due, forse tre container accerchiati da transenne. L’ingresso era controllato da un gendarme che mi dava le spalle. Ho visto quindici migranti, qualcuno in piedi, altri seduti sulla soglia dei container. I tuoni rumoreggiavano in lontananza.
Alla stazione del treno Menton-Garavan sei gendarmi erano impegnati in una discussione rilassata. Ho incrociato lo sguardo greve di un ragazzo arrestato, era seduto sulla camionetta con il capo un poco reclinato. Per resistere a un senso di smarrimento mi sono seduto a leggere il documento redatto a fine giugno dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. “I cittadini stranieri sono stati fermati dalle forze di polizia francese anche molto lontano dalla frontiera (molti anche a Parigi) […]. Alcuni cittadini stranieri vengono fermati sul treno, costretti a scendere alla successiva fermata, bloccati in attesa che arrivi il treno in direzione opposta e semplicemente fatti risalire su quest’ultimo […]. Ma la maggior parte viene trattenuta alcune ore dalla polizia francese, radunata in gruppo e riportata al confine con l’Italia con automezzi francesi e riconsegnata alla polizia italiana presso il valico di frontiera interno italo-francese di Ponte San Luigi. In tale caso ai cittadini stranieri riammessi viene richiesto nome, cognome, nazionalità e data di nascita, senza, tuttavia, che venga effettuato alcun rilievo fotodattiloscopico […]. Viceversa alcuni cittadini stranieri dopo essere intercettati sul territorio francese vengono riaccompagnati sul territorio italiano da automezzi della polizia francese e lasciati su una delle strade che attraversano il confine italo-francese sulle colline…”. Durante la lettura ho richiamato alla memoria le visioni dei container alla douane, ho immaginato il trasporto fino alle stanze della stazione di polizia italiana. Almeno, ho pensato, l’arresto non preclude la possibilità di tentare ancora il passaggio.
Il cielo era sempre più minaccioso. Mi sono incamminato verso il mare con l’intenzione di rientrare in Italia attraverso la frontiera bassa di ponte San Ludovico. Soltanto l’ingresso in Francia era presidiato. Due gendarmi erano appoggiati a una transenna e parlavano tra loro, un terzo controllava le auto che fluivano lente. Un furgoncino è passato senza subire perquisizioni. Di fronte al mare d’acciaio ho tentato di riordinare i pensieri, di scrivere alcuni appunti: «La frontiera qui non è una linea continua, non è una cortina di ferro, né un muro. La frontiera è qualcosa che avviene. È un sistema diffuso e discontinuo di pratiche dislocate in punti disparati. La frontiera avviene alla stazione di Mentone, in quella di Nizza, e lungo strade lontane nel cuore della Francia, avviene nei container della douane e negli accordi fra polizia e gendarmerie. Si aggrega e cambia posizione come le nuvole. Gli avvenimenti di frontiera non impediscono il passaggio dei migranti, ma lo rendono molto più difficile. L’invisibile traffico di umani gestito dai passeur è l’incidenza materiale più consistente prodotta dalla frontiera pulviscolare. Ma qui, lungo il confine convenzionale, gli avvenimenti di frontiera devono essere ben visibili perché assolvono poche, fondamentali funzioni: mostrano l’inesorabile meccanismo di una sicurezza apparente, tranquillizzano i cittadini intimoriti e arginano il flusso dei voti verso i nazionalismi montanti. A Mentone la frontiera è uno spettacolo».
Sono tornato al presidio sotto una pioggia leggera. Ho incontrato un amico che ha trascorso diversi giorni nell’accampamento e ci siamo scambiati alcune impressioni. «Sì, questa frontiera è tutta una propaganda». Ho tentato di avanzare alcune domande. Se il ponte San Ludovico è un palcoscenico, perché accettare la recita e diventare attori? Non c’è il rischio di rafforzare il gioco delle apparenze? «Conosciamo lo spettacolo e dobbiamo sfruttarlo a nostro vantaggio. E non dimenticare che siamo qui per dare una mano ai migranti, vivere con loro questa esperienza. Questo luogo è fondamentale perché dà loro modo di riposarsi da un lungo viaggio e trovare le forze per affrontare un nuovo spostamento».
Infine ho preso la via del ritorno. Alla stazione ho acquistato un biglietto per Cuneo, rotta nell’entroterra così distante dall’affollamento costiero. Le rotaie seguono il corso del Roja fra rocce sgretolate dove si arroccano paesi abitati dalla dimenticanza. Dopo Olivetta San Michele il treno è passato in Francia, ma le visioni dal finestrino non erano poi così diverse: fasce abbandonate confuse fra sterpaglie e pini marittimi. A Breil-sur-Roya, la prima stazione francese, una quiete si spandeva nell’aria sottile e sfiorava la banchina e il piazzale antistante, tre uomini erano seduti al tavolino del bar. Anche la stazione di Fontain Saorge era deserta, e così il campo da basket con i canestri su uno sfondo boschivo. Dalla via ferrata ho scorto l’immagine intermittente della cupola del campanile, variopinta e ricca di riflessi nonostante il cielo denso di nubi. Alla stazione di Vievola ho lanciato un ultimo sguardo alla Francia interna, poi il treno è rientrato in Italia. Negli anni diverse corse della linea Cuneo-Ventimiglia sono state recise; ormai ne restano soltanto due ogni giorno. A Trenitalia e a SNCF non conviene investire in manutenzione e forse la tratta è destinata a scomparire. Poco più su, in Val di Susa, le autorità immaginano da anni l’alta velocità e si scava la voragine profonda attraverso il confine – anche questi sono eventi di frontiera. Mentre il treno discendeva verso Cuneo ho immaginato i rapporti fra tutte le cose: la forma delle strade, i diritti alla mobilità, la dismissione delle montagne, le reti ferroviarie che nascono e quelle che muoiono, lo scambio delle merci e il traffico di uomini. Come se per un solo istante, e fuggente, tutto fosse intuibile come connessione di relazioni in espansione e in contrazione sul territorio, movimenti che coinvolgono gli uomini, le piante, le montagne e il Mediterraneo che tutto lambisce. (francesco migliaccio)
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