Nel settembre 2012, per celebrare la cinquantesima uscita di Napoli Monitor, abbiamo preparato un “numero speciale” chiedendo a redattori e collaboratori del giornale di scrivere dei racconti sulla loro generazione, e ad altrettanti disegnatori di illustrarli a tutta pagina. Ne sono venuti fuori otto pezzi autobiografici – in un arco anagrafico che va dai venti ai quarant’anni – che pubblicheremo nel corso di questo mese di luglio, a distanza di quasi due anni dalla loro scrittura.
Palanza: Lavorare in tivù non è per niente divertente. Mettersi in mostra non è mai stato il mio forte, oltretutto. Da bambino mi annoiava salutare i parenti, schierati in fila, detestavo recitare poesie e mi seccava essere ricoperto d’attenzioni. Le cose non sono cambiate con gli anni. A un certo punto della mia vita – non ricordo né come né quando – ho deciso che volevo fare il giornalista. La strada normale (Il Roma; Cronache di Napoli; Corriere del mezzogiorno; Il Mattino; autodistruzione) non è che mi allettasse molto. Allora ho mandato il curriculum a una tv privata. Ho fatto due colloqui e ho iniziato. Quando si desidera qualcosa se ne vedono solo i lati belli.
Pazzaglia: Ho conosciuto Palanza all’università. All’Orientale non è facilissimo trovare qualcuno con la nostra competenza calcistica, e galeotto fu il Corriere dello sport del lunedì mattina. Non abbiamo mai seguito corsi insieme, eppure, scambiandoci opinioni su calciatori e campionati di mezzo mondo siamo diventati buoni amici. In seguito abbiamo scoperto di condividere molte cose, dai gusti musicali alla passione per il giornalismo. Lui lavorava per una tivù privata, io, in procinto di laurearmi, avevo temporaneamente interrotto la gavetta nella redazione di Cronache di Napoli. Ci sarei tornato qualche mese dopo: ormai ero dottore in lingue, avevo il tesserino di pubblicista, e soprattutto non avevo alcuna voglia di continuare a studiare. Così, anche per dimostrare ai miei la buona volontà in campo lavorativo, la mia firma ricominciò ad apparire tra le colonne del quarto quotidiano cittadino per copie vendute. Ci mettemmo d’accordo anche per un fisso mensile: ben duecento euro ogni trenta giorni!
Pal: All’inizio scrivevo per il sito della televisione, da casa: sono stato il primo a dare notizia della morte di Micheal Jackson in Italia. Poi ho capito che il tele-lavoro (non pagato) non faceva per me. «Devo mettermi alla prova». Cominciai a uscire con operatori e giornalisti per cercare di imparare il mestiere, e a febbraio feci la mia prima esterna. Quel giorno annunciavano la creazione del “tutor” in tangenziale. Mi tremavano le gambe, la domanda al presidente dell’Automobil Club la fece un altro giornalista, e io stavo per svenire. Col tempo la tremarella passò, cominciai ad articolare le prime considerazioni – quando le tue domande non sono domande vuol dire che qualcosa non va… Domande banali per risposte pilotate. Riuscivo a portare in redazione quattro, cinque servizi in tre ore di esterna. I servizi non li bucavo mai, bisognava fare in fretta, tutto calcolato. Ingozzarsi in pochi secondi, fare le interviste subito, dare il via libera all’operatore e aspettare le parole “quando vuoi”, che stanno per “quando vuoi ce ne andiamo”.
Paz: L’istallazione dei tutor sulla tangenziale è stata uno spartiacque per il giornalismo italiano. Anche io, quel giorno, ricevetti la telefonata della mio caposervizio, una ragazza siculo-partenopea, paziente e professionale, che anni dopo si sarebbe quasi scusata per gli articoli che era costretta ad assegnarmi. Il compitino prevedeva quindicimila battute totali divise in tre pezzi, con interviste agli utenti della tangenziale, al rappresentante delle associazioni di consumatori, «magari ai casellanti», ma nonostante il disagio lo portai avanti con la consueta professionalità. Erano i giorni in cui cominciavo a prendere in considerazione l’idea di tornare all’università, appena tre mesi dopo aver chiuso.
Pal: Alle conferenze stampa, quando ci sono anche altri giornalisti, la domanda la tieni per te: risparmi le energie e voli verso la prossima conferenza. Per fare un servizio da due minuti servono: due dichiarazioni da trenta secondi, una ripresa sul manifesto della conferenza, due panoramiche (una in controcampo), qualche generica e non più di tre specifiche sui partecipanti. Inserisci in sala montaggio un breve audio – cosiddetto cappelletto – con informazioni che reperisci dal comunicato stampa e il servizio è fatto. Se sei di buon umore fai uno stand-up, l’operatore ti inquadra e dici due fesserie, massimo dieci secondi.
Paz: Dopo aver liquidato Cronache ero allo sbando. Sentivo di aver cominciato a scrivere un po’ meglio, e mi sembrava doveroso mirare più in alto. Nessun Toronto Star, tuttavia, era pronto a darmi spazio e denaro per qualche reportage sulla guerra greco-turca. Cominciai così a pubblicare le cose che ritenevo migliori su Monitor, e a scrivere gli altri pezzi in giro per periodici, cittadini e non, cercando sempre di farmi pagare, cosa non scontata nell’ambiente. Questo atteggiamento si rivelava fruttuoso in alcune occasioni, ma in altre mi costava persino qualche risata in faccia: ero ufficialmente nel mondo del lavoro, o forse è più corretto dire sul mercato. E nonostante la presunzione mi inducesse a pensare che la mia merce fosse superiore alla media, spesso rimaneva sul bancone. Così va la vita.
Pal: Alle conferenze del Pdl si mangia sempre bene, è un dato di fatto. Una volta ho visto Martusciello (non ricordo quale dei due, quello più strano) che non riusciva a parlare perché guardava ossessivamente il buffet. Erano le dieci del mattino, e lui voleva chiuderla subito. Magari non ne era convinto (infatti poi alle comunali si candidò Lettieri), però sembrava dire: «Mi candido io… basta che facciamo in fretta». Appena le sue groupies smisero di abbracciarlo e di chiedergli un occhio di riguardo, si gettò sul buffet. Zeppoline, panzarotti, torte rustiche. Il rinfresco della Camera di commercio invece era più delicato, enormi tavole colme di crostatine a frutta, canestrelli, caprese, sfogliatelle. Succhi di frutta, latte e caffè. A ripensarci, all’epoca una fonte di guadagno l’avevo: erano le manifestazioni Coldiretti, da cui uscivo sempre carico di prodotti tipici. Pomodorini del piennolo, cioccolata, marmellate, limoncello. È un bel modo che hanno quelli dell’ufficio stampa per non farsi dimenticare. E infatti io non li trascuravo: ogni volta che ero di turno li chiamavo per capire se erano in piazza, e comunque condividevo il principio del chilometro zero. Quanto hai guadagnato questo mese? Due piennoli e tre vasetti di miele di Palma Campania.
Paz: Al momento sono allo sbando esattamente quanto due anni fa. Sono sempre sul mercato, e solo in alcune occasioni riesco a vendermi con efficacia: prendo venti euro a ora (lezioni private), oppure mi metto d’accordo con chi mi vuole tutto per sé, “a botta” (per esempio per qualche traduzione dall’inglese o dal francese). Lavoro per strada o in casa, è indifferente, e sono bravo a mettere in mostra la mia mercanzia (per esempio gli articoli pagati che continuo a scrivere per i periodici di cui sopra), senza mai avere addosso quelli della buoncostume. Non trascuro altre strade: una libreria al Vulcano Buono (Nola) mi aveva offerto di lavorare ad agosto – contratto di un mese – per seicento euro, spese comprese. Ho tentennato e rifiutato. Se ti vendi a così poco il cliente successivo se ne approfitta.
Pal: Al contrario di Pazzaglia, che a Cronache ha sempre avuto contatti diretti con i gradini medi delle gerarchie redazionali, il mio rapporto con i vertici aziendali è stato disastroso. Ho cambiato quattro direttori in due anni. Con uno in particolare arrivai allo scontro sistematico. Per fortuna durò pochi mesi. Con gli altri mi trovavo bene. Sono arrivato a condurre, un paio di volte, una trasmissione sul Napoli. Il debutto fu imbarazzante: quando registri una trasmissione non puoi permetterti di dire: «Stop, si ricomincia». Soprattutto se i tecnici ti considerano il guaglione, ti devi saper meritare la loro fiducia. Allora per cercare di andare avanti un’ora senza capitolare decisi di bere, giusto un po’. Si vedeva che non ero lucido. I tecnici, però, stavano dalla mia parte: avevano assistito a qualcosa di nuovo, quindi se per loro andava bene, andava bene per tutti. Il fatto è che nelle televisioni private comandano loro. Operatori e addetti alla messa in onda sono la colonna portante di una tivù, quelli che l’hanno vista nascere. I pivelli sono i ragazzi che si alternano in redazione o i professionisti inquadrati come capo redattori.
Paz: Con il direttore ci ho parlato una sola volta: mi disse con chiarezza che la gavetta sarebbe stata lunga, e che prima di sistemarmi potevo aspettare anche dieci anni. Sotto di lui c’erano le grandi firme: il sindacalista, per esempio, che stava dalla parte dei lavoratori e scriveva i suoi articoli attaccando i “poteri forti”. Poi gli squali, che seguivano la politica alle calcagna del sindaco o del presidente di municipalità, facendo le pulci al loro operato oppure sfruttando ogni minima occasione per santificarne la figura. Un gradino sotto, le ragazze del desk, che potevano scrivere anche sei pezzi al giorno senza mai uscire dalla redazione. Alcune di loro sono ancora lì, a esaurirsi tra agenzie di stampa e telefonate, scrivendo e titolando con immotivato (soprattutto in considerazione della magra paga) senso del dovere, facendo credere al lettore che nella stessa giornata abbiano seguito avvenimenti tra Piscinola e la Sanità, Bagnoli e i Camaldoli. Altre, come “la siciliana”, sono scappate, stanche delle promesse di stabilizzazione, e di uno stipendio che chiamarlo tale farebbe arrossire uno schiavo. E poi c’erano quelli come me, che dovevano fornire notizie più local possibile: dalla lite tra condomini, al buco nell’asfalto per colpa della pioggia. Così, quando avevi tra i piedi una notizia di cronaca vera – uno scippo o una rapina –, ti sembrava di fare del grande giornalismo. Il nostro compito era quello di riempire le pagine. Un quotidiano così non si fa con i virgolettati da palazzo San Giacomo: «Sono le notizie del vicolo, che ci dovete portare». Ho detto basta dopo uno speciale su Halloween da sette articoli: le serate in discoteca più gettonate, le origini della festa, le zucche più vendute, il “torrone dei morti”. La linea era quella, e non reggevo più.
Pal: Anche da noi la linea editoriale era chiara: seguiamo gli amici nostri, quelli che ci hanno fatto qualche favore e quelli che ce ne faranno qualcuno. Se facevi perdere all’azienda un contatto buono, te ne andavi a calci, subito. A un certo punto ero diventato abbastanza affidabile, e se c’era una cosa delicata da seguire la seguivo io. Così mi ritrovai a gestire alcuni speciali, dalla durata di mezz’ora. Per montare un video di mezz’ora ci vogliono: dieci interviste lunghe, lunghissime, riprese a fiumi e testi ripetitivi. Se però lo speciale è per quel tale, allora devi stare attento, perché si tratta di un servizio a pagamento, soldi che dipendono da te ma non vanno nelle tue tasche. Dunque andavo a seguire gli speciali controllato da persone di fiducia dell’editore. Mi indicavano loro chi intervistare, a ritmi frenetici: una volta ho fatto undici interviste in dieci minuti… A due anni dagli esordi sono andato via, ma dopo tre mesi ho subito iniziato con un’altra televisione, una che a Napoli è una potenza. Cinque mesi, tanto mi ci è voluto per andare via anche da lì. Ho imparato che la televisione brucia, fa male, più che a chi la guarda, a chi la fa. Lo stress raggiunge livelli altissimi. E allora chi te lo fa fare, ragazzo?
Paz: Certo, chi te lo fa fare. A me, però, mette stress anche quest’incertezza. Mio padre e quelli della sua epoca usano dire che la loro generazione ha perso, io penso che la nostra non è nemmeno scesa in campo. Per di più ci sono parole irritanti, che mentre il gioco va avanti diventano di moda e altre che cadono in disuso. La parola di questo decennio è “precarietà”. Eppure io non mi ritengo precario, quella è roba per trentenni e quarantenni. Ma continuo a mandare curriculum, a cercare di farmi notare scrivendo nella maniera migliore che mi riesce, a vendere ciò che faccio quando capisco che il potenziale acquirente è interessato. Un paio di mesi fa ho sognato di essere un pesce enorme, forse un tonno, e di scrivere al pc, proprio come sto facendo ora, su un grosso bancone di legno, mentre alcuni personaggi mi osservavano. Forse decidevano se pubblicare o meno il pezzo. L’umiliazione di un sogno così, ne sono certo, Hemingway non ha dovuto subirla mai. (palanza&pazzaglia)
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