Nel settembre 2012, per celebrare la cinquantesima uscita di Napoli Monitor, abbiamo preparato un “numero speciale” chiedendo a redattori e collaboratori del giornale di scrivere dei racconti sulla loro generazione, e ad altrettanti disegnatori di illustrarli a tutta pagina. Ne sono venuti fuori otto pezzi autobiografici – in un arco anagrafico che va dai venti ai quarant’anni – che pubblicheremo nel corso di questo mese di luglio, a distanza di quasi due anni dalla loro scrittura.
Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta molte famiglie di giovani napoletani si sono spostate dai quartieri del centro a quelli della periferia come Pianura, Soccavo, Scampia; altre sono andate oltre, popolando quella che era ancora considerata provincia e non hinterland, paesi come Quarto, Melito, Caivano, Villaricca e molti altri. Se le prime accettavano di abitare in palazzi abusivi pur di restare sotto l’egida del comune di Napoli, le seconde rinunciavano a qualche servizio, anche primario, pur di vivere in un ambiente più “umano”, fatto di case basse, alberi e un dialetto diverso, con vocali allungate e storpiate rispetto al napoletano di città.
La mia famiglia, come quelle di molti trentenni e ventenni per retaggio napoletani, appartiene al secondo gruppo. Non diversi dai resoconti di storici e viaggiatori antichi, i racconti dei genitori dipingono i primi anni passati in provincia come il trasferimento in un luogo abitato da barbari; in fondo, cos’era la lingua degli indigeni alle orecchie di questi cittadini della polis se non un balbettio, cui l’etimologia greca della parola barbaro riconduce? Strade dissestate, acqua a giorni alterni, viaggi pendolari raccontati come una movimentata odissea mattutina: sono queste le esperienze dei primi esploratori nelle nuove periferie autonomamente governate.
La generazione di questi genitori, nata negli anni Cinquanta, era formata da quella classe media, compresi gli operai, che aveva avuto ben presto un lavoro stabile e la possibilità di acquistare una casa, se non al centro, appunto in provincia; in questo caso, si trattava perlopiù di un’abitazione di nuova fattura. La vita però era altrove, in quella che rimaneva la loro unica città di appartenenza, cioè Napoli. Nelle nuove case ci si sdraiava per recuperare le forze spese sul posto di lavoro. Da allora questi luoghi hanno assunto il triste nome di “dormitori”.
Il giardino dei writers
Curavano un giardino quei quattro ragazzi, dediti alla pulizia di un luogo dimenticato da tutti. Ero più grande di loro di cinque, al massimo sei o sette anni (Gianluca, quello che conosco meglio, è nato all’inizio degli anni Novanta), e la loro attività non mi sembrava altro che un decadimento di ciò che facevano i miei amici. In poche parole erano writer, ma di una nuova forma, del tutto diversa da quella praticata da noi. Per loro disegnare sui muri significa sceglierne uno ed esercitarsi a creare belle immagini, fascinosi murales dal cattivo manierismo conditi di figure riprese dagli stereotipi dell’immaginario di massa. Avevano scelto un muro nei pressi del vecchio stazionamento della Sepsa, e dandosi appuntamento ogni domenica allo stesso orario, si recavano (ma ancora oggi li si può trovare lì) in quel luogo non solo per imbiancare i vecchi disegni e tinteggiare la parete con scintillanti nuove opere, ma anche per ripulire il loro pezzetto di paradiso, il loro giardino, muniti di taglia-erba, falce, guanti e altri arnesi. «È cambiato tutto rispetto ai tempi tuoi – mi dice Gianluca –, niente è più come una volta, ormai non si può più pittare sui muri. Appena provi a farlo, qualcuno ti dice che quel muro è suo e può pittarlo solo lui. Quando c’eravate voi era più semplice, ora è come uno scontro tra bande, sembra di essere in una faida di clan».
Gianluca per me è il figlio del pizzaiolo sotto casa, costretto a passare lunghi sabato sera a guardare il padre al forno e la mamma alla cassa. Non so quanto sia vero quello che dice, sicuramente è l’espressione di un nuovo modo di praticare il disegno in strada: meno politicizzato e più concentrato sull’aspetto tecnico. Pochi anni prima, noi andavamo nel vicino deposito verso l’una di notte per disegnare su un supporto mobile, cioè sui treni della Cumana, nella speranza che all’indomani il veicolo si muovesse sui binari, attraversando tutta la linea ferroviaria fino a giungere all’ultima stazione, dove i disegni sarebbero stati visti da tutti. La mattina seguente ci si svegliava presto e si andava a Montesanto per scattare una foto ai “pezzi” mentre il treno viaggiava. Tutto, a partire dai nostri genitori, ci spingeva verso Napoli. Quarto era stata l’infanzia, felice sì, ma pur sempre una fase a sé stante, ormai terminata. Adesso dovevamo tornare da dove eravamo venuti.
Gli spazi intorno al deposito dove agiscono i nuovi writer hanno la bellezza di una casa non abitata, cioè di un oggetto che non assolve la sua funzione: asfalto chiaro, quasi bianco, blocchi di pietra in ordine fra loro ma piazzati arbitrariamente rispetto a tutto il resto, capannoni vuoti, terreni abbandonati, sterpaglie. Il non-finito è la stabilità di questi luoghi. Dopo aver lasciato al loro lavoro i giardinieri-writer, mi dirigo verso la stazione; mentre ritorno, guardo attentamente ciò che mi circonda, finché sono costretto a confessarmi all’amico che mi accompagna: capisco solo ora che il territorio vissuto è uno scarto di ciò che doveva essere; come se un’improvvisa epifania avesse mostrato la vera natura dei luoghi della propria infanzia: una provincia mangiata dalla quasi-città.
Quarto violata, Quarto salvata
Le prime voci giunsero nel 2008, durante la crisi che affossò definitivamente l’amministrazione regionale del governatore Bassolino. Se la discarica di Pianura non avesse riaperto, sarebbe toccato a Quarto concedere una cava per la nuova discarica di provincia. Erano mesi caldi, e probabilmente la paura e la tensione degli scontri (cui Quarto non fu indifferente) erano la vera causa delle voci. Infatti Quarto reagì come se fosse questo il suo destino: dieci giorni di isolamento a causa dei blocchi stradali. I pendolari, studenti e lavoratori, furono costretti a rinunciare alla loro odissea quotidiana, prigionieri del dormitorio. Furono quelli anche i primi tempi in cui Quarto salì alla ribalta dei telegiornali nazionali: la cittadina vicino alla discarica di Pianura era rimasta da giorni senza pane a causa della protesta e questo non poteva essere ammesso in un paese civile; come al solito i media provavano a depistare il pubblico dai reali motivi di conflitto. Guardando indietro, quei giorni furono una preparazione al dopo, una prefigurazione degli avvenimenti successivi.
Le voci passarono, insieme alla definitiva rinuncia a riaprire la discarica di contrada Pisani e con questa la promessa di una bonifica che resta ancora oggi un miraggio. Si rimase tranquilli per più di due anni. Con il cambio delle diverse giunte locali (cioè regionale, provinciale e del comune di Napoli), cambiarono gli equilibri e anche il nuovo piano regionale per la gestione dei rifiuti. Secondo quest’ultimo, c’era (e c’è) bisogno di individuare un nuovo sito per una discarica in provincia di Napoli.
Questa volta Quarto era realmente la predestinata, con una cava in via Spinelli, al confine con Licola e Monteruscello. La mia prima reazione fu consigliare a mio padre: «Vendi la casa e tornatene da dove sei venuto». Ne avevo viste troppe negli ultimi anni: prima Chiaiano, poi Terzigno. Avrei volentieri fatto a meno degli scontri, delle mamme in prima linea, della paura dei tumori, dell’onda mediatica che si ripresenta sempre con lo stesso copione (se la gente si difende, allora c’è la camorra). Il risultato sarebbe stato solo uno: la creazione di un nuovo immondezzaio dagli odori nauseabondi, che avrebbe rovinato la vita ai più di trentamila abitanti quartesi. Meglio rinunciare a un luogo che tutto sommato non ci apparteneva.
E invece i presidi sono montati, sono state organizzate manifestazioni in paese e al centro di Napoli con una partecipazione da corteo metropolitano. Sotto lo slogan che rivendica l’appartenenza del paese al paesano, ho visto riuniti quartesi nativi e immigrati napoletani, amici della mia generazione e genitori di quella passata. Per qualcuno, forse, la conca quartese era qualcosa in più di un comodo dormitorio con tre fermate della Circumflegrea e una della Metro. E se pure fosse stato solo questo, doveva essere il loro dormitorio pulito: in fondo, la sera prima di andare a letto ci si lava ben bene.
Ragazzi come Mario, che mai avrei immaginato di vedere ai presidi, sono la testimonianza di ciò che l’urgenza ambientale e sanitaria ha fatto venire fuori in questi anni: enfant terrible al tempo delle medie, faceva parte di quei nativi di Quarto che hanno passato la loro adolescenza “fuori alla villa comunale” del paese, girando in motorino per quasi tutta la serata e facendo ogni tanto qualche puntata al biliardo. C’era un muro tra noi e loro, la sensazione ereditata di osservare dei barbari. Poi man mano, con ritmo carsico, questo muro è stato scalfito e definitivamente abbattuto con gli ultimi fatti riguardanti la discarica: l’esigenza di una connessione sincera fra le diverse anime quartesi, affinché fosse formato un fronte compatto, ha permesso il superamento di dinamiche sociali instaurate in quel territorio da almeno una ventina d’anni.
Dopo aver visto la reazione quartese, l’amministrazione regionale (incarnata per l’individuazione di nuove discariche nel commissario Vardé, ora dimissionario) ne ha tentate varie, prima cercando di far calmare le acque, poi individuando all’inizio del 2012 una nuova cava, il Castagnaro, con la vigliaccheria di scegliere una zona sotto la giurisdizione del comune di Pozzuoli, ma di fatto appartenente a Quarto. A pochi passi dalla vecchia discarica di contrada Pisani, il Castagnaro può dirsi una riserva naturale nel bel mezzo di chilometri e chilometri di cemento non-finito, distribuito tra centri commerciali, palazzine, strutture immotivate e abusivismi vari che caratterizzano i comuni di Monteruscello, Licola, Qualiano, Marano e Pozzuoli; ma i quartesi, ircocervo di napoletani e indigeni, sono stati vigili, e non hanno avuto paura di minacciare il peggio nel caso in cui fosse aumentata la tensione. Al di là degli schieramenti ideologici, i militanti dei Carc, partito extraparlamentare di stampo marxista-leninista, sono stati i principali registi dei presidi e delle manifestazioni. Hanno raccolto intorno a loro la gioventù variegata quartese, riuscendo a coinvolgere nelle lotte anche chi era lontano anni luce dalla politica. All’ultima manifestazione organizzata al Castagnaro ho incontrato Mario: «Sono convinto che ce la faremo, ormai ci siamo dentro e non abbandoniamo il Castagnaro. Dobbiamo fare i turni di notte per non permettere che s’impossessino della cava quando noi non ci siamo, ma la discarica non la faranno». Mentre si aspettava il collegamento con la comunità resistente della Val di Susa, siamo andati a prendere una birra; un papà quartese con una bambina in braccio scambiava qualche parola con un ragazzo: «Beh, se vogliono venire questa notte, noi ci barrichiamo dentro». Guardandomi intorno ho notato anche la faccia di Gianluca: dava una mano a organizzare la serata e a tenere tutto sotto controllo.
Curare il proprio giardino
Forse oggi a Quarto, come in gran parte dei comuni confinanti con Napoli, non è più percepita come prima la differenza tra provincia e città, proprio perché quest’ultima ha ormai definitivamente inglobato nei suoi meccanismi anche i piccoli centri. La generazione degli anni Ottanta, figlia di migranti verso le periferie/provincie urbane, pare che oggi abbia accettato pacificamente la sua natura mista; benché sia molto riluttante nel definirsi quartese, riconosce quel luogo come parte fondamentale del proprio processo di crescita. In alcuni casi, qualcuno è pervaso da un orgoglio rovesciato, e si fa custode di una memoria che non ha, contro chi, nativo di quel paese, troppo spesso si lascia andare alla cementificazione diffusa (ma entreremo nel capitolo “colpe dei quartesi” – compresi i napoletani – troppo lungo per essere affrontato qui).
I nuovi writer, che scelgono luoghi che prima di essere muri su cui disegnare sono spazi da coltivare, sono strettamente imparentati con i ragazzi in prima linea per fermare la creazione di una nuova discarica. Esprimono entrambi la volontà spontanea, e allo stesso tempo cosciente, di curare i propri luoghi, affinché siano sottratti al destino di desolazione che li attende. Un’espressione come “curare il proprio giardino” potrebbe essere letta in questo caso non come una frase che indica un atteggiamento individualista e il disprezzo degli spazi altrui, ma come un’espressione che rinvia alla volontà disinteressata di prendersi cura di uno spazio comune: cioè, salvare il giardino di molti (questo sarebbe il vero senso dell’aggettivo “proprio”) dall’avanzata del disfacimento. (bernardo de luca)