Seguire la corrente: è stato questo il filo conduttore della socialdemocrazia nel XX secolo. Ma ora bisogna nuotare più in fretta della corrente per non annegare. Un esercizio estenuante, e François Hollande, dopo cinque anni di quel regime infernale, deve riconoscere nella primavera del 2016 il discredito che ormai colpisce il partito socialista, persino all’interno dei suoi ranghi. Mai un partito al potere ha concentrato a tal punto su di sé la rabbia sociale – c’è una sede del partito socialista che non sia stata saccheggiata durante il movimento contro la loi travail?
Dal suo canto Emmanuel Macron, ex banchiere che ha dato prova di sé come ministro dell’economia nell’ultimo governo con diverse misure “all’americana”, dichiara che tutto sommato non era socialista. Ad agosto quindi si dimette per prepararsi al destino che gli hanno architettato i suoi padrini. A novembre proclama la sua candidatura. Quindici giorni dopo Hollande annuncia di gettare la spugna – è la prima volta che un presidente uscente non si ripresenta alle elezioni, ma ciò non vuol dire che sia fuori dai giochi. Hollande ha scelto di accordarsi all’opzione Macron, spinto in avanti da diversi think tank manageriali.
Hollande contribuisce in seguito al fallimento di Manuel Valls alle primarie del partito socialista, in favore di Benoit Hamon, meno noto e meno appariscente. Valls è stato per Hollande un buon ministro dell’interno, poi un primo ministro efficace, ma ciò non fa di lui un candidato alle presidenziali. Valls utilizza una retorica giacobina, è uno psicorigido repubblicano di servizio, in quanto tale ha un ruolo da svolgere ma non il ruolo principale. Col tempo si era accordato a Macron, e ora attende nell’ombra.
Valls almeno non dovrà assumersi la responsabilità di questa sconfitta del partito, che Hollande assume senza vergogna. D’altronde gli esponenti del partito socialista si allineano uno dopo l’altro a Macron, e solo Hamon sembra ignorare che la sua funzione non è altro che quella di bloccare Mélenchon. Infatti il 6% che raccoglierà, aggiunto al 19% di Mélenchon, avrebbe permesso a quest’ultimo di ritrovarsi al posto di Macron al secondo turno… Ma la Francia non è la Grecia e il capitalismo non ha bisogno di un clone di Tsipras per limitare i danni. Non ancora.
Mélenchon tuttavia occupa una posizione chiave nello spettacolo elettorale. Questo apparatĉik ha anticipato il crollo del partito socialista, che ha lasciato nel 2008 per fondare la sua boutique. Il suo bonapartismo giacobino e sciovinista seduce un elettorato che una volta votava il partito comunista francese, e persino elettori del Front National. Le sue dichiarazioni ostili ai lavoratori stranieri s’inscrivono pienamente nella tradizione del socialismo francese, da Jules Guesdes a Guy Mollet. Keynesiano risoluto, Mélenchon vuole ripristinare la regolazione statale e nazionale del capitalismo, laddove Macron propone il contrario. In tal modo sembra andare controcorrente, al punto da farlo apparire utile per i conflitti sociali a venire, con i suoi quadri militanti capaci di cavalcare la protesta per neutralizzarla meglio, secondo i precedenti greci e spagnoli.
A destra, Sarkozy è stato spazzato via alle primarie di fine di novembre 2016 in favore di Fillon, che era stato il suo primo ministro. Ma delle rivelazioni sapientemente distillate nei mezzi di comunicazione su alcuni scandali passati faranno perdere dei voti al candidato dei repubblicani. E anche se Fillon riuscirà a catturare il 20% dei voti, il suo partito ha lo stesso perso la mano.
Le Pen d’altro canto mantiene un elettorato stabile e continua a svolgere il ruolo di spaventapasseri che le spetta da trent’anni a questa parte. Nonostante il punteggio del primo turno, il Front National non è destinato a governare il paese. È stato promosso, ma per rimanere al suo posto, decisivo ma decentrato. Il Front National in realtà non ha alcun bisogno di esercitare la carica maggiore, in quanto detiene già da questa singolare posizione un potere che molti partiti non hanno mai avuto. A dimostrazione di ciò, la polizia e la gendarmeria gli sono fedeli senza mai aver nemmeno tenuto il ministero degli interni (molti sondaggi attendibili rivelano che più del 50% tra poliziotti e gendarmi votano FN).
Macron, con il suo stile apolitico, suona la campana a morte dei due dispositivi che si usano da decenni per governare. In un’epoca in cui la destra come la sinistra devono assumere la stessa politica economica i partiti tendono a diventare superflui. La borghesia affarista ha chiaramente scelto il suo campo, quello di un giovane uomo che viene dai salotti buoni, che non ha mai tenuto una carica elettiva e che non si identifica con un partito. Con Macron gli industriali e i finanzieri francesi parleranno la stessa lingua, le leggi che ha fatto passare come ministro lo dimostrano chiaramente. Macron punta all’essenziale: totale liberalismo in un paese finalmente sbarazzato di quelle protezioni sociali scomode e dei suoi galantuomini panciuti. La vecchia politica politicante dei partiti lascia il posto a un governo di manager senza scrupoli, che amplificano ciò che Sarkozy e Hollande avevano appena abbozzato. Il discorso di Macron candidato non è altro che un passo di telemarketing che annuncia una parusia liberale: «La disoccupazione di massa in Francia c’è perché i lavoratori sono troppo protetti».
Le elezioni evidentemente non sono altro che una operazione periodica di ridistribuzione delle carte nella sfera del potere politico: la massa degli elettori-spettatori è invitata a ratificare l’ordine esistente scegliendo una carta in mezzo al mazzo. Macron è stato la carta più attraente perché il suo personaggio incarna l’immagine del successo sociale, quella del dinamico imprenditore senza pregiudizi, preoccupato della pura efficienza e in procinto di dire a ciascuno: «Tu fai un lavoro sottopagato di merda, ma se ti aggrappi un giorno puoi diventare il boss dell’impresa». Mentre Le Pen, Mélenchon e Fillon vogliono incarnare i valori nazionali, Macron incarna semplicemente il valore, il dominio globale del valore di scambio che si sovrappone alle barriere nazionali. Difatti il movimento di Macron, En Marche!, s’identifica piuttosto con una startup di successo, con i suoi centocinquanta dipendenti, che a un partito. Ed è stato a Las Vegas che Macron ha potuto esprimere la sua professione di fede nel 2016: «Abbiamo bisogno di giovani francesi che vogliono diventare miliardari».
Ma un prodotto di marketing non illude mai a tempo indeterminato. En marche! avrà difficoltà a ottenere una maggioranza legislativa e il presidente dovrà governare sulla base dell’articolo 49 comma 3 della Costituzione, di ordinanze e di procedure accelerate per realizzare il suo programma. Il “progetto” di trasformare il paese in un aggregato di singoli atomi precari e obbedienti, imprenditori di se stessi, farà i conti con le resistenze non appena inizierà a demolire le ultime protezioni sociali ancora in vigore. Le cose serie, allora, potranno cominciare. (alessi dell’umbria, traduzione di andrea bottalico)