La critica dei poteri e dei saperi che hanno consentito la lunga storia di violenza delle istituzioni manicomiali passa attraverso la memoria di quei luoghi e delle persone che li hanno attraversati. Per questo il docu-film La Stanza delle Pietre e del Cielo, realizzato da tre promettenti esordienti – Sara Grilli, Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani – è un contributo importante a una lotta ancora in corso. Il film sarà presentato da Francesco Blasi e Maurizio del Bufalo, nell’ambito del Festival del Cinema dei Diritti Umani, in anteprima nazionale, il 22 settembre (alle ore 17:00) presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
La Stanza delle Pietre e del Cielo è un film sulla storia recente degli ospedali psichiatrici giudiziari (che un tempo si chiamavano manicomi criminali) che sono stati chiusi nel 2017 e sostituiti da nuove strutture chiamate Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Una chiusura che si deve ai rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, alla Commissione parlamentare di inchiesta e alla costante opera di denuncia di poche realtà organizzate (Associazione Antigone, Comitato Stop Opg) e di alcune singole voci (tra tutte ricordo qui, per Napoli, Sergio Piro e Francesco Maranta). Con interviste a testimoni privilegiati e persone che hanno subito l’internamento manicomiale e con immagini girate nell’ex Opg di Sant’Eframo, il docu-film ricostruisce lo scenario di sopraffazione e violenza che ha portato alla loro chiusura. Allo stesso tempo indaga sulle prospettive delle nuove strutture che andranno a sostituirli e del loro rapporto con lo stato dei servizi di salute mentale in Italia. E poichè, come insegnava Foucault, il corpo è la superficie d’iscrizione degli avvenimenti, tra tutte, assume grande valore la testimonianza di Sabatino Catapano, a lungo internato nel manicomio di Aversa. Perché, ancora oggi, risulta difficile ascoltare e raccogliere le testimonianze di chi ha subito le violenze dell’internamento, quasi come se la storia dei manicomi, civili o giudiziari che siano, la debbano raccontare solo i medici. Per fortuna una sensibilità nuova sembra affacciarsi su questo tema, come testimonia anche l’ottimo documentario Je so pazzo di Andrea Canova, di recente presentato a Napoli e basato sulla testimonianza di Michele Fragna, per cinque anni internato all’Opg di Sant’Eframo. In confronto, se il lavoro di Canova è incentrato sul rapporto tra passato e presente dell’Opg di Napoli (trasformato in soli due anni da un lavoro di attivismo politico e sociale), questo documentario offre un quadro d’insieme delle varie realtà manicomiali giudiziarie e in particolare di quella dell’Opg di Aversa. Un documentato lavoro di ricostruzione storica su un impianto narrativo che non rinuncia alla poeticità del racconto (come lo stesso titolo evocativo fa immaginare).
Ora chi legge potrà trovare una contraddizione in quanto fin qui scritto. Da un lato si parla di “una lotta ancora in corso” e dall’altro della “storia degli Opg”, il che fa presupporre che vi possa essere altro che un racconto di avvenimenti passati. Così non è. In primo luogo, perché se la chiusura dei manicomi criminali è stata giusta e necessaria, ciò che li ha sostituiti, strutture sanitarie di medie dimensioni diffuse sul territorio nazionale, non consente di superare le criticità del passato e il rischio che il cambiamento sia di forma e non di sostanza. Su tutto, basti pensare all’Opg di Castiglione delle Stiviere che, con un piccolo passaggio formale e qualche parete divisoria, da Opg è stato suddiviso in sei (6) Rems lasciando più o meno tutto come era prima. A ciò va aggiunto che sono state aperte in numerose carceri sezioni definite “articolazioni per la tutela della salute mentale” che altro non sono che celle destinate a persone con sofferenza psichica. L’Opg, lungi da scomparire, si è così disseminato in una quarantina di Rems e in numerose sezioni penitenziarie, senza peraltro che i dispositivi manicomiali (internamento, uso della contenzione fisica e farmacologica, prevalenza delle esigenze di cura su quelle di custodia) siano stati intaccati o sostanzialmente modificati. Questo tema non riguarda solo le migliaia di persone che hanno attraversato i manicomi criminali, ma i milioni di persone che, quotidianamente, si rivolgono ai servizi di salute mentale territoriale, ormai quasi smantellati e impoveriti dalla costante riduzione delle risorse a loro destinate. Se la psichiatria oggi si declina, quasi esclusivamente, nelle forme dell’intervento di emergenza e nel proliferare di strutture semi-custodiali è perché un’assistenza medica di lungo periodo, inclusiva, estesa e accogliente, è divenuta privilegio di poche aree del paese (per esempio, Trieste). Altrove, al di là dello sforzo generoso dei singoli, la sofferenza psichica è un calvario di solitudine e rifiuti. Per questo è importante che lavori come La Stanza delle Pietre e del Cielo siano inseriti non alla voce “critica delle ingiustizie del passato” ma in quella di “volontà di sapere”. Volontà di sapere quali strategie e dispositivi sono alla radice delle ingiustizie presenti e volontà di lottare per porvi fine, senza mettere da parte la bellezza del racconto. Il manicomio ha una memoria lunga che si cela ovunque. Facciamo in modo di non dimenticarlo mai. (dario stefano dell’aquila)