Quante volte abbiamo sentito dire del nostro paese che ama dividersi. Tutto è una partita di calcio nella quale o stai da una parte o stai dall’altra. Dopo un mese di confinamento e di scuole chiuse, il confronto, se lo vogliamo chiamare così, continua, tra chi è soddisfatto e chi invece è enormemente deluso, stanco. Con tutta una serie di gradazioni intermedie che compongono questo complesso puzzle che è appunto il mondo della scuola nel nostro paese, così diverso da una regione all’altra, da una città all’altra e da una classe all’altra all’interno della stessa scuola.
Quel che è certo è che le scuole sono chiuse. Quel che non è chiaro è cosa dovesse accadere a partire da questa chiusura e cosa accadrà nel prossimo futuro. La polemica sulla didattica a distanza tiene banco. Un paese con le percentuali più alte al mondo di cellulari pro-capite, dove l’ultimo modello di televisione al plasma va a ruba e file lunghissime affollano i negozi di elettronica ogni fine settimana, si riscopre assai diseguale dal punto di vista della disponibilità dei device e semi-analfabeta dal punto di vista informatico.
Adulti e bambini ora che devono, per forza di cose, utilizzare questi strumenti per studiare, lavorare, soddisfare un bisogno di comunicazione reso più impellente dall’isolamento si ritrovano meno capaci, meno sicuri, meno autonomi di quel che pensavano. Eppure, abbiamo letto fiumi d’inchiostro sul rischio della precoce esposizione dei bambini alle apparecchiature informatiche; stigmatizzare l’uso della prima comunione per giustificare l’acquisto del primo cellulare e poi gongolare sulle capacità dei nativi digitali di “navigare” in autonomia muovendosi da un’applicazione all’altra. Qualcosa non torna. Chi è l’assassino? Il maggiordomo?
E a scuola, quella parte di adulti della nostra società che insegna, come ha reagito alla pandemia? Nelle Indicazioni Nazionali del ministero, nel non sospetto 2012, si invitava a ragionare sul fatto che “fare scuola oggi significa mettere in relazione la complessità di modi radicalmente nuovi di apprendimento con un’opera quotidiana di guida, attenta al metodo, ai nuovi media e alla ricerca multi-dimensionale. […] Poiché le relazioni con gli strumenti informatici sono tuttora assai diseguali fra gli studenti come fra gli insegnanti, il lavoro di apprendimento e riflessione dei docenti e di attenzione alle diversità di accesso ai nuovi media diventa di decisiva rilevanza”. Ora che i muri delle aule sono crollati e la co-presenza nello spazio è saltata, strumenti che ci sembravano avveniristici come le LIM, che soldi (tanti) e corsi di formazione (sic!) erano costati per poterle usare, ai quali avevamo appena fatto in tempo ad abituarci, sembrano desueti ferri vecchi, con i quali non saper più cosa fare.
Sono le piattaforme di comunicazione online che adesso mettono in crisi la nostra alfabetizzazione informatica. Nel mondo dei messaggi vocali, dei videomessaggi, delle videochiamate, scopriamo che più della metà degli insegnanti non è in grado di costruire un power point. O che ha difficoltà a registrare un video. Che “mostrarsi” in uno schermo imbarazza.
Certo, come racconta Danilo Corradi, c’è stato anche chi, istintivamente, è ricorso agli unici strumenti che permettevano di mantenere viva la cosa più importante: la relazione con studenti e studentesse. Ma di fronte a indicazioni vaghe del ministero (circolare 388), la verità è che anche questa volta le reazioni sono state diversissime. Rare quelle di chi ha rapidamente riadattato la propria didattica sulle nuove piattaforme. Molte quelle di spaesamento, anche comprensibile, di timore verso un mondo che se funzionale a occupare il nostro tempo libero non desta paure, ma se diventa strumento di lavoro spinge molti ad attivare resistenze che forse non credeva neanche di avere.
La mamma di una bambina di cui sono stato il maestro mi scrive serafica sollecitata su questo argomento: “La nostra esperienza di didattica a distanza si esprime con semplici compiti caricati tramite registro elettronico, mandati alle maestre via mail, e una video-lezione che non so se si ripeterà. Le maestre non le biasimo, non sono preparate forse? Chi lo era? Non che debbano collegarsi alla stazione spaziale di Parmitano… le piattaforme sono gratuite, ci sono supporti di tutti i tipi, basta solo navigare. […] Direi che sono contenta di avere tempo (nostro malgrado) di poter contribuire a colmare delle lacune nelle mie figlie”.
Nello stesso istituto ma in un altro plesso, un’altra mamma mi dice: “Giulia fa la terza elementare, il registro di classe ha funzionato subito, le maestre caricano i compiti nella voce materiale didattico e noi genitori siamo diventati i segretari dei nostri figli (scherzo!). Per il momento le lezioni online all’interno dell’istituto sono state fatte da qualche maestra senza il consenso della preside, di propria iniziativa. Noi abbiamo due maestre molto brave, ma la maestra principale è restia alle lezioni online. Malgrado rispetti la sua decisione, mi ritrovo a passare interi pomeriggi a fare un lavoro che non è il mio e ti assicuro che da sola con un altro figlio di quasi quattro anni in casa non è facile. Il rappresentante di istituto ha chiesto alla preside che vengano attivate le lezioni online per permettere a tutte le classi di avere gli stessi strumenti per procedere con il programma”. Maledetto programma, penso.
Stesso quartiere, due strade più in là, mi racconta un papà che a loro è andata bene. “Siamo stati tanto fortunati. Hanno realizzato una didattica ben strutturata. Hanno fatto un nuovo calendario delle lezioni. Hanno una didattica live dalle 10 alle 12,15 circa, che svolgono sulla piattaforma Zoom, con le due maestre che spiegano, interrogano, fanno fare dei compiti… Poi assegnano dei compiti da svolgere in giornata entro le ore 18 (due problemi di matematica, un riassunto di italiano, cinque uguaglianze, ecc.). Poi il venerdì lasciano all’incirca la stessa mole di compiti per il fine settimana. Tutti i compiti da fare sono descritti sulla piattaforma Weschool”. E la relazione, penso io? Non vorrei spegnere l’entusiasmo però… L’invito che faceva Raimo di dare priorità all’ascolto sembra essere caduto nel vuoto.
Di testimonianze ne potrei riportare altre. Restituiscono una pluralità di situazioni che sottoporre a un lavoro di sintesi non è affatto semplice. Poteva andare diversamente? Sì, certo. Potevamo parlarci. Potevamo provare a capirci e magari scoprire che potevamo anche venirci incontro. Genitori e insegnanti. Insegnanti e alunni. Invece, bisogna dirlo, soprattutto da parte degli insegnanti si sono diffuse incomprensibili resistenze. Come se all’uso degli strumenti informatici ci fosse un’alternativa. Come se qualcuno volesse obbligarli a qualcosa che non spettava loro. Come se ci si trovasse in una situazione “normale” e si potesse, in una normale (ammesso che sia tale) dialettica sindacale far valere ragioni di ordine corporativo. “Ma come li metto i voti adesso?”, uno dei problemi più impellenti.
Alle volte in modo organizzato, altre caotico, ma sostanzialmente i bambini hanno ricevuto questo: compiti, attività che per essere svolte hanno implicato il coinvolgimento dei genitori. Dopo tanto criticare la scuola – quella pubblica o privata, in questo caso poco cambia –, migliaia di famiglie nel nostro paese hanno sperimentato con una terapia shock cosa sia l’home-schooling. Cosa sarebbe la nostra società se la scuola non ci fosse, se veramente la descolarizzassimo come sosteneva andasse fatto quel genio di Ivan Ilich, che però immaginava un orizzonte di radicale trasformazione della società che non si è dato, anzi. Dopo decenni di neoliberismo vediamo quali danni siano stati fatti al sistema di istruzione e quali conseguenze abbia determinato la sua riconversione a uso e consumo dell’economia ordo-capitalistica contemporanea. Su questo tema resta utilissimo un contributo di Enrico Bottero nel numero 2 di Cooperazione educativa dell’anno scorso.
Tutt’altro che utile poi è stato il contributo di quelli che in questi giorni – riesumando un asfittico dibattito che per comodità potremmo ricondurre al celebre testo di Eco su apocalittici e integrati – si sono affrettati a squalificare e contestare la praticabilità della didattica online apportando una gamma di argomentazioni che vanno dalla pura retorica biopolitica alla manifesta ignoranza, al pregiudizio perfino un po’ crociano, che su questi temi rispunta fuori quando meno te lo aspetti, a quell’umanesimo di tipo tutt’altro che nuovo, che così poco sarebbe piaciuto a Gramsci. Come se un complotto contro la scuola del fare, la scuola del collaborare, la scuola dello stare insieme in classe, uniti come un corpo solo, alunni e insegnanti, fosse stato ordito dal più perfido dei pedagogisti integrati. Giuste le parole di Roberto Maragliano spese nei loro confronti.
Anche il documento del Movimento di cooperazione educativa, condivisibile e sensato, su questo punto mostra una timidezza che oggi non possiamo permetterci. Io questa scuola del fare, che parla tanti linguaggi diversi, che respira Rodari e odora di Malaguzzi, l’ho vista rarissime volte e in genere dove l’ho vista, praticata e rivendicata tra ostacoli e diffidenze, sa parlare benissimo il linguaggio dei nuovi media, sa mescolare tecnologie diverse, dal libro, che è una tecnologia anche quella, al video, al podcast.
La retorica dei corpi che a distanza non si potrebbero guardare, sentire, toccare, mi pare strumentale e anche un po’ stucchevole. Come se il corpo, ci insegna Foucault, non fosse una tecnica anch’esso. Spunti interessanti per sistemare delle lenti diverse davanti ai nostri occhi le offre Franco Lorenzoni, che invitandoci a riprendere in mano il romanzo La storia di Mina, di David Almond, ci fa ragionare su come anche in una situazione di cattività il corpo posso diventare motore di scoperte e sorprese. Meno d’accordo con lui quando dice che gli schermi e le mura il corpo lo disattivano. In realtà, era già disattivato nella alienante quotidianità scolastica, sarebbe stato difficile immaginare un ribaltamento nella didattica a distanza. Certo, i mezzi che usiamo per comunicare condizionano quello che diciamo, ma sostenere che la tecnica non permetta l’espressione del sentimento, mi pare un pregiudizio bello e buono. Diciamo piuttosto che nella nostra scuola, fin dai primi anni della primaria, prevale una didattica trasmissiva, gerarchizzata, dove corpi, sentimenti, emozioni, libera espressione sono praticamente banditi e dare loro cittadinanza è una battaglia che conducono in pochi.
La pandemia ha prodotto uno sconquasso. Se diventasse un’occasione per ripensarla la scuola, per non tornare più a farla come si faceva prima? E tutti quegli slogan sbandierati negli ultimi anni sulla digitalizzazione, l’innovazione, la comunicazione diventassero veramente realtà, terreno di confronto e sperimentazione, per renderla più giusta, più aperta, più inclusiva di prima? Io credo che sia ancora possibile, purché, come già in passato è capitato, ci sia la volontà di liberarsi di molti fardelli e di lasciarsi andare, di rimboccarsi anche le maniche, perché ci sarà bisogno di molte energie, di tanta immaginazione. Ma ne potrebbe valere veramente la pena. (giovanni castagno)