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1 Ottobre 2019

La lingua vuota del potere. Note sul festival delle migrazioni a Torino

(disegno di bonnie colin)

È venerdì notte fuori dal cimitero di San Pietro in Vincoli. Una famiglia dispone all’intorno gli oggetti ritrovati perché domani sarà giorno di Balon. Alcuni venditori arrivano nel quartiere a mezzanotte per prendere posto, vegliano sino all’alba. Un ragazzo sfaccendato mi sorride, mi chiede dei morti dentro al camposanto. Racconto dei condannati seppelliti qui nell’Ottocento, delle ossa di assassini e disperati, ma lui ride: «Dormo sereno lo stesso, stanotte. E poi ci vengo ad Halloween». Sento nella voce del padre quella molle cadenza di Bosnia. Una delle figlie gioca con il cordino di un manifesto appeso alla cancellata. Ecco s’affaccia sulla piazza un ragazzo in jeans con un pass al collo, squadra la bambina e intima: «Non staccarmi il manifesto! No, eh!». Al centro del manifesto un elefante siede su un ramo, sotto domina la scritta: “Festival delle Migrazioni. Dal 25 al 29 settembre”. Ben visibili i loghi delle tre compagnie di teatro organizzatrici: Acti Teatri, Alma Teatro, Tedacà. Accanto noto alcuni simboli degli enti collaboratori: CGIL, Scuola Holden, Arci Torino, Coldiretti, Medici Senza Frontiere. In alto il marchio del finanziatore: Compagnia di San Paolo.

Il programma prevede cinque giornate di proiezioni, cene all’aperto, spettacoli teatrali e dibattiti su temi attinenti ai fenomeni migratori. Sono intervenuti operatori sociali, attivisti e avvocati, accademici, membri di associazioni, intellettuali. Il quartiere di Porta Palazzo è lo scenario degli incontri, fra la Scuola Holden, l’antico cimitero di San Pietro in Vincoli e il Cottolengo. Ricordo il pomeriggio in cui un brillante linguista ha tenuto una lezione di sociopolitica dei confini: d’improvviso, posseduto da entusiasmo sovversivo, ha mostrato foto di sentieri non ancora presidiati dalle guardie. Durante un dibattito sul dialogo interreligioso femminile, un’accorata parlamentare socialdemocratica ha affermato che «serve una missione di ricerca e soccorso europeo, una risposta umanitaria e istituzionale europea, un Mare Nostrum europeo». Ancora, in un confronto sul lavoro delle donne migranti un’ospite ha parlato per venti minuti di salvataggi in mare. I racconti di un combattente internazionale in Rojava hanno preceduto, nella stessa sala, un dibattito con Tito Boeri apparso in video, mentre dal palco il presidente di Coldiretti Torino diceva che «gli stranieri sono una risorsa fondamentale!». Così i contenuti s’inseguivano spesso vacui in un’incoerente slabbratura.

Ho assistito a undici dibattiti, mi restano adesso registrazioni da ordinare, analizzare. Con lo sforzo del pensiero si potrebbero individuare delle linee critiche. Per esempio si potrebbero menzionare le occasioni dove s’è proiettata la figura del migrante buono, volenteroso lavoratore, utile risorsa. Si potrebbe mostrare come le riflessioni sulla comunicazione giornalistica abbiano smontato soltanto l’immagine del migrante criminale, deviato e portatore di malattie, senza ragionare sulla proiezione umanitaria: speculare, complementare e altrettanto coloniale. Oppure si potrebbe notare come i relatori d’origine straniera avessero ruoli sociali riconosciuti: una sindacalista, un’avvocata, ancora un sindacalista, attivisti e presidenti di associazioni, una scrittrice – poveri, incolti e dannate restano senza voce e rappresentanza. Si potrebbero evocare ancora i casi manifesti di sottile subalternità ai relatori bianchi. Tuttavia sarebbe uno sforzo inutile, un lavorio spossante. Invano la mente s’affatica a ritrovare il fondamento nascosto d’un pensiero diluito sino al nulla generico. Non v’era infatti alcun fondamento: le parole, i significati circolavano vaporizzati e vari, disordinati e contraddittori.

Dominavano concetti generici poveri di approfondimento: “narrazioni distorte” restano senza un’analisi delle origini materiali, la “pietas” è invocata con  ingenuo calore, il razzismo rimane un incubo privo di spiegazioni, «l’amicizia è una cosa faticosa». S’impiegano concetti di indistinte sfumature, accademici replicano il loro idioletto, le affermazioni confermano le attese del pubblico, le domande latitano. Anche gli interventi più solidi – un resoconto delle condizioni del lavoro femminile, un’analisi della resistenza delle donne palestinesi – sono annichiliti da un contenitore che ottunde. Se la critica non riesce a maneggiare i contenuti, allora deve analizzare la forma che li accoglie: il regime del discorso del festival. Gli organizzatori hanno intessuto una rete di alleanze e collaborazioni fra associazioni e istituzioni: questa struttura concede visibilità e rafforza le relazioni, ma vanifica la coerenza e l’approfondimento. In questo regime le parole liberate nel vuoto devono essere contrassegnate da sigle e loghi, le foto si diffondono nell’etere come testimonianze dell’evento e l’ente che finanzia promuove ancora una volta la cultura in città. Cosa s’intende, poi, per cultura? «La cultura e il teatro si devono occupare dei drammi della contemporaneità», afferma uno dei direttori del festival. Le compagnie teatrali, qui, realizzano dibatti politici, conferenze, cene, spettacoli e proiezioni; gli attori si trasformano in assistenti sociali e attivisti: la “cultura” appare come una continuità di linguaggi indifferenziati, un intrattenimento magmatico quanto effimero. Così il linguaggio sussiste in brusio espanso: grigio rumore riempie gli spazi per essere infine rendicontato.

Eppure questa critica, sin qui, è superflua. Il festival delle migrazioni non è un’innovazione, ma una ripetizione di modelli sperimentati nelle feste di partito, nelle manifestazioni tematiche dei grandi giornali, al salone del libro. È necessario allora comprendere quali siano le relazioni fra la forma del discorso e il contesto urbano e regionale. Noto allora che è assente ogni riferimento alle condizioni materiali del mondo circostante. Non si è accennato, per esempio, al centro di permanenza temporanea di Torino, alle rivolte e ai tentativi di fuga; manca un ragionamento concreto sulle condizioni di lavoro e abitative dei migranti in città; nessuna analisi ha descritto il sistema di accoglienza in Piemonte; assente una descrizione della situazione dei lavoratori nei frutteti di Saluzzo, mentre il presidente di Coldiretti ha invitato a «sfatare il mito della contrapposizione fra datore di lavoro e lavoratore». La proliferazione di un linguaggio edulcorato rimuove i conflitti e le contraddizioni della città, legittimando il governo dell’esistente. Per dimostrare questa tesi ricordo due questioni elise: lo sgombero dell’Ex-Moi in via Giordano Bruno, la storia recente del quartiere che ha ospitato il festival.

Quest’estate s’è conclusa la “liberazione” delle palazzine dell’Ex-Moi occupate dai rifugiati nel 2013. La Città di Torino e la regione hanno sostenuto il progetto di sgombero “dolce” governato da Compagnia di San Paolo, lo stesso ente che ha finanziato il festival delle migrazioni. Suad Omar, direttrice del festival, mediatrice culturale e candidata alle regionali nelle liste di Leu, era presente nell’agosto 2018 durante lo sgombero della palazzina dei somali. Mentre la celere accerchiava lo stabile, Suad convinceva gli abitanti a uscire. Se lo svuotamento dell’Ex-Moi è stato meritorio e necessario, un esempio di buon governo affermano le istituzioni, perché non discuterne in un festival delle migrazioni? Nella bulimia di parole il silenzio è rivelatore.

A Porta Palazzo i nuovi investimenti immobiliari incidono sulla vita degli abitanti d’origine straniera. Perché un festival delle migrazioni non racconta quello che accade poco oltre la soglia? In via Borgo Dora, a due passi dalla Scuola Holden, è stato sgomberato un palazzo dove abitavano famiglie straniere sotto sfratto, certe d’una proroga accordata dal tribunale. Era un’alba di fine giugno quando camionette e forze dell’ordine sono giunte di fronte al portone e hanno intimato di venir fuori. Poco oltre, appena dietro la Scuola Holden, nasce ogni sabato il Balon dei rigattieri e degli straccivendoli. In seguito a una delibera comunale di gennaio il mercato di San Pietro in Vincoli è illegale, ma venditori marocchini, rom e disoccupati, italiani e rifugiati violano l’ordine della giunta e s’organizzano in autonomia. Non sono stati ritenuti degni di un dibattito. Sabato mattina nel cortile del vecchio cimitero si discuteva di vaghi “immaginari di comunità”, pochi ascoltatori bianchi erano seduti in un angolo mentre il sole scaldava il prato. Dall’ingresso che s’apre sulla piazza vedevo il viavai denso di acquirenti in cerca d’oggetti sparsi sulle stuoie degli straccivendoli. Ancora una volta eravamo alieni nel quartiere.

La critica non riguarda la moralità dei singoli, ma le funzioni svolte da ciascuno di noi entro un sistema di potere. Regna forse un inconsapevole cinismo, mentre la città macina le vite dei marginali con sottile violenza. È venerdì notte fuori dal cimitero di San Pietro in Vincoli. Sono ancora con la famiglia bosniaca, il padre sorride compiaciuto ed estrae dalle cassette cianfrusaglie da vendere. Esce dal cancello un altro responsabile del festival. Il venditore indica un vecchio telescopio appoggiato contro il muretto:  «Lo volete? Con questo si vede il terzo mondo». (francesco migliaccio)

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