Il primo foglio dell’Enciclopedia australe di Jean Celan è sgualcito ai lati e liso in diversi punti, eppure riusciamo ancora a leggere: “Le voci della mia Enciclopedia formano un cerchio e al centro si trova la Banca del Bene. Lo studio della Banca del Bene e del suo funzionamento serve a comprendere le relazioni materiali e simboliche della società australe. Quando ho domandato cosa fosse la Banca del Bene, un australe mi ha risposto: ‘Essa è il fondamento della nostra vita civile. Non ci sarebbero concerti, partiti politici, biblioteche, servizi sociali, giornali e corsi universitari senza i finanziamenti e i consigli della Banca del Bene’. Questa considerazione è al contempo origine e fine del mio lavoro di ricerca”. (Jean Celan, Enciclopedia australe, pagina prima).
All’ombra del porticato abbiamo letto spesso, a voce alta, la prefazione de l’Enciclopedia australe di Jean Celan, etnografo esiliato dalla memoria. Poche sono le testimonianze scritte, vaghe le voci di chi lo ha conosciuto. Egli lasciò l’Europa alla fine degli anni Ottanta per dedicarsi alla ricerca in una lontana città nell’emisfero australe. Tornò indietro con plichi di appunti, un’opera conclusa e un’inquietudine oscura. Abbiamo seguito per anni le tracce dei suoi vagabondaggi, infine abbiamo trovato un archivio autografo di testi a Nagyszékely, in Ungheria meridionale. Perché Jean Celan si fosse rifugiato a Nagyszékely, non sappiamo.
Nagyszékely è un piccolo villaggio circondato da una corona di colline sedimentarie, vicino alla riva occidentale del Danubio. Fino al 1945 qui vivevano, in case d’argilla, abitanti d’origine tedesca. Queste case, lunghe e strette, dotate di finestre solo da un lato, hanno porte sospese a cinquanta centimetri dal suolo. Karl, il nostro contatto locale, racconta che sono le porte dei morti, perché gli abitanti vi uscivano solo nella bara il giorno del funerale. Oggi i nuovi coloni – ungheresi, espatriati, dissidenti in fuga – abitano queste case contadine un tempo abbandonate. Alcuni hanno costruito gradini in muratura che salgono alla porta dei morti ed entrano in casa con le buste della spesa in mano. Karl preferisce aggirare la porta, non si sa mai, e accede alla cucina dal porticato che s’apre sull’orto.
Gli scritti di Jean Celan sono conservati nella cantina di Karl scavata dentro la collina. L’argilla di ogni abitazione è stata estratta con pale e picconi: il vuoto lasciato diventa piccolo magazzino per salami affumicati e patate. Anni fa Karl ripose pagine sparse di appunti e un libro in una valigetta muffita all’esterno, stipata tra scatole di cibo per cani. Un’etichetta permette ancora di leggere: “Note sul campo e opera completa del mio viaggio australe. Luglio 1991”. Il libro, per quanto ne sappiamo, è l’unica copia esistente della Enciclopedia australe di Jean Celan. Si compone di pagine stampate a macchina e rilegate da uno spago ormai rancido.
In pallide giornate d’un agosto piovoso abbiamo catalogato il diario e le note di campo di Jean Celan. Karl schiacciava le cimici dei pomodori tra i polpastrelli e diceva di Jean: «Era un illuminista disperato». Non abbiamo mai capito perché Jean fosse partito – era l’autunno del 1988 – per le terre australi. Noi questo solo sappiamo: lui è sempre fuggito.
Le note di viaggio e il libro sono il resoconto di due anni d’esplorazioni ininterrotte della città australe e suoi dintorni, sino alla fine del 1990. Troviamo nei primi mesi solo appunti, annotazioni affascinate: “Novembre 1988. In città quasi scompare l’odore dell’oceano forse soffocato dai fumi degli scarichi. Sono stato al mercato della piazza centrale dove si trovano zucche piene di bitorzoli, cavoli dalle foglie butterate, gambi bianchi di cardi. A poco prezzo gli indigeni vendono un tubero terroso e deforme che chiamano, nella loro lingua, ‘to-pi-na-bo’. Lunghe camminate senza meta” (Jean Celan, Note sul campo, foglio b6). “Anziché nutrirsi del pesce fresco dell’oceano, gli indigeni preferiscono salare sardelle e alici e mangiare dopo anni i loro corpi saporiti e putrefatti” (JC, Note…, c14). Seguono disegni, schizzi dei portici che riparano dalle frequenti piogge, schemi di vie lineari. Il 4 gennaio 1989 forse avviene la svolta: “Visita al palazzo della Banca del Bene. La Banca del Bene compone la struttura organizzativa della società urbana australe, da essa dipende l’intera vita civile. Ecco ho un piano di lavoro. Organizzare la descrizione di ogni aspetto sociale che compone questa struttura e procedere per voci enciclopediche, ovvero per analisi parziali e non per sintesi sistematiche” (JC, Note…, c18).
Voce: Restituzione. Dall’Enciclopedia australe di Jean Celan. “La Banca del Bene finanzia tutte le opere e le pratiche sociali in città e in cambio chiede ai beneficiari – associazioni, partiti e gruppi informali di cittadini – una restituzione. La restituzione va intesa come una procedura rituale che conclude un protocollo. Nelle restituzioni si manifestano in pubblico i risultati dell’opera di bene svolta grazie alle donazioni della Banca. Così gli enti che hanno ottenuto i finanziamenti mostrano foto, video amatoriali, disegni o racconti redatti su piccoli depliant: materiali che servano da testimonianza dell’opera di bene. Ogni restituzione deve iniziare con questa formula: “Abbiamo agito secondo il bene pubblico, la crescita della società e il rispetto della democrazia. Queste sono le prove della nostra opera che forniamo alla città secondo il rito della restituzione”. Un atto restituivo si conclude con il forte suono di clacson montato su un maggiolino d’epoca e la seguente affermazione solenne: “Ringraziamo il sostegno della Banca del Bene, la sua benevolenza e vi mostriamo il suo logo affinché possa durare nei secoli”. Il logo è un cuore stilizzato, composto da piccoli quadrati verdi, gialli, rosa e azzurri. I funzionari di opere di bene indossano per l’occasione jeans sgualciti e appena finisce il rituale fingono di parlare al telefono con grandi gesti eloquenti delle braccia. I cittadini che hanno partecipato alla restituzione sono invitati all’applauso”.
Siamo convinti che la redazione delle voci enciclopediche proceda insieme alle note e ai diari di campo. “3 febbraio 1989. Tutti i cittadini nella vita pubblica devono agire facendo il bene. Si tratta di un sistema teologico-politico dove non vi è distinzione tra gestione delle relazioni sociali, governo e religione. Questa religione presenta una dottrina pragmatica e immanente, priva di ogni apparente metafisica. Essa insegna a operare per il bene in pubblico. Nel linguaggio degli indigeni si dice: ‘manifestazione pubblica delle opere benevole’. Se questo è vero, posso finalmente realizzare il sogno della mia vita: uno studio sul campo di un sistema di vita integrato”. JC, Note…, d4). (Relazione a cura dell’Assembramento di Ricerca Etnografica)