Venerdì 24 marzo, alle ore 18, nella sede del SiCobas di via Enea Salmeggia 2, a Milano, verrà presentato il numero 9 de Lo stato delle città. Interverranno Aldo Milani, coordinatore nazionale SiCobas; Marina Prosperi, avvocato; attivisti della Rete solidale CiSiamo.
Pubblichiamo un articolo tratto dalla rivista per introdurre i temi che saranno in discussione a Milano.
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Piacenza è la “capitale della logistica” italiana. L’area industriale che si estende nella provincia emiliana è composta da oltre cinque milioni di metri quadrati occupati da insediamenti logistici in posizione strategica: il polo Le Mose, il Logistic Park di Castel San Giovanni e il Magna Park di Monticelli d’Ongina sono infatti al centro tra gli svincoli autostradali Milano-Napoli e Torino-Piacenza-Brescia; tra gli aeroporti del milanese, gli snodi portuali di Genova, La Spezia, Livorno, Venezia, Napoli e Bari, e tra gli scali commerciali belgi, polacchi, rumeni e tedeschi.
Nel 2019 un protocollo d’intesa tra le istituzioni locali e la Rete ferroviaria italiana (Rfi) consacrava Piacenza come “il Polo del ferro”, mentre già nel 2013 l’amministratore delegato di Amazon Italia Logistica, dichiarava: “La nostra presenza a Castel San Giovanni è orientata al lungo periodo, non vediamo l’ora di iniziare le assunzioni per il nostro nuovo sito nella regione”.
Amazon è oggi il modello da seguire per consentire alle merci di viaggiare nel minor tempo possibile e con il minor costo. Nel 2021 la multinazionale di Seattle è passata a coprire dal 4% al 23% del mercato online italiano. Il centro di distribuzione di Castel San Giovanni – grande quanto undici campi da calcio – è il punto di riferimento della distribuzione in Italia.
Secondo un’indagine della sede piacentina di Confindustria, nel primo semestre del 2022 il fatturato delle imprese locali sarebbe aumentato del 17,3% rispetto al 2021. Nella conferenza stampa il presidente di Confindustria locale ha poi sottolineato l’importanza del progetto comunale “Invest in Piacenza”, che censisce le aree edificabili o dismesse e immediatamente fruibili a uso produttivo. Dal Pnrr arriveranno risorse per connettere l’area industriale con nuovi treni e incentivi alle aziende per ridurre la loro dipendenza “energivora”.
Ciò che il rapporto di Confindustria non menziona è il numero delle frodi fiscali di cui sono in qualche modo complici le multinazionali, in una regione definita “la banca delle cooperative”. Nella logistica (ma non solo) il sistema cooperativo è connesso a condizioni molto svantaggiose per i lavoratori: TNT, BRT, GLS, SDA, DHL, ovvero i colossi del comparto, utilizzano gli appaltatori per non assumere in via diretta la manodopera da impegnare nei magazzini e nel trasporto merci. Il vantaggio è duplice: da un lato affidano a micro-società in appalto la responsabilità delle assunzioni, del versamento dei contributi e dei licenziamenti; dall’altro abbassano il costo del lavoro grazie alle trattative con i consorzi, i quali scelgono le cooperative sulla base della miglior offerta.
Grazie a questo meccanismo la multinazionale può proporre un costo orario per lavoratore svincolato dalla retribuzione prevista dai contratti collettivi nazionali; il consorzio guadagnerà la differenza rimanente dall’offerta accettata dalla cooperativa, e la cooperativa approfitterà del fatto che l’Inps dal settimo mese di attività in poi non effettua più controlli sul versamento dei contributi, e si guadagnerà così la sua porzione di profitto. Il lavoratore, che se assunto direttamente dalla multinazionale avrebbe avuto un “costo” orario di circa quindici euro lordi, verrà pagato dalla cooperativa sei o sette euro, senza contributi. In sostanza, i contratti con le società cooperative nascono e muoiono con l’intenzione di svalutare il costo del lavoro e di parcheggiare i lavoratori nel limbo dell’incertezza occupazionale. Nonostante in una cooperativa un semplice operaio dovrebbe essere considerato per legge “un socio lavoratore”, nei fatti non ha diritto di parola nella gestione delle turnazioni, non ha diritto alla malattia retribuita e non riesce a maturare giornate di ferie e permessi mensili se risulta in regime part-time. Inoltre, le cooperative assumono con dei livelli che non rispettano le mansioni reali dei lavoratori, risparmiando su tutte le voci retributive in busta paga.
Il periodo di attività di una società cooperativa è di due anni, lasso di tempo in cui un lavoratore non riesce a maturare neanche il primo scatto di anzianità. Allo scadere del contratto, i consorzi possono proporre ai lavoratori degli accordi tombali con la promessa di garantire il proseguimento del rapporto con l’appaltore entrante, che spesso altro non è che lo stesso padrone della cooperativa chiusa, con una nuova carta d’identità societaria. Gli accordi tombali, spesso avallati dai sindacati confederali, vengono usati in gran parte per costringere i lavoratori a rinunciare alle differenze retributive che gli sarebbero spettate al termine del rapporto, a fronte di poche centinaia di euro.
LE PRIME LOTTE
Una delle iniziative che ha dato grande popolarità al sindacato intercategoriale Cobas tra i lavoratori è stata la messa in discussione, a partire dal 2011, del sistema delle cooperative e della pratica degli accordi tombali. Le prime lotte hanno avuto luogo nel milanese, per esempio alla Bennet di Origgio, e subito dopo nel piacentino, alla TNT. Per i lavoratori della logistica, in quegli anni, i turni arrivavano anche a quindici ore giornaliere, spesso alternate a lunghe pause non retribuite, con una paga di sei o settecento euro mensili, a cui sottrarre a volte un “regalo” per il caporale. I caporali erano fondamentali per le cooperative. Si sporcavano le mani quando necessario, come in GLS, dove attendevano i lavoratori armati di bastoni; e se un giorno l’azienda chiedeva cinquanta persone in meno, era il caporale che decideva chi sarebbe rimasto fuori dal magazzino.
La lotta alla TNT di Piacenza fu dura e lunga, ma portò a firmare degli accordi da far applicare in tutti i magazzini della filiera. I protagonisti di quelle lotte, che hanno combattuto il sistema di appalti e subappalti, oggi fanno parte del SiCobas, nonostante nel corso degli anni l’attività di molti di essi sia entrata nel mirino della procura di Piacenza, con l’accusa di destabilizzare l’ordine pubblico a suon di scioperi e blocchi stradali, e di intimorire le aziende della logistica desiderose di investire nel piacentino.
Da un punto di vista legislativo, intanto, numerose disposizioni andavano verso la creazione di strumenti non ascrivibili tra le “legislazioni speciali” (come era avvenuto negli anni Sessanta e Settanta), ma come quelle atti a reprimere il dissenso o persino la diversità: era accaduto contro i migranti (con le misure urgenti per l’espulsione degli stranieri), poi in tema di investigazioni e controlli (con l’introduzione presso il Dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’interno della banca dati nazionale del Dna), ed è accaduto con i cosiddetti “decreti sicurezza Salvini”, che i lavoratori della logistica ben conoscono. Questi decreti sono infatti intervenuti non solo sul trattenimento degli stranieri nei Cpr, o sulle disposizioni riguardanti la protezione internazionale, ma anche sull’inasprimento delle pene per i reati di occupazione di immobili, sull’introduzione delle aggravanti per reati commessi nel corso delle manifestazioni, sui reati di devastazione e saccheggio e di danneggiamento. I sindacati di base si sono scagliati fin da subito contro la reintroduzione del reato di “blocco stradale”, che nel 1999 aveva visto la depenalizzazione del “blocco di strada ordinaria” (la modalità di lotta più usata durante scioperi e picchetti), mantenendo come fattispecie penale il solo blocco ferroviario.
Uno dei lavoratori che in questi anni ha collezionato numerose denunce durante le lotte, e tra i principali imputati della recente inchiesta sulle attività del sindacato, è Mohamed Arafat, coordinatore provinciale del SiCobas a Piacenza. Nel 2007 Arafat era uno dei tanti lavoratori egiziani “a chiamata” sul territorio piacentino. Guadagnare settecento euro al mese in TNT significava a quell’epoca essere disposto a turni che potevano arrivare a quindici ore giornaliere – spezzate da pause di sei o sette ore non retribuite – e dover rientrare nelle grazie dei caporali per non rischiare di dover tornare a casa a mani vuote dopo un lungo viaggio in bicicletta.
Fu un gruppo di lavoratori arabi, entrato in contatto con gli operai milanesi della Bennet di Origgio iscritti al sindacato, a dare inizio alle lotte sul territorio. Trattando direttamente con la multinazionale, i lavoratori riuscirono a regolare i turni; seguirono le trattative per il riconoscimento delle malattie e di tutti gli istituti contrattuali a cui fino a quel giorno non avevano avuto accesso, come le ferie, la tredicesima, la quattordicesima, i ticket mensa e i premi di produzione annuali.
Queste prime vittorie diedero fiducia ad altri operai del comparto, spingendoli a replicare il semplice ma efficace modello di lotta: posizionarsi davanti ai cancelli e attendere i camion, per poi sedersi a terra e formare dei cordoni umani impossibili da scavalcare. Allo sciopero si anteponeva il blocco delle merci, come mezzo per uscire dall’invisibilità e mostrare forza all’azienda.
L’altro sindacato di base che oggi opera nel settore della logistica, l’Unione sindacale di base (Usb), avrebbe fatto il proprio ingresso nel comparto qualche anno dopo. Piacenza era già l’epicentro della logistica e l’Usb optò per un consistente investimento politico su un ramo in forte crescita.
Nel caso della GLS l’ingresso in azienda avviene nel 2016. L’hub piacentino gestito dal consorzio Executive era già il più grande d’Italia, ma le condizioni erano estreme, dall’igiene alla sicurezza. Dal 2013 però il SiCobas aveva ottenuto la possibilità di aumentare il livello d’inquadramento, non solo passando da una mansione a un’altra più qualificata, ma anche tenendo conto dell’anzianità nel magazzino e ottenendo due giornate di ferie in più. Un accordo che diventerà esemplare per tutti gli altri magazzini e che farà scuola anche a livello internazionale.
A fine 2016, tre rappresentanti del SiCobas vengono espulsi dal sindacato perché si rifiutano di partecipare a uno sciopero nazionale per il miglioramento dei contratti. I tre aderiscono alla Cgil, ma vengono allontanati anche da lì dopo alcune aggressioni ai danni di lavoratori del SiCobas, riconducibili a un clima di estrema rivalità tra figure sindacali. Seguiti da un gruppo di lavoratori, quasi tutti egiziani, i tre si rivolgono all’Usb, che forma così un proprio gruppo nello stabilimento. Da quel momento l’Unione inizia una politica piuttosto aggressiva in GLS, indicendo scioperi e picchetti non solo finalizzati alla tutela dei lavoratori, ma anche, verosimilmente, a colmare il divario che la separa, numericamente e come prestigio tra gli operai, dal SiCobas.
Con il passare del tempo la tensione tra gli operai appartenenti ai due sindacati si fa sempre più alta, tanto che i dirigenti sono costretti, talvolta loro malgrado, a farsi garanti di accordi per provare ad abbassare il livello dello scontro, anche se non mancheranno frequenti proteste volte a mostrare agli operai che entrambi i sindacati non hanno paura di andare alla lotta. Ad aumentare la conflittualità ci pensa poi il consorzio Executive, che prova da un lato a ricondurre a un disegno unico tutte le azioni di lotta promosse dalle sigle sindacali, con sfilze di denunce per manifestazioni non autorizzate o blocchi stradali; dall’altro, cercando di escludere i due sindacati dal processo di chiusura di uno stabilimento dal destino segnato – con l’idea di aprire un nuovo hub a Novara –, per evitare di dover trasferire i lavoratori nel nuovo magazzino e poterne assumerne altri non sindacalizzati e meno costosi, azzerando dieci anni di lotta in un colpo solo.
IL TEOREMA
Il 12 luglio 2022 il giudice per le indagini preliminari Sonia Caravelli, su richiesta del sostituto procuratore Matteo Centini e del procuratore capo di Piacenza Maria Grazia Pradella, dispone l’applicazione degli arresti domiciliari per sei sindacalisti accusati di numerosi reati e soprattutto di associazione a delinquere finalizzata al perseguimento di “interessi di tutt’altra natura”, estranei alla “difesa dei diritti dei lavoratori”. I sei arrestati (Ali Mohamed Arafat, Aldo Milani, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli del SiCobas; Abed Issa Elmoursi e Roberto Montanari dell’Usb), congiuntamente agli altri indagati (Elderdah Fisal Elkotb e Zaghdane Riadh Ben Amor dell’Usb), vengono accusati di aver estremizzato il conflitto con la parte datoriale negli stabilimenti piacentini della logistica, nonché con il sindacato “concorrente”, al fine non di ottenere migliori condizioni per i lavoratori, ma di ricattare i datori di lavoro ed estorcere benefici che – se si fa eccezione per qualche assunzione in “quota sindacale” – non vengono mai chiariti con precisione in trecentocinquanta pagine di ordinanza.
Come evidenzia il tribunale del Riesame di Bologna, il provvedimento si basa su una concezione di estorsione assai originale se accostata alla lotta sindacale, che, per sua natura, da oltre centocinquant’anni (solo per limitarla al nostro paese), accompagna ai negoziati forme di conflitto anche radicali (manifestazioni, scioperi, boicottaggi), al fine di ottenere dei vantaggi per i lavoratori e – più ad ampio raggio – un progresso sociale. Queste pratiche conflittuali, per i giudici, sono dei “reati” tout court, sebbene in molti casi questi siano diventati tali solo in epoca recente, in conseguenza di una legislazione sempre più repressiva; le azioni, teorizzano i pm, sarebbero state organizzate dai leader sindacali per fare pressione sulla parte datoriale, al fine di ottenere dei generici “vantaggi”. Tra questi, uno dei pochi che viene esplicitato è quello di “consolidare la presenza del proprio sindacato all’interno del magazzino” per accreditarsi davanti agli altri lavoratori “come l’organizzazione più efficace e in grado di far ottenere loro condizioni migliori”. I reati veri e propri, invece, di cui vengono accusati gli imputati, sono: violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, sabotaggio. Lotta politica, in altre parole, a cui risponde un processo tutto politico.
Vale la pena analizzare alcuni elementi che emergono dal fascicolo, e che danno la misura di un teorema accusatorio viziato da un approccio politico piuttosto che giudiziario. Un approccio che emerge già nelle premesse all’identificazione dei soggetti sottoposti alle indagini. Scrivendo di Arafat, Milani, Pallavicini e Scagnelli, per esempio, il giudice fa notare come la “conquista dei magazzini” – rivendicata in effetti dai sindacalisti – fosse finalizzata, tra le altre cose, a ottenere “ricche buone uscite in caso di cambio appalto”. Sul giuoco delle scatole cinesi di cooperative e concessionarie che operano in subappalto delle grandi compagnie, però, i giudici si guardano bene dal soffermarsi, decontestualizzando la pratica di rivendicazione dei bonus (pratica lecita, tra l’altro) e collocandola in un’immaginaria isola felice in cui è un gruppo di candidi imprenditori a essere vessato da lavoratori che in realtà cercano di capitalizzare gli anni di lavoro passati, in condizioni spesso estreme, all’interno di camion e capannoni.
Nel fascicolo, inoltre, si fa spesso riferimento a movimenti di denaro di cui avrebbero goduto i leader sindacali, movimenti che però non sono mai contestabili come reati. Sembra evidente come l’obiettivo della procura sia quello di screditare il gruppo di sindacalisti, obiettivo apparso palese durante la conferenza stampa della procuratrice Pradella, che è stato amplificato dai media e che i sindacalisti dovranno scrollarsi di dosso ora – sebbene non vi siano reati imputati – e anche dopo, quando le accuse più grottesche saranno state archiviate.
A tal proposito, vale la pena menzionare alcuni dei filoni di indagine: quelle fatte su alcuni beni del delegato egiziano del SiCobas Arafat, tra cui un Suv con quasi quattrocentomila chilometri, acquistato di seconda mano a circa novemila euro (indagini basate per lo più sulle testimonianze di un suo ex cognato, denunciato in passato dalla famiglia di Arafat per maltrattamenti sulla moglie); quelle sulle spese di trasporto per le continue manifestazioni e assemblee organizzate dal SiCobas; e quelle sulle percentuali che lo stesso SiCobas è solito chiedere ai lavoratori su ogni guadagno extra, soldi destinati alla cosiddetta Cassa di Resistenza (dal fascicolo: “denaro da destinare in parte a rafforzare la posizione di potere dei leader all’interno dei rispettivi schieramenti” – affermazione calunniosa, ma non argomentata in alcun modo). Il giudice peraltro non si fa scrupolo di inserire nel fascicolo informazioni strettamente private e irrilevanti per l’inchiesta, ma recanti pregiudizio a persone non indagate, a cui si allude di volta in volta come tossicodipendenti o ludopatici, sulla base di una o due intercettazioni.
Interessante è il registro utilizzato nell’ordinanza per sostenere il teorema accusatorio, un vocabolario che con stupefacente costanza finisce per etichettare qualsiasi pratica di lotta (picchetti, blocchi stradali, sabotaggi, occupazioni) come “estorsione” o “ritorsione”, servendosi di un lessico tipico delle imputazioni per associazione mafiosa (abbondano i verbi e i sostantivi derivanti da parole come “costrizione”, “ricatto”, “minaccia” e così via). È, questo, un vero paradosso, considerando che proprio nel settore della logistica i sindacati di base denunciano da anni la presenza di capitali – tanto al Sud quanto al Nord – di dubbia provenienza, in particolare nel passaggio tra un subappalto e l’altro, e pratiche di assunzioni e gestione dei flussi di lavoro altrettanto opache (non sono rare per gli imprenditori del settore le condanne per frode fiscale, danno erariale, caporalato, truffa, organicità alla criminalità organizzata). «La mafia c’è nella logistica – ha raccontato Arafat quando l’abbiamo intervistato – ma è nelle aziende, in molte piccole concessionarie, e questo c’entra molto con il conflitto. Nel 2016 è stato fatto uno studio nel comparto con il quale si chiedeva alle aziende: “Come pensate di migliorare le vostre imprese nel futuro?”. Il 96% degli interpellati, amministratori delegati, responsabili risorse umane, eccetera, rispondeva: “Contenendo il costo del lavoro”».
DIETRO LA REPRESSIONE
L’emergenza pandemica, oltre ad avere imposto un nuovo modello di vita e di relazioni sociali, ha accelerato il processo di trasformazione della manodopera operaia in manovalanza para-robotizzata. La ristrutturazione del settore logistico di cui oggi si parla è strettamente connessa al tema dell’erosione dei diritti sul lavoro e al rischio che le conquiste ottenute negli ultimi anni dal sindacalismo di base vengano messe in discussione proprio a partire da una delle sue roccaforti.
Se il modello delle cooperative spurie è connesso a opachi e continui spostamenti di denaro (non di rado di provenienza illecita), quello promosso dalla multinazionale Amazon scava ben più a fondo nelle contraddizioni del capitalismo 4.0, un sistema che teoricamente si propone di utilizzare le nuove tecnologie non solo per creare nuovi modelli di business e aumentare la produttività, ma anche per migliorare la qualità delle produzioni e le condizioni di lavoro. In realtà, è proprio nella logistica che il capitale sta disegnando le nuove frontiere dello sfruttamento lavorativo.
Il modello tracciato da Amazon è, infatti, quello della totale eliminazione del lavoratore garantito dall’organico aziendale, con il reclutamento dell’intero corpo operaio attraverso le agenzie interinali. Una prassi che permette di disporre di manovalanza sempre nuova, perennemente sotto ricatto e disposta ad abbassare a oltranza il costo orario del lavoro. Finora il colosso americano è riuscito ad aggirare sul territorio italiano tutte le normative riguardanti le percentuali di lavoratori interinali assumibili in organico, attraverso l’utilizzazione delle cosiddette “categorie protette”.
Yaya Yafa era un lavoratore interinale: morto nel 2021, giovanissimo, alla SDA di Bologna, rimasto vittima – come ha denunciato il SiCobas – delle condizioni di insicurezza all’interno dello stabilimento (uno degli elementi che più determina la pericolosità del lavoro interinale nel comparto logistico è l’assenza di corsi di formazione adeguati e/o periodi di affiancamento con lavoratori più esperti, o di percorsi di rafforzamento della lingua necessari agli stranieri per comprendere le procedure di sicurezza).
La tensione scaturita dalla morte del ventitreenne e dalle sempre più difficili condizioni di lavoro imposte dal “modello Amazon” nei magazzini, si è tradotta nell’arresto nel marzo 2021 di Arafat e Pallavicini (imputati per gli scontri e i blocchi nei siti TNT-Fedex del piacentino). I due, circondati da operai e giornalisti, avevano promosso davanti ai cancelli dell’enorme hub della multinazionale la prima iniziativa di denuncia contro le condizioni imposte nella “cattedrale della logistica”. Anche in quel caso, il Riesame ha liberato dai domiciliari i due sindacalisti.
Peraltro, in tema di lavoro interinale, lo scorso agosto il sindacato è riuscito a strappare un accordo molto positivo, che obbliga le aziende che fanno parte di Fedit ad assumere tutti coloro che avranno prestato lavoro per diciotto mesi alle loro dipendenze a tempo determinato, oltre a dover concordare una lista di prelazione per lavoratori con almeno otto mesi di presenza, anche non continuativa.
Da tempo le procure si muovono in maniera risoluta nei confronti di quei pochi gruppi che riescono a catalizzare l’insofferenza dei non garantiti. La modalità che dà meno nell’occhio è sicuramente quella di imbastire teoremi che giustifichino accuse pesanti come l’associazione a delinquere, che – lo dice il Riesame – in questo caso si confonde addirittura con l’associazione sindacale. Non è quindi casuale che nell’ordinanza che applica la custodia cautelare – fondata sulla contestazione del reato associativo – la procura si preoccupi di specificare che “la richiesta del pubblico ministero non può essere tacciata di alcun tipo di ideologia o di intento repressivo”.
Non è infine da trascurare il peso che esercitano le grandi aziende su tutti i poteri dello stato, da chi gestisce l’ordine pubblico (si vedano le modalità della Digos durante i picchetti nei pressi dei capannoni) a quelli politico-giudiziari. Non a caso, l’input decisivo all’indagine di Piacenza arriva dalle continue segnalazioni e denunce fatte dai dirigenti aziendali.
Ricostruendo i giorni dell’arresto dei sindacalisti a Piacenza, Aldo Milani, coordinatore nazionale del SiCobas, ha collegato la pubblicazione degli atti dell’inchiesta con la crisi del governo Draghi, sostenendo che uno dei risvolti politici del procedimento potrebbe essere stato quello di lasciare in dote al governo entrante un quadro delle aree geografiche e sociali del paese in cui le lotte riescono ad avere un’incidenza maggiore e «a far più male nella prospettiva di una visione di classe, e non semplicemente sindacale».
Anche Milani, come Arafat, al momento del suo arresto a luglio 2022, era stato già più volte oggetto delle attenzioni dei tribunali emiliani, in particolare della procura di Modena, arrestato con l’accusa di estorsione ai danni di Levoni, industriale noto nella zona per le proibitive condizioni di lavoro all’interno dei suoi stabilimenti (ben narrate nel libro Carne da macello, Red Star Press, 2017). Il pm aveva chiesto e ottenuto l’assoluzione di Milani per non aver commesso il fatto, in relazione all’episodio in cui gli si contestava di aver proposto “ai signori Levoni di stipulare nuovi appalti di manodopera con cooperative e consorzi di loro conoscenza, garantendo che non sarebbero sorti problemi di gestione; in alternativa chiedevano il pagamento di una somma di diecimila euro per una presunta consulenza di lavoro”.
Come spiegato in precedenza, l’accusa di estorsione è diventata un mezzo per provare ad assestare dei colpi prettamente politici all’esercizio di un sindacalismo conflittuale; ma l’attacco mosso a partire da questa distorsione del linguaggio penale non è il solo. Alcuni provvedimenti degli ultimi mesi, per esempio, rischiano di minare la stessa sopravvivenza economica del sindacato.
Uno di questi provvedimenti muove dalle denunce dell’azienda XPO, che chiede al SiCobas un milione di euro come risarcimento danni a causa del ripetuto blocco del trasporto delle merci. Ancora, nel modenese, l’azienda di surgelati Italpizza, che aveva già portato a processo sessantasette lavoratori, si è costituita parte civile avanzando la pretesa di un risarcimento danni con una prima tranche da cinquecentomila euro. Ancora, fonti del sindacato riferiscono che l’ex senatore del Pd Pietro Ichino (avvocato che segue la XPO nella vertenza di cui sopra) avrebbe inoltrato una richiesta legata alla vertenza dei licenziati della Unes di Vimodrone a Milano: sottoscrivere un documento in sede prefettizia in cui l’organizzazione riconsidera la legittimità dei blocchi dei tir fuori dal magazzino. Pretese che evidenziano uno scientifico tentativo di compromettere le fonti di sussistenza di un piccolo sindacato che conta all’incirca trentamila lavoratori su una platea ben più ampia. Un accanimento che potrebbe avere effetti devastanti per il SiCobas se si considera che un’associazione sindacale di base può contare sui soli contributi delle tessere (che variano dai nove ai dodici euro per lavoratore part-time o full-time) e sugli introiti di gestione per le trattative di conciliazione, in gran parte pagati dai datori di lavoro per conto dei lavoratori fuoriusciti.
A Piacenza, intanto, dopo il provvedimento del Riesame che ha smontato l’accusa di associazione a delinquere, ai sindacalisti del SiCobas è stato revocato anche l’obbligo di firma. Tuttavia, la procura non ha smesso di fare pressione, notificando diciassette denunce, a cui ne sono seguite altre trentasette dopo la pubblicazione delle motivazioni del Riesame. (alessandra mincone / riccardo rosa)
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