Al gioco non vinco perché non lo faccio per soldi. Non c’è cattiveria agonistica né spirito d’imprenditoria, nelle mie scommesse c’è solo la voglia di misurare le mie conoscenze calcistiche. Punto sugli sfavoriti perché è così che mi diverto, incitando a ogni azione la squadra materasso di turno come se fosse quella a cui tengo da sempre. Le quote sono altissime, talvolta gioco la Roma sconfitta in casa: paga cinque o sei volte la posta, e la Roma ogni tanto il passo falso all’Olimpico lo fa. Il Napoli non lo gioco mai, superstizione, se proprio lo gioco scommetto sul risultato esatto, e ogni tanto lo prendo. Punto cinque euro a settimana, da circa dieci anni, cioè da quando è tramontata l’epoca del Totocalcio. L’altro giorno ho fatto un conto: cinque euro a settimana per quaranta settimane per dieci anni. Fanno duemila euro. E mi sono scoperto all’attivo, contro ogni pronostico. Ho delle bollette-tipo: cinque segni 1 di fila, di quelli quotati bene. Poi c’è la sfilza di segni under (somma totale di gol minore di tre) in serie C, quelli escono spesso. Gioco sempre il Marsiglia vincente, la Roma perdente e le partite tra squadre del sud ricche di gol.
Prima delle bollette c’era il Totocalcio, e duemila lire a settimana le giocavo. Ma era tutto un altro gioco, c’era più eleganza. Era bassa la dose d’azzardo nel Totocalcio, quel gioco richiedeva soprattutto competenza. Le bollette le giocano anche molte donne, per esempio. Donne alle prese con la compilazione della schedina, invece, non ne ho mai viste. Certo, ci vuole fortuna. Però bisogna intendersi sul significato di fortuna. Se in colonna metti il due del Lecce contro la Juve e lo prendi, chi paga o chi ti conosce non può liquidarti con un: «Che fortuna!». Dovrebbe piuttosto congratularsi per la scelta oculata, che «effettivamente il Lecce negli ultimi tempi gioca un bel calcio».
Ricordo che mio padre giocava a piazza Carlo III ogni domenica mattina, con alcuni amici. Si mettevano lentamente d’accordo e da quel tavolino pieno di tazzine e circondato dal fumo usciva una sola schedina, sette doppie e sei fisse, tutte le settimane. La sua fortuna al gioco è notevolmente aumentata con la scomparsa del Totocalcio. Adesso gioca sette favorite sparse per l’Europa e “pizzica” una volta al mese. Spesso ci troviamo con le bollette contrastanti, secondo lui è spirito di contraddizione, «tu sai quello che gioco e ti giochi l’opposto». Invece è solo una piacevole abitudine che con lui non ha nulla a che fare.
Capita di perdere una scommessa per una sola partita, nel mio caso è quasi sempre una favorita che ha fatto il proprio dovere. Allora la mandi al diavolo per un’ora, guardi e riguardi la moviola per sottolineare i torti arbitrali che la tua squadra di nullatenenti ha subito, poi ti metti l’anima in pace. Quando capita a mio padre è diverso: in quel caso si tratta di una squadra che ha cacciato la scienza proprio in quel giorno, proprio contro la squadra che lui aveva scelto fra tante favorite. E allora se è necessario si può essere blasfemi fino a sera, quando bene o male la siringa dovresti averla smaltita.
La distinzione più forte che mi viene in mente, pensando al mondo delle scommesse, è tra lo scommettitore brillante, quello che entra in sala scommesse vestito come al battesimo del nipote, e il tipo arronzone, che scende di casa alle due meno venti, in tempo per giocare, tornare a casa per il pranzo e guardare le partite. L’uomo distinto suscita spesso l’ilarità dei presenti, eppure è sempre quello che sembra saperla più lunga degli altri. Il dottor Alfredo è uno di questi. Esile, taglio a caschetto, capelli brizzolati, porta un orecchino a sinistra. Si dice in giro sia un ginecologo. Quando arrivo, alle due meno un quarto, il dottore è già lì da un’ora. Ha studiato da solo, in un angolo. Ha riempito un foglio, ma non lo consegna. Lo legge ad alta voce e controlla che l’addetto non sbagli. La sua figura ha assunto col tempo contorni leggendari. Il suo turno può durare anche un’ora, perché il dottor Alfredo gioca almeno quindici bollette, e gli importi oscillano sempre tra i venti e i cinquanta euro. La fila dietro si spazientisce, ma nessuno osa disturbarlo. Alla fine si sposta sul versante del banco lotto, e paga. Non paga mai in pubblico, secondo me prova vergogna. Raccoglie un compatto mazzetto di giocate, lo infila a fatica nel portafogli e salda. Poi va via tra sospiri di sollievo e sguardi d’ammirazione.
Lello il barbiere non era un uomo brillante. A pranzo ingoiava voracemente tre panini, poi riprendeva a tagliarmi i capelli, la sua pancia mi sfiorava delicatamente le orecchie. Eppure Lello sapeva tutto sulle scommesse. Ti istruiva sulla seconda serie olandese mentre ti accorciava le basette a suo piacimento, ti graffiava col rasoio pensando alla bolletta persa all’ultimo minuto per colpa del guardalinee. Sbagliava tutti gli accenti delle squadre straniere, volutamente, e aveva il difetto di pronuncia noto come “zeppola in bocca”. Tutto ciò non lo rendeva esattamente il barbiere più ricercato in città, in pratica ero il suo solo cliente fisso. Lo trovavo sempre intento a studiare carte e controllare il televideo. Giocava ogni giorno, su tutte le competizioni quotate. A volte puntava anche sul Grande fratello, che seguiva tenacemente. Lello il barbiere ora è solo Lello, nel senso che la bottega ora la gestisce un altro, e qualcuno nel rione dice che ha dovuto chiudere per il vizio del gioco.
La Campania è la prima regione in Italia per scommesse sportive, con un ricavo totale annuo di circa seicento milioni di euro; duecento milioni dietro, al secondo posto, c’è il Lazio. Negli ultimi anni sono aumentati gli scommettitori; se prima il Totocalcio veniva reputato troppo difficile dai tanti non appassionati, la bolletta può definirsi un vizio ben più trasversale. Un maggior volume di gioco coincide spesso con un più elevato tasso d’azzardo. L’ultima trovata sono le partite virtuali. In alcuni centri scommesse di nuova concezione si proiettano partite computerizzate della durata di sessanta secondi. In molti si radunano all’interno del centro, hanno a disposizione due minuti per decidere cosa giocare, non potendo peraltro contare su alcun dato reale (i nomi delle squadre sono quasi uguali a quelli reali, per indurre il giocatore a pensare che il Napoli Town sia favorito sul Frosinone City) e su nessuna competenza. È puro azzardo. Il pareggio rappresenta sempre una quota molto appetibile. Un ragazzo ha così cominciato a giocare al raddoppio: ha giocato cinque euro sul pareggio, li ha persi, ne ha giocati dieci, li ha persi, ne ha giocati venti. Nel giro di un quarto d’ora è arrivato a giocarsi quattrocento euro sul pareggio, e li ha persi. Gli amici l’hanno portato via. E proprio allora è uscito il segno X. (davide schiavon)
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