Venerdì 10 giugno, ore 18
Zero81 (largo Banchi Nuovi, 10 – ex mensa dell’Orientale)
Ambiente, territori e salute. Come le politiche urbane influiscono sulla nostra salute
In occasione della presentazione del libro collettivo Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana (a cura di Luca Rossomando, Monitor edizioni, 2016)
ne discutono:
Giuseppe Cirillo (pediatra)
Dario Stefano Dell’Aquila (giornalista e scrittore)
Stefano Vecchio (direttore dipartimento dipendenze, Asl Napoli 1)
La serata darà avvio al secondo appuntamento del ciclo nazionale IL MOVIMENTO FA BENE #2. Costruire spazi e comunità in salute. Pratiche di riappropriazione e autorganizzazione collettiva. Di seguito, un estratto dell’articolo di Giuseppe Cirillo “La gestione della sanità”, tratto dalla sezione Politiche sociosanitarie, de Lo stato della città.
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La salute e la sanità a Napoli
Sprechi, inefficienza e inefficacia hanno caratterizzato la gestione della sanità a Napoli e in Campania negli ultimi anni, dalle Usl alle Asl, dai comitati di gestione alle aziende, dal potere democristiano a quello socialista, fino a quello del centrosinistra nell’ultimo decennio. Sembrava che non si potesse andare sotto un livello minimo di decenza nell’offerta dei servizi, dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo. E invece dobbiamo registrare per il quinquennio regionale del centrodestra – dietro i proclami sul rientro finanziario – i tagli lineari e il peggioramento dei servizi, sia ospedalieri che territoriali.
Ci si potrebbe chiedere se negli ultimi cinque anni a Napoli e in Campania il trend della mortalità generale e specifica sia cambiato; se il tasso di non appropriatezza dei ricoveri ospedalieri si sia modificato e come; se l’accesso alla diagnosi precoce e alla prevenzione sia cambiato; come si sia sviluppato nel tempo l’impegno di risorse verso il pubblico e verso il privato; come le risorse ridotte al sistema ospedaliero siano state spostate al sistema territoriale; quale sia la condizione dei servizi per la tossicodipendenza, la salute mentale, gli anziani, i disabili; quale la situazione dei consultori; che cosa significhi che “comunque sono assicurati i Lea (livelli essenziali di assistenza)”, in una regione che aveva buchi assistenziali già gravi prima del piano di rientro.
“Io so”, diceva Pasolini. Nonostante la sottovalutazione di cifre e dati, nonostante l’ineffabile politica del centrodestra, noi sappiamo che nel quinquennio 2010-2015 abbiamo speso di meno ma il territorio è stato di fatto abbandonato; che l’accesso ai servizi, anche quelli preventivi e di diagnosi precoce, è diventato più difficile, soprattutto per le fasce più deboli; che la chiusura di reparti, la riduzione dei posti letto ospedalieri non sono stati accompagnati da una crescita della continuità ospedale-territorio, dei servizi ambulatoriali e domiciliari; che le disuguaglianze sociali nella salute sono aumentate; che la riduzione delle risorse è stata disuguale tra pubblico e privato, garantendo ai grandi gruppi di interesse gli introiti di sempre, e anche più grandi, indipendentemente dall’appropriatezza degli esami diagnostici, delle risonanze magnetiche, ecc.; che i Lea non erano assicurati prima e lo sono ancor meno oggi.
Allora potremmo dire che dietro il fumo della razionalizzazione e del pareggio di bilancio ci sia stato un abbandono del pubblico, una privatizzazione strisciante, un progressivo impoverimento dei servizi alle fasce deboli, una miope e semplicistica riduzione delle risorse per la sanità pubblica.
L’integrazione socio-sanitaria
Il paradosso della Campania poi è che da oltre quindici anni gli enunciati delle leggi regionali e delle diverse linee guida sono andati spesso nella giusta direzione, ma non sono mai stati realizzati. Se leggiamo, per esempio, i provvedimenti di rientro del commissario regionale (dal 2010 al 2012) in risposta alle prescrizioni governative, tutti parlano di centralità del territorio, integrazione tra sanitario e sociale, continuità ospedale-territorio, ma la politica reale si è invece concretizzata in tagli ragionieristici, reiterazione dell’ospedale-centrismo, burocratizzazione nella gestione, tasse regionali subentranti, atti aziendali incoerenti per non dire approssimativi, dietro cui si sono mossi interessi privatistici, con l’obiettivo anche di svuotare il servizio pubblico di energie e risorse.
È necessario allora ricordare che l’Integrazione socio-sanitaria (Iss) nasce istituzionalmente alla fine degli anni Novanta con le leggi 229/99 e 328/00 (in tal senso e per la loro portata innovativa si potrebbero definire leggi epocali) a cui seguono vari decreti, in riferimento soprattutto ai Lea e alle prestazioni compartecipate. La Campania applica le indicazioni legislative con proprie linee guida del 2003 e, fino al 2006, si registra un grande fermento congiunto delle Asl e dei comuni per raggiungere gli obiettivi integrati di Iss.
Non è un caso che si parli dell’Iss. Il fallimento dell’integrazione socio-sanitaria, infatti, è emblematico delle politiche sanitarie dell’ultimo decennio a Napoli e in Campania. L’Iss nasce dal presupposto che la salute è il risultato di determinanti sociali, ambientali e biologici e che solo servizi e politiche integrati possano dare risposte appropriate ai bisogni di salute dei cittadini. Questo obiettivo non si raggiunge se prima non è stata realizzata un’innovazione del modello organizzativo all’interno dei due settori, sanitario e sociale. Questo non è successo in Campania, mentre in regioni come Toscana, Umbria, Veneto, Friuli e altre, i bilanci si sono stabilizzati e i servizi sono diventati più efficienti, efficaci, appropriati.
Dal 2006 l’integrazione a Napoli e in Campania è stata ridotta a una mera questione economica, a un’impropria disputa per la compartecipazione della spesa, che è partita dai due assessorati regionali e si è estesa fino ai livelli gestionali di Asl e comuni corrispondenti, soprattutto a Napoli, con contenziosi che hanno mortificato e in molti casi fatto regredire le importanti esperienze di integrazione raggiunte dagli operatori sanitari, sociali e del terzo settore.
Disavanzo e commissari
È ormai acclarato che il disavanzo in materia sanitaria non è solo conseguenza di un’eccedenza di posti letto, di un’anacronistica organizzazione della rete ospedaliera o dello sforamento della spesa specialistica, diagnostica, farmacologica, come conseguenza della mancanza di tetti di spesa e controlli, o di un eccesso di prescrizione dovuta a un delirio consumistico dell’utenza.
Il disavanzo è la conseguenza di un mancato investimento negli ultimi venti anni sulla centralità del distretto sanitario nelle sue funzioni di governo della salute, sul potenziamento dei servizi territoriali (si veda, per esempio, la mancanza quasi totale di centri pubblici di riabilitazione e la mera funzione di autorizzazione al privato svolta dalle unità operative distrettuali), sul coinvolgimento reale dei medici e dei pediatri di base, sulla continuità terapeutica tra ospedale e territorio (importante argine ai ricoveri impropri).
È necessario aggiungere alcune brevi considerazioni sulla Asl Na 1. Dal 2009 al 2012 si sono succeduti ben quattro commissari straordinari, caratterizzati per ruolo dalla impossibilità di una programmazione strategica proiettata sui cinque anni, ma capaci di determinare un progressivo smantellamento del nascente servizio di assistenza domiciliare integrato, di ogni forma di autonomia dei distretti, dell’organizzazione dei servizi di salute mentale (riportata all’epoca pre-Basaglia), della funzione strategica di coordinamento dell’integrazione socio-sanitaria.
L’altro grande artefice dell’integrazione socio-sanitaria, il comune di Napoli, con una situazione economica a dir poco disastrosa e con i tagli alle politiche sociali del governo centrale, ha contribuito al collasso del sistema. Le comunità per minori hanno iniziato a chiudere, le cooperative sono fallite, si è impoverita l’offerta di servizi per i disabili, per gli anziani, per gli immigrati; molti operatori hanno perso il lavoro ed è mancata una visione strategica per impedire la completa desertificazione dell’azione sociale.
Il Profilo di comunità
Il sud e il nord d’Italia sono sempre più disuguali nella gestione dei servizi sanitari ma anche nel livello socio-economico, negli stili di vita e nelle malattie. Il fatto che le cure sanitarie assicurate dal Servizio sanitario nazionale siano teoricamente per tutti i gruppi di popolazione in rapporto ai loro bisogni, indipendentemente dal reddito e dalla posizione sociale, non garantisce nei fatti l’accesso ai servizi da parte di tutti (accesso geografico-culturale-economico), nonché l’efficacia di risposta e di offerta da parte del sistema socio-sanitario.
La povertà rappresenta il maggior determinante di salute; essa va intesa non solo come mancanza di risorse economiche, ma più in generale come mancanza di supporti emotivi e psicologici, protezione ambientale, istruzione, abitazioni adeguate, informazioni, ecc. L’Istat nel 2014 ha certificato una diffusione della povertà assoluta al 5,7% delle famiglie residenti, pari a 1 milione e 407 mila famiglie, con l’8,6% nel Mezzogiorno.
Nelle classi sociali disagiate è più frequente l’utilizzazione dei servizi sanitari di emergenza, l’uso di sostanze, il fumo di tabacco, l’alcol, le errate abitudini alimentari, la mancanza di esercizio fisico, i comportamenti a rischio per incidenti. Banalmente, i poveri non fanno esami per evitare di pagare il ticket, né comprano creme o colliri per i costi eccessivi. Migliorare la salute e promuoverla significa quindi agire sui determinanti socio-economici e/o sui determinanti prossimali, intervenendo sugli individui, sulle comunità, sui gruppi a rischio e sull’ambiente, e non solo sul sistema sanitario.
Se a livello individuale è necessaria un’analisi multidimensionale dei bisogni del singolo e del suo nucleo familiare, a livello territoriale e collettivo, il Profilo di comunità può essere lo strumento della programmazione integrata socio-sanitaria-educativa. Esso individua nell’analisi dei determinanti distali (socio-economici e ambientali) e di quelli prossimali (abitudini e comportamenti di vita) una base informativa indispensabile ai fini della programmazione degli interventi, sia preventivi che assistenziali. Analizza in modo approfondito, da una parte la struttura socio-demografica della popolazione e dall’altra il bisogno socio-sanitario. I dati utilizzati provengono in gran parte da banche dati esistenti, parte quindi di fonti statistiche attive e permanenti.
Il Profilo di comunità è stato realizzato a Napoli dal 2005 al 2012 con cadenza biennale, ed è stato un utile supporto alla programmazione socio-sanitaria del comune e dell’Asl Na 1, contribuendo alla consapevolezza delle problematiche delle dieci municipalità, dando voce ai più deboli e meno garantiti, attraverso una base di informazioni fruibile per tutti i cittadini. È stato interrotto nel 2012, non avendo trovato una strutturazione stabile per un gruppo di lavoro che fondava la sua esistenza sulla competenza e sull’entusiasmo di lavoratori della pubblica amministrazione. (giuseppe cirillo)
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