è quando i poveri sanno restare al loro posto,
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Nella città di provincia in cui sono nato e cresciuto prima di andare via, in tanti della mia generazione hanno coltivato la passione per il rap. Il rap ha rappresentato per la mia adolescenza, in un luogo privo di riferimenti, ciò che qualcuno ha definito “la didascalia del reale”. In pratica mi ha aiutato a collocare i primi dubbi, è stato capace di raccontarmi ciò che mi circondava, ciò che circondava altri luoghi più distanti. In qualche modo esprimeva un malessere identificabile, dava un nome alle cose, un significato a stati d’animo condivisi (la rabbia e la ribellione principalmente, ma non solo). Può sembrare stucchevole, ma soltanto ora posso dire che un certo rap è stato per me una prima, rudimentale fonte di conoscenza, il primo approccio alla passione per la scrittura e la lettura – e la traduzione –, un primordiale avvicinamento al loro esercizio. La “lettura” del rap mi ha dato la possibilità di avvicinarmi alla parola scritta e dalle rime ho tratto una certa ispirazione che quasi nessuno, a scuola o per strada, mi forniva quando avevo quindici, sedici, diciassette anni. Almeno non in quel modo così efficace e diretto.
Questi pensieri mi assillavano qualche sera fa mentre ero ad ascoltare una battle di strofe organizzata in un locale a Napoli, in cui degli adolescenti si fronteggiavano a suon di rime, con la differenza che bisognava avere delle strofe già pronte poiché era vietato il freestyle, vale a dire l’improvvisazione. Al contrario, una battaglia come quella imponeva una preparazione preliminare, perché le strofe dovevi averle elaborate in un altro momento, migliorate e provate fino a impararle a memoria in virtù di un ritmo che avrebbe prodotto ciò che in genere si definisce flow. La giuria – composta da esponenti della vecchia scuola – avrebbe giudicato il contenuto, la metrica e la reazione del pubblico a quelle strofe, e man mano ne sarebbe rimasto solo uno. Proprio mentre ascoltavo le strofe degli adolescenti ho realizzato che la mia passione per la scrittura deriva da lì, che dall’ascolto del rap ho raccolto le prime immagini messe a fuoco della realtà, quel piacere che provi quando senti una sequenza di parole corrette perché aderenti a un pensiero limpido. Un po’ come il groove. “Mr. Brown, che cos’è di preciso il groove?”, chiede una giornalista bianca a James Brown in una scena del film Get on up. “Il groove è un’emozione”, risponde lui mentre batte il petto del figlio al suo fianco. “Il groove è solido. Non si sposta. È il cuore che batte, e muove ogni cosa dentro di te. Forte. Fortissimo”. “Potrebbe spiegarlo con precisione?”, insiste la giornalista. “L’ho appena fatto”, ribatte lui quasi stizzito. “Ci sono emozioni che non vivono nelle pagine di una rivista, ma che tutti proviamo”.
Nell’ascoltare quei ragazzi avvicendarsi con le strofe a cappella o con il beat, pensavo anche che per loro una situazione del genere doveva essere un po’ come una palestra. Non voglio idealizzare o semplificare, ma mi limito a constatare una cosa piuttosto ovvia, e cioè che se intorno a te è il deserto, se sei orfano di riferimenti, una palestra del genere ha un valore importante, ti permette di socializzare un percorso, una passione che presuppone l’esercizio della scrittura e dell’ascolto, magari della lettura. Niente male nell’epoca dell’analfabetismo digitale e della distruzione del linguaggio, pensavo mentre li ascoltavo. Noi in provincia tra l’altro non abbiamo avuto quasi nulla di tutto questo, salvo rarissime eccezioni. Non è un caso poi che in quella battaglia di strofe, simile piuttosto a una gara di Slam, gli organizzatori fossero anche gli stessi impegnati in un progetto di attivazione nella periferia occidentale di Napoli, con un laboratorio di Hip Hop per avvicinare gli adolescenti a questa disciplina. Basterà tutto ciò a favorire un percorso di emancipazione da una condizione socialmente predeterminata almeno in apparenza? Forse no, ma poco importa. Testi simili a una sequenza di fotogrammi, dettati da una certa urgenza, ancora acerbi ma più o meno dotati di senso e di una potenza narrativa che arriva laddove molti pennivendoli spesso falliscono, erano stati scritti da quei ragazzi per poi essere recitati a ritmo quella sera, davanti a tutti. Valeva la pena ricordarlo.
Qualche giorno dopo, mentre guardavo il documentario Napolizm Vol. 2, sono tornato a quella serata e a quei pensieri. Nel 2008 venne prodotto questo film che intendeva mostrare al pubblico chi fossero gli autori dei brani di una compilation prodotta in precedenza da un’etichetta discografica di New York, in quale contesto essi svolgevano la propria vita, e di come l’Hip Hop li avesse condizionati. L’esito finale è un’istantanea di Napoli e non solo, vista attraverso le liriche della nuova (a quel tempo) generazione di rap campano. Un viaggio nella città metropolitana, da Piscinola a San Giovanni – molto bella la parte con Emcee O’ Zì e la TCK –, dal centro storico a Torre Annunziata. A dieci anni dalla sua realizzazione, il film è finalmente disponibile e sarà proiettato in giro per l’Italia nei mesi a venire (il prossimo 21 gennaio al Cinema Modernissimo a Napoli). Realizzato da Alberto “Polo” Cretara, storico esponente de La Famiglia insieme a Sha One, è un’importante testimonianza su una scena ricca di personaggi eterogenei che hanno saputo rinnovare la tradizione musicale attualizzando lo sguardo sulla realtà: il quartiere, la strada, le vicende del quotidiano, le esperienze personali, e così via.
Per chi ascolta o legge il rap da tempo, questo film è un tuffo nel passato, un amarcord che suscita a tratti quasi un senso di tenerezza, di piacere solo nell’ascoltare certe rime, nel vedere certi volti “familiari”, appartenenti a un gruppo di affinità che nel bene e nel male ha creato un vocabolario di strofe e ha perlustrato un territorio in lungo e in largo cercando di raccontarlo. Anche se sul piano stilistico il documentario ha dei limiti oggettivi, sembra che il messaggio più urgente sia un altro. Certo, può sembrare insolito parlare di urgenza per un documentario apparso a dieci anni di distanza dalla sua realizzazione – cosa che non lo rende inattuale, anzi, il tempo trascorso lo ha fatto invecchiare come un buon liquore –, tuttavia l’urgenza sembra essere quella di mostrare in un preciso periodo storico una comunità variegata che si avvicenda nella passione per una disciplina che trae la sua linfa vitale da parole messe in rima a ritmo, associate ai suoni e alle contaminazioni musicali che nel tempo si sono evolute insieme alle parole stesse.
Cosa penseranno i rapper che appaiono in questo documentario a dieci anni di distanza dalla sua realizzazione? Saranno soddisfatti del loro percorso? Si sentiranno realizzati? Rideranno di quelle immagini col senno di poi? Saranno nostalgici di quei tempi o imbarazzati? Il piacere nel vedere Napolizm, a un certo punto, ha lasciato in me il posto al rammarico pensando alle scelte che hanno fatto alcuni di loro, all’immaginario compromesso che hanno alimentato in certi testi più recenti. Mentre guardavo il documentario di Polo ho ricordato che dopo l’adolescenza mi sono accorto anche di certi limiti del rap. Come se a una certa età, dopo aver maturato alcune esperienze, fossi rimasto insoddisfatto dai contenuti che veicolava. C’è stato un momento in cui per me il rap ha perso valore perché non era più sufficiente a fornirmi un’adeguata rappresentazione della realtà. Anche se ho continuato ad ascoltarlo in tutti questi anni, per inerzia, per curiosità, come esercizio mentale (il rap francese sopperiva solo in parte a questa insoddisfazione di fondo), da quel momento sono subentrati alcuni libri. La “lettura” del rap, in altri termini, non bastava più a raccontarmi ciò che ero curioso di conoscere.
Come sarebbe un documentario sul rap campano oggi? Magari verrebbero intervistati i vari trapper promettenti come Vale Lambo, insieme agli altri senza speranza che esprimono tutta la contraddizione di chi vive nella marginalità delle città di provincia prive di riferimenti, di scuole, di palestre.
In chiusura di serata mi ha detto uno dei giudici della battle che negli album degli NWA, Ice Cube e via dicendo, erano segnate due traiettorie: una portava dritti ai riot di Los Angeles del ’92 (quantomeno a crearne il clima), l’altra nelle braccia di un mercato che da un lato ti espande e propaga in ogni direzione, ma che allo stesso tempo ti fa scordare l’epicentro di ogni questione.
È evidente che ha prevalso la seconda strada. Forse l’unico modo per non lasciarsi depotenziare è fare ricerca perenne, tenendo radici ben piantate senza dimenticare di espandersi, verso la luce. Se solo i rapper nostrani dedicassero del tempo alla lettura oltre che alla scrittura, magari, chissà… (andrea bottalico)
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