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28 Giugno 2017

Il laboratorio irregolare di Biasiucci. Una collettiva di fotografia ai Vergini

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(foto di ciro battiloro)
(foto di ciro battiloro)

La cinquecentesca chiesa di Santa Maria della Misericordia, detta della Misericordiella, si incontra all’inizio dei Vergini, sulla sinistra, venendo da piazza Cavour. Qui l’artista Cristian Leperino – insieme a gruppo di giovani volontari, tra cui gli storici dell’arte Maria Corbi e Massimo Tartaglione – ha scelto da alcuni anni di riportare alla luce, attraverso un faticoso lavoro di restauro, la magia di un luogo di cui si stava definitivamente cancellando la memoria.

In questo spazio, dove di recente è nato SMMAVE (Centro per l’Arte Contemporanea aperto al quartiere e ad artisti di diverso orientamento estetico), Antonio Biasiucci ha presentato (fino al 10 luglio) – nell’ambito della decima edizione del Napoli Teatro Festival Italia – Epifanie 02, il “laboratorio irregolare” tenuto nel corso di due anni con otto giovani allievi fotografi.

I luoghi scelti dall’artista di Dragoni per le sue mostre-installazioni come per i laboratori, non sono mai casuali; in genere hanno sempre un legame con la memoria della comunità che li abita e con la sua idea di vivere l’arte come ascolto, come apertura al mondo e necessità interiore. Nello scritto che accompagna l’esposizione, egli ricorda come questo modo di accostarsi alla ricerca visiva sia stato il lascito fondamentale del suo maestro Antonio Neiwiller, tra i più sensibili sperimentatori del teatro italiano degli anni Ottanta-Novanta: “I suoi metodi – scrive – puntavano dritto all’essenza delle azioni. La prima volta li applicai a una stalla in cui vi erano poche mucche. Mi accorsi che lo stesso soggetto, fotografato e rifotografato per un lasso di tempo notevole, produceva immagini sempre più scarne ed essenziali, permettendomi di avviare un dialogo-confronto col soggetto, che si esauriva quando il mistero di quel gesto ossessivo cominciava a svelarsi”.

Insieme all’autonomia della ricerca, la prima cosa che colpisce nei lavori dei suoi allievi è la volontà di considerare l’esperienza visiva come momento essenziale della comunicazione intersoggettiva inscindibile dal proprio vissuto, “una filosofia – scrive Giovanni Fiorentini nell’introduzione al catalogo della mostra (edito da Peliti Associati) – che prima di tutto insiste su se stessi, si alimenta di una relazione fiduciaria, si nutre a via Tribunali”.

Pasquale Autiero, Ciro Battiloro, Valentina De Rosa, Maurizio Esposito, Ivana Fabbrocino, Vincenzo Pagliuca, Valerio Polici, Vincenzo Russo, nella penombra della Misericordiella, espongono i loro album fotografici illuminati dall’alto su un tavolo di quindici metri. Osservando i visitatori sfogliare i portfolio e commentare sottovoce, sin nei dettagli, le singole opere, viene subito da pensare che questa modalità espositiva – sperimentata dal fotografo casertano già nel 2014, a Castel dell’Ovo – trasforma lo spazio in un’area performativa che stimola la partecipazione diretta del fruitore, il quale non solo contribuisce a rifunzionalizzare lo spazio, ma in qualche modo favorisce il riprodursi della esperienza di ascolto e di confronto reciproco instauratasi nel laboratorio.

Uno dei primi album che sfogliamo riguarda il lavoro di Valentina De Rosa. Ed è una sorpresa, soprattutto per la maturità espressiva della fotografa, che documenta la vita in un centro – Villa Monteturli, a Firenze – che ospita persone con gravi problemi psichici. Le immagini dai colori vivaci mostrano i degenti nella loro quotidianità, e con tenerezza raccontano la solitudine e l’umanità di uomini e di donne chiusi nell’impenetrabile innocenza di un mondo che sfugge al nostro sguardo.

La fotografia di Ivana Fabbrocini è interessata invece alle potenzialità espressive del corpo femminile; una ricerca che, a tratti, ricorda certe figure di Francis Bacon in cui il corpo umano nel tempo tende ad assumere sembianze non dissimili da quelle animali.

L’attenzione al corpo contraddistingue anche la ricerca di altri giovani fotografi; in particolare Vincenzo Russo, che lo indaga attraverso la statuaria classica con accenti onirici e surreali; Valerio Polici che, tra luci e ombre caravaggesche, cerca nei volti non tanto la somiglianza, l’esteriorità dei soggetti, quanto la possibilità di svelare la parte più segreta della loro dimensione umana. Pur non allontanandosi dall’investigazione del corpi, diverso appare il discorso di Pasquale Autiero, che inserisce figure spaesate sull’impercettibile linea di confine tra sacro e profano, e di Ciro Battiloro, che in un pasoliniano e incisivo reportage sul rione Sanità illumina la condizione di esclusione di una umanità sofferente e marginale.

Altri allievi s’ispirano invece al paesaggio. Maurizio Esposito prende spunto da una nota poesia di Montale Forse un mattino andando, immaginando diversi personaggi – colti di spalle in metafisici spazi dolomitici – che proiettano “sullo schermo una sorta di teatro della memoria, elegiaco e delicatissimo” (Giovanni Fiorentino); paesaggi interiori sono anche quelli di Vincenzo Pagliuca, che ha percorso in lungo e in largo gli appennini meridionali colpito da case contadine abbandonate e immerse nel silenzio; le immagini – tra gli ocra, gli azzurri e il verde dei prati e dei monti – evocano tutto “un mondo di vinti “ che, sopraffatto dalla civiltà industriale,  ha lasciato da tempo le colline per cercare altrove un’altra vita; ma l’elementarità delle forme con cui il fotografo fa rivivere queste lievi tracce del nostro passato, ricorda quei nudi casolari di campagna dipinti con dolente nostalgia da Giorgio Morandi.

Al di là dei pur apprezzabili lavori di questa nuova leva di fotografi, ciò che sembra rilevante di questa mostra e della stessa esperienza associativa della Misericordiella, è il suo significato più generale: la convinzione che insieme, e attraverso l’arte, si possa ricostruire un sentimento del nostro tempo che dal basso provi a contrastare esclusione e deriva sociale. (antonio grieco)

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