Una macchina da presa esplora un quartiere di Gaza distrutto da un’incursione israeliana. Il cielo grigio s’addensa sopra una campagna urbana: dalle macerie di abitazioni bombardate emerge la sagoma di un albero abbattuto. È il 2009 e l’offensiva israeliana ha sparso il sangue civile della famiglia Samouni. I sopravvissuti scavano fra i crolli, i figli ritrovano le tracce lasciate dai padri morti, i funzionari di partito (di Hamas, di Fatah) s’aggirano in cerca di martiri e telecamere. La macchina da presa ritorna nel quartiere un anno dopo: le ferite di Amal si sono rimarginate, ma lei dice di non sapere come si racconta. Dove prima c’era il sicomoro, ora s’apre uno spazio arido di sabbia; intorno i segni dell’attacco sembrano svaniti. La madre di Amal ha perso il marito e un figlio, uccisi a freddo dalla raffica dei soldati, e ora cuoce il pane in una dimora di mattoni nudi; i fratelli sfogliano quaderni di scuola. Poi appaiono immagini animate, graffi bianchi su uno sfondo nero carbone: rievocano gli ulivi nella stagione felice della raccolta, gli insegnamenti del padre, un accordo di matrimonio fra due capifamiglia, l’attacco militare, la strage sotto le bombe. Ho visto anche immagini dall’alto: l’occhio del drone inquadra il villaggio, il mirino sta al centro e segue le scie di calore dei civili che fuggono nella notte.
La strada dei Samouni è un montaggio di quattro materiali differenti: i disegni animati di eventi lontani, la simulazione d’un drone che osserva, le immagini d’un quartiere disastrato, le sequenze girate l’anno dopo l’incursione. Il tempo della narrazione non è lineare, ma discontinuo s’aggrega a strati. Ogni livello ha la densità d’un lungo tempo d’elaborazione: le riprese hanno riposato nove anni, ogni secondo di animazione conserva otto tavole disegnate a mano, lo sguardo aereo deriva da un’attenta ricostruzione tridimensionale del villaggio. Il film è di Stefano Savona. I disegni sono di Simone Massi; di lui vidi il corto Dell’uccidere il maiale: il ricordo è vivido e fresco perché solo l’esito del lento lavorio s’incide nella memoria. Anche La strada dei Samouni mi sembra un film destinato a durare, perché arriva così tardi da essere attuale in ogni tempo: la storia di una comunità di contadini massacrata dai soldati al servizio del potere di turno.
Ogni materiale visivo genera un mondo e ogni mondo non comunica con gli altri: questo mi sembra il segreto del film. Non vi è identità fra il quartiere prima dell’attacco, il quartiere di macerie e il quartiere della ricostruzione. Anche il punto di vista intimo delle animazioni, lo sguardo dell’esploratore con la macchina da presa e la fredda visione aerea sono prospettive diverse e alternative. Le stratificazioni non si dispongono una sopra l’altra ed è impossibile la mescolanza di terra e frantumi; i livelli piuttosto s’incatenano attorno a uno spazio oscuro: il buio della paura e del dolore, il vuoto lasciato dal sicomoro. Il film genera dei mondi discontinui che costeggiano, sino a circondarla, la notte senza immagini del terrore e della violenza.
Quest’ultima idea mi viene dai disegni sulla sabbia. I protagonisti disegnano a terra per raccontare: appaiono tratti destinati a sparire, figure effimere presto sostituite da altre – come al cinema. Amal traccia segni con le dita nella terra, disegna con pastelli su tavole, ma è lei stessa a cancellare subito dopo. La cancellazione allora è l’altro versante del disegno: tracciati e cancellature s’incatenano in successione senza che vi sia inizio o fine. Per questo ogni mondo – di riprese o di animazioni – continua il precedente cancellandolo: insieme formano una corona di figure che tentano di tradurre il buio nero al loro centro: il trauma. (francesco migliaccio)