Lo scorso 22 luglio la III Corte d’Assise di Roma ha reso pubbliche le motivazioni della sentenza con cui Daniele De Santis, ex ultras della Roma e militante neofascista, è stato condannato a ventisei anni di reclusione per minaccia, rissa aggravata, lesioni ai danni di Gennaro Fioretti e Alfonso Esposito (a loro volta condannati a otto mesi, sempre per rissa e lesioni aggravate), e per l’omicidio di Ciro Esposito, tre tifosi del Napoli recatisi in trasferta nella capitale per seguire una partita di calcio. La sentenza fa riferimento agli eventi avvenuti a Roma il 3 maggio 2014, circa quattro ore prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina.
La storia di quella giornata ha infatti inizio ben prima dell’ingresso in campo delle squadre. La finale dell’Olimpico è una gara molto attesa da entrambe le tifoserie. Per gli uffici competenti del Viminale si tratta di una partita a rischio. A Roma sono attesi migliaia di ultras azzurri e viola, due tifoserie che non si vogliono troppo bene. Rapporto anche peggiore hanno gli ultras della Lazio e della Roma con i napoletani, e il rischio che i partenopei trovino ad attenderli i loro omologhi della capitale è concreto. C’è un precedente, però, che risale a due anni prima e lascia ottimisti. Il 20 maggio 2012 a contendersi la coppa sul prato dell’Olimpico furono Napoli e Juventus. Ultras di Roma, Lazio, Napoli e Juve, tutti nella stessa città. Un incrocio pericoloso. Quella partita, però, non fece registrare incidenti rilevanti, grazie anche a una gestione dell’ordine pubblico molto rigorosa, praticamente militare.
Sono circa le cinque del pomeriggio. Alcuni ultras del Napoli passano in corteo su viale Tor di Quinto, transitando senza problemi in direzione dello stadio Olimpico. Una volta sfilati gli ultras, da un gruppo di meno di dieci persone, radunate in una stradina parallela, si stacca un uomo corpulento e vestito di scuro, che scavalca il guardrail che separa le due corsie del viale e si scaglia verso un pullman di tifosi napoletani che procede a passo d’uomo. Ha con sé alcune bombe carta e una pistola Benelli, semiautomatica, calibro 7,65, con la matricola abrasa. L’uomo innesca una prima bomba e la lancia contro il pullman. Poi comincia a insultare a gran voce i passeggeri, sfidandoli a scendere e a raggiungerlo sul selciato.
La piccola parallela a viale Tor di Quinto, dove i complici dell’uomo vestito di nero restano in attesa, fa parte di una grossa area di ottomila metri quadrati occupata da circa vent’anni. Il 57B (dal numero civico del viale) è uno spazio destinato dal 1990 ad attività sportive; avrebbe dovuto essere utilizzato per gli allenamenti delle nazionali in arrivo a Roma in occasione dei mondiali di calcio, ma l’opera non fu mai realizzata (fatto salvo per gli spogliatoi), tanto che qualche tempo dopo il terreno venne occupato da attività commerciali e da una serie di associazioni, tra queste una squadra di calcio, l’US Boreale; un’associazione politica di estrema destra, Il Trifoglio; un canile; un centro di svago per ragazzi autistici; un centro culturale, il Ciak Village. Nell’ottobre 2012, a seguito di una rissa scoppiata all’interno del Ciak Village, i carabinieri segnalano il mancato rispetto delle norme di sicurezza e igiene nell’edificio, la mancanza di tutte le autorizzazioni e gli attacchi abusivi dell’impianto elettrico. Nel marzo 2014, dieci giorni prima della partita tra Napoli e Fiorentina, alla struttura vengono messi i sigilli.
Ciro Esposito ha trent’anni. Non sa nulla del 57B, del Ciak Village e del Trifoglio. Abita a Scampia e lavora in un autolavaggio del quartiere. Tra i suoi clienti c’è anche il commissariato di pubblica sicurezza di Scampia. Ciro è una persona nota alle forze dell’ordine, quindi, ma per motivi tutt’altro che disonorevoli. Come tanti napoletani, ha una grande passione per la squadra di calcio della città. Allo stadio ha molti amici, soprattutto in curva B, perché gravita intorno al gruppo ultras Area Nord. Ma è un volto conosciuto, il suo – come accade a chi per anni viaggia in trasferta a sostegno della propria squadra –, anche tra gli ultras della curva A.
Quel giorno Ciro parte in auto da Napoli, insieme a quattro amici, per assistere alla finale di coppa. Come da disposizioni di pubblica sicurezza, i ragazzi provano a parcheggiare in un’area preposta nei pressi di viale Tor di Quinto. Trovano però una pattuglia dei carabinieri che gli dice che il parcheggio è pieno. Le automobili in esubero vengono mandate a parcheggiare ancora più vicino alla grossa strada le cui corsie sono separate da guardrail. Tor di Quinto è un posto regolarmente presidiato dalla polizia in occasione di partite a rischio, ma non quel giorno. Una volta arrivati a destinazione, Ciro e i suoi amici parcheggiano l’auto. È una scena che hanno vissuto tante volte. Foggia, Pesaro, Sora, Gela. E poi Roma, Firenze, Milano, Torino. Ma è qualcosa a cui non ci si abitua. C’è tensione nell’aria, quella tensione che precede sempre una manifestazione sportiva importante.
Mentre Ciro e compagni percorrono viale Tor di Quinto per raggiungere lo stadio, l’uomo vestito di scuro sta attaccando il pullman dei tifosi azzurri. I passeggeri del bus provengono da Milano e non sono certo ultras, anzi. All’interno ci sono quasi ottanta persone. Famiglie, molte donne e bambini, tutti iscritti al Club Napoli Milano Partenopea, molti alla loro prima trasferta fuori città.
La differenza tra un tifoso “normale” e un appartenente a un gruppo ultras non può sfuggire. È una differenza di “stile” e cromatica, prima di tutto, dal momento che, per scelta, gli ultras delle curve non indossano – al contrario di tanti altri tifosi – magliette dei calciatori e indumenti con il simbolo della società. Vestono, per la maggior parte, nel cosiddetto stile “casual”, lanciato dai tifosi inglesi negli anni caldi del fenomeno hooligan per non essere riconoscibili dai supporter avversari e dalle forze dell’ordine. Cappellino con visiera o alla pescatore; t-shirt, polo o felpa con cappuccio; jeans o pantaloni corti al ginocchio; scarpe da ginnastica. Tutto con colori scuri o militari. Nel pullman proveniente da Milano, si vede bene anche da fuori, ultras non ce ne sono. Le sciarpe e le magliette del Napoli abbondano, ci sono bandiere e cappellini azzurri, c’è un’atmosfera rilassata e familiare, come sempre accade quando club di tifosi che sostengono la squadra si muovono dalle città del nord per andare a guardare una partita del Napoli.
Nonostante questo, l’assalto al pullman non si ferma. I passeggeri sono spaventati, ci sono urla di panico. Il fumo comincia a invadere il mezzo, ma l’autista ha la consegna precisa di non aprire le porte, per motivi di ordine pubblico. Dopo che l’uomo ha scagliato la seconda bomba carta, i napoletani che si trovano dall’altro lato della carreggiata scavalcano il guardrail e si lanciano contro di lui. A questo punto, l’uomo si volta e comincia una goffa ritirata in direzione del vialetto in cui sono in attesa i suoi complici.
I napoletani – tra questi ci sono Ciro Esposito e i suoi amici – rincorrono l’uomo grasso e vestito di scuro. Si sentono urla, questa volta di rabbia, provenienti dalle persone che corrono in strada. Poi il fuggitivo inciampa e viene raggiunto. Fa in tempo a rialzarsi e a estrarre la pistola. Secondo la ricostruzione dei magistrati, quando comincia a sparare, ha davanti a sé un piccolo gruppo di tre o quattro persone. Il più vicino è Ciro Esposito, distante appena cinquanta centimetri. Dietro di lui, alcuni degli inseguitori brandiscono aste di bandiera o bastoni. Due dei proiettili partiti dalla Benelli colpiscono Ciro: il primo al lato destro del torace, dopo che il ragazzo ha cercato di voltarsi per evitare il colpo; l’altro, di striscio, alla mano sinistra. Un altro proiettile ferisce al dito della mano destra Alfonso Esposito; il quarto, invece, causa due ferite a Gennaro Fioretti: la prima al polso sinistro e la seconda al braccio destro, in seguito alla deviazione subita dal colpo. Solo per caso un quinto proiettile resta inesploso: lo sparatore, infatti, ha portato indietro il carrello della pistola mentre aveva un colpo già in canna, e per questo lo stesso è stato espulso senza far fuoco. Secondo alcune testimonianze l’uomo avrebbe provato a premere ancora il grilletto, prima di rendersi conto di avere esaurito le munizioni.
Dopo gli spari, l’uomo finisce di nuovo a terra, colpito dai napoletani. Per qualche minuto tifosi azzurri entrano ed escono dal 57B, sfogando la loro rabbia sul corpo della persona che ha appena fatto fuoco e uscendo per verificare di tanto in tanto l’eventuale arrivo della polizia. Quando arrivano nel 57B, in realtà, i napoletani trovano ad aspettarli – una decina di metri distanti – altre persone: sono i cinque o sei complici dell’uomo delle bombe, appostati in attesa del loro arrivo. Il gruppetto prova ad aggredire i tifosi azzurri lanciandogli petardi, pietre e bulloni, salvo poi accorgersi dell’arrivo di molti altri napoletani e allontanarsi di corsa, scappando verso la vallata alle spalle dell’area. Pur sotto le botte, intanto, l’uomo continua a ripetere: «Picchiate merde! Picchiate più forte non mi fate niente!». Dai risultati dei prelievi effettuatigli quel giorno, nel suo sangue emergeranno quantità di cocaina molto alte.
Gli ultras del Napoli che avevano sfilato in corteo lungo viale Tor di Quinto, intanto sono tornati indietro, avendo compreso che alle loro spalle sta succedendo qualcosa. Gli scontri si fanno più duri, coinvolgono anche le forze dell’ordine che, nel frattempo, hanno raggiunto la zona. Nonostante il caos, qualcuno si accorge che a terra c’è un ragazzo ferito da un colpo di pistola. Mentre un gruppetto di ultras resta accanto al giovane, cercando di praticargli un massaggio cardiaco, un altro paio di persone si avvicinano ai carabinieri, con le mani in alto, per comunicargli la gravità della situazione. C’è confusione totale. Qualcuno chiama un’ambulanza, qualcun altro cerca di rianimare il ragazzo. Quel ragazzo è Ciro Esposito.
Mentre gli ultras tentano di soccorrere Ciro, in realtà, secondo alcune testimonianze, un’ambulanza è già arrivata. Ha caricato però non il napoletano sparato, ma l’uomo con la pistola, che nel frattempo aveva riparato all’interno del Ciak Village. L’ambulanza lo trasporta all’ospedale Gemelli, dove rimarrà per qualche ora. La sua ambulanza, Ciro dovrà invece attenderla per circa trenta minuti.
Nel corso del pomeriggio le notizie dello sparo si diffondono in maniera incontrollata. Internet, televisioni, radio: tutti parlano di quanto è successo, con toni gravi ma senza avere informazioni precise. Qualcuno tra i giornalisti ipotizza – non si capisce su quali basi – un regolamento di conti tra criminali napoletani. Altri parlano di una rapina finita male, qualcuno persino di un attentato. Passa il tempo e la linea che si impone è quella di uno scontro tra ultras degenerato in una pistolettata. Del tentativo incendiario ai danni di un pullman pieno di famiglie di napoletani provenienti da Milano, nessuno parla. Del fatto che il blitz dell’uomo con le bombe carta sia avvenuto scientemente dopo (quindi evitandolo) il passaggio degli ultras napoletani, nessuno parla. Del fatto che la dinamica stessa dei fatti escluda la possibilità di uno scontro tra due fazioni di tifosi organizzati, nessuno parla. Del fatto che Ciro Esposito, pur frequentando la curva, non fosse un ultras, nessuno parla. Le condanne per il mondo del tifo organizzato, al contrario, sono immediate e unanimi, e si fanno ancora più dure quando, arrivati all’ora stabilita per l’inizio della partita, le squadre non sono ancora in campo: le telecamere della Rai inquadrano quella che passerà alla storia di questa vicenda come “la trattativa”.
La trattativa, o presunta tale, avviene tra uno dei leader degli ultras napoletani, Gennaro De Tommaso, del gruppo Mastiffs, e alcuni funzionari della Digos, sotto la curva dell’Olimpico in cui sono sistemati i tifosi azzurri. Come da prassi in questi casi, che si parli di stadio o di manifestazioni politiche, gli uomini della polizia individuano un referente con cui parlare e studiano le modalità più adatte per gestire la situazione. De Tommaso, tra l’altro, è uno degli ultras che ha soccorso Ciro Esposito dopo lo sparo, insieme ad altri componenti del gruppo dei Mastiffs. È lì quando l’ambulanza carica il corpo del ragazzo e ha sentito dire al personale medico di bordo che il giovane salito sul mezzo è in arresto cardiaco. Quando i Mastiffs entrano all’Olimpico, stando alle informazioni in loro possesso – peraltro le più attendibili fino a quel momento, in quanto frutto di testimonianze oculari –, un ragazzo napoletano è stato ucciso a colpi di pistola. Una volta dentro lo stadio, stando così le cose, gli ultras di Napoli e Fiorentina chiedono di non giocare la partita, cosa che però comporterebbe una situazione di ordine pubblico molto difficile da gestire. I funzionari della Digos allora vanno sotto le curve a parlare con i tifosi, garantendo che il ragazzo napoletano non è morto. È all’ospedale Gemelli. È ferito, ma non morto, anche se la situazione è abbastanza grave.
Gli ultras napoletani non credono alla notizia. Hanno ascoltato i medici parlare di arresto cardiaco e vogliono garanzie. La garanzia, nel caso specifico, si chiama Marek Hamsik, capitano del Napoli e azzurro di lunga militanza, con cui – indipendentemente dalle rispettive fedine penali – gli uomini più importanti del tifo azzurro hanno una inevitabile conoscenza personale. Hamsik ha parlato con qualcuno all’ospedale e può testimoniare: il ragazzo non è morto. De Tommaso e gli altri si convincono. La partita può cominciare, in un clima surreale e con un’ora di ritardo. I Mastiffs, insieme ad altri gruppi di ultras, lasciano lo stadio per recarsi in ospedale.
Al momento del confronto con la Digos, in realtà, inquadrati dalle telecamere di mezzo mondo, insieme a De Tommaso ci sono altri due o tre ultras napoletani. Un confronto uguale a quello andato in scena sotto la curva del Napoli, inoltre, avviene anche dall’altro lato dello stadio, tra i funzionari di polizia e i capi ultras della Fiorentina. Ad attirare l’attenzione su De Tommaso, però, sono due elementi. Uno di impatto immediato: una maglietta su cui è scritto “Speziale Libero”, in riferimento all’ultras del Catania condannato per la morte dell’ispettore Raciti durante gli scontri avvenuti in occasione di Catania-Palermo del 2 febbraio 2007, condanna arrivata al termine di una controversa vicenda processuale. Il secondo elemento si innescherà qualche ora dopo, quando De Tommaso sarà individuato nel personaggio noto a Napoli come Genny ‘a Carogna, capo ultras dei Mastiffs, e figlio di Ciro, vecchio affiliato del clan camorrista dei Misso. In quel frangente, però, il curriculum di De Tommaso e dei suoi parenti non riveste alcuna importanza in merito ai fatti accaduti, né tantomeno rispetto alla sensata decisione della Digos di sceglierlo come referente attraverso il quale comunicare con la curva. Tuttavia, dalle ore immediatamente successive alla partita (che si giocherà, e che il Napoli vincerà per tre a uno) l’attenzione dei media si focalizza più sulla figura di Genny ‘a Carogna che sul ferimento di un tifoso napoletano per un colpo di pistola sparato circa quattro ore prima della gara, a Tor di Quinto.
Sono circa le sei quando a Napoli, in casa Esposito squilla il telefono. Gli amici di Ciro comunicano ai familiari quello che, fin dalle prime confuse notizie, tutte le famiglie di giovani napoletani in viaggio verso Roma, temono. Il ragazzo ferito è Ciro. Le persone che telefonano parlano di una ferita alla mano, forse facendo confusione con le ferite riportate dagli altri due napoletani durante gli spari, di cui uno ha, tra le altre cose, lo stesso cognome di Ciro. Ma queste notizie allarmano ugualmente la famiglia. Gli amici, una volta caricato il ragazzo sull’ambulanza, non sono in grado di dare ulteriori informazioni. Nessuno, dai canali ufficiali, comunica agli Esposito che il ragazzo sparato è un loro parente. Dagli ospedali nessuno vuole esporsi; dicono che non si può, al telefono, per motivi di privacy. Anche al centralino della questura dicono di non essere autorizzati a rilasciare notizie. Così i familiari di Ciro si mettono in viaggio verso Roma.
Una volta all’ospedale Gemelli, il padre Giovanni e lo zio di Ciro, Vincenzo, scoprono quello che ormai hanno già intuito. È proprio il loro figlio e nipote il ragazzo sparato a Tor di Quinto. Le brutte sorprese, però, non finiscono qui. Protetto da un presidio delle forze dell’ordine, nello stesso ospedale in cui Ciro lotta per rimanere in vita, c’è l’uomo che gli ha sparato qualche ora prima. Si chiama Daniele De Santis.
De Santis, quarantotto anni, è un personaggio assai noto negli ambienti delle curve romane. È un tipo fortunato, tanto che qualcuno gli affibbierà il soprannome di Gastone, confondendolo in realtà con il nomignolo di un suo compare, a lui accomunato dalla stessa buona sorte. Il fatto vero, però, è che Daniele De Santis nella sua vita riesce sempre a cavarsela, e a venir fuori in maniera più o meno pulita – grazie anche a qualche amicizia importante – dalle situazioni difficili. Nel 1994 viene arrestato a Brescia con altre diciotto persone. È il giorno delle consultazioni per eleggere il sindaco della città lombarda e della partita contro la Roma. Secondo l’accusa, il commando partito dalla capitale è costituito da fascisti e ultras giallorossi guidati da Maurizio Boccacci, fondatore del Movimento Politico Occidentale. Molti sono i nomi noti alle forze dell’ordine, a cominciare da quelli di Massimiliano D’Alessandro (detto er Polpetta, di Opposta Fazione) e Giuseppe Meloni (alias Pinuccio la Rana: ex consigliere di municipalità dell’Msi costretto a dimettersi per i suoi precedenti, nonché storico leader, assieme a De Santis, del gruppo dei Boys). Prima della partita scoppiano disordini: quindici agenti di polizia vengono ricoverati dopo un’aggressione con asce, bastoni e bombe carta; un vicequestore viene accoltellato. Secondo il pm De Martiis il blitz avrebbe dovuto far riguadagnare terreno al gruppo fascista di Boccacci, e creare tensioni in occasione delle elezioni. I rinvii a giudizio comprendono reati che vanno dalla detenzione e porto illegale di armi all’apologia del fascismo. Alla fine di quel processo De Santis viene assolto per non aver commesso il fatto e ottiene un risarcimento di tre milioni di lire per aver scontato cinquanta giorni di carcere.
Nel 1996 De Santis è coinvolto insieme ad altri ultras nell’inchiesta sui ricatti effettuati da alcuni gruppi della tifoseria organizzata giallorossa nei confronti del presidente Sensi per ottenere biglietti gratuiti per lo stadio e trasferte pagate, minacciando la società, in caso contrario, di creare disordini all’interno della curva. Nello stesso periodo è sotto inchiesta per minacce, aggressioni e danneggiamenti ai danni di giornalisti di varie emittenti locali. Sono gli anni in cui De Santis riveste un ruolo importante nella curva della Roma. Più o meno sul finire della sua carriera da stadio, il 21 marzo del 2004, Danielino è tra i sette ultras giallorossi che invadono il campo dell’Olimpico per impedire il proseguimento di Roma-Lazio, interrotta a causa della presunta morte (notizia rivelatasi falsa) di un bambino, che sarebbe stato investito da una volante della polizia durante gli scontri precedenti alla partita. Il reato finisce in prescrizione e De Santis non verrà mai processato.
Oltre a essere un ultras, però, De Santis è noto per la sua militanza fascista. Non solo nelle formazioni di estrema destra extraparlamentari, ma anche in quelle istituzionali. È stato, infatti, militante del Movimento Sociale Europeo; è uno dei membri più in vista del Trifoglio, formazione politica che ha uno dei suoi più importanti punti di ritrovo nel 57B di Tor di Quinto; sempre attraverso il Trifoglio, De Santis si candida, nel 2008, al XX municipio, con “Il popolo della vita per Alemanno”, lista che aveva appoggiato in precedenza e appoggerà in futuro anche le candidature di Francesco Storace e Renata Polverini alla Regione Lazio. Da qualche anno, anzi, De Santis non frequenta più la curva della Roma. Mario Corsi, ex militante dei Nar e vecchio leader dei Boys, in un’intervista rilasciata dopo la morte di Ciro Esposito, dirà: «Danielino ha chiuso da tempo con lo stadio. Vive in una baracca nel circolo sportivo Boreale con i suoi cani. La pistola ce l’aveva per difendere i bambini della squadra dagli zingari».
Come quello di De Santis, si diceva, anche il volto di Esposito è noto alla polizia. Ciro, al commissariato, lo conoscono come il ragazzo biondo che lava le macchine in dotazione agli agenti. Sulla sua carta di identità, inoltre, c’è la foto, cosa che renderebbe impossibile qualsiasi scambio di persona. La polizia, insomma, ha tutti gli elementi per affermare con certezza che il ragazzo sparato a Tor di Quinto sia proprio quel Ciro. Eppure, per molte ore successive al fatto nessuno si preoccupa di fornire una versione ufficiale, o almeno di smentire ai giornalisti che telefonano in cerca di scoop, il fatto che Ciro Esposito sia, nell’ordine: un rapinatore, un camorrista, un teppista.
Sono circa le nove di sera quando i Mastiffs lasciano lo stadio Olimpico per recarsi al Gemelli. Una volta all’ospedale incontrano lo zio di Ciro e gli raccontano, tanto loro, quanto i ragazzi che erano con lui al momento dell’aggressione al pullman, quello che è accaduto qualche ora prima. Più tardi Vincenzo, lo zio di Ciro, viene raggiunto da un giornalista della Gazzetta dello Sport e gli racconta quella versione, l’unica frutto di testimonianze oculari. Il giornalista riesce a mettersi in contatto con gli agenti della Digos che stanno gestendo la situazione e riceve conferma: quella versione è attendibile. È così che, dalle pagine di un quotidiano sportivo, emerge per la prima volta qualcosa di simile alla verità rispetto alla dinamica degli eventi che hanno portato al ferimento di Ciro Esposito. Al ferimento, non alla morte. Perché Ciro rimane all’ospedale in rianimazione, aggrappato a quel che gli resta della propria vita.
Ci resterà per cinquantatre giorni. Cosciente, per buona parte del tempo, tanto da indicare alla criminologa Angela Tibullo, senza mostrare alcun dubbio, la foto di Daniele De Santis come quella dell’uomo che ha cercato di ucciderlo. Anzi l’ha ucciso. Un mese dopo il riconoscimento di quella foto, infatti, il 25 giugno, il professor Antonelli comunica la morte di Ciro Esposito, per insufficienza multi organica, presso l’ospedale Gemelli di Roma.
Le reazioni della famiglia del ragazzo, fin dopo il ferimento, sono molto forti. La mamma Antonella incontra gli ultras di mezza Italia e chiede pubblicamente – dimostrando grande senso di responsabilità, ma anche un forte contatto con la realtà – che nel nome di suo figlio non vengano perpetrate vendette. Allo stesso tempo il padre e lo zio del ragazzo vengono a conoscenza, progressivamente, del passato e del presente di Daniele De Santis, l’uomo che ha ammazzato Ciro. Nel corso delle due settimane successive al fatto, Zio Vincenzo, sindacalista di lungo corso, organizza insieme ad alcuni centri sociali una conferenza stampa e un sit-in in piazza Dante, a Napoli, in cui prova a smontare le notizie false che ancora circolano sull’accaduto; e soprattutto a spiegare come l’assalto ai napoletani messo in atto da De Santis, e il conseguente sparo che ha colpito Ciro, nulla hanno a che vedere con lo stadio e con la partita Napoli-Fiorentina, ma potrebbero essere più vicini a delicate dinamiche politiche, considerando il ruolo tutt’altro che secondario di De Santis nell’estrema destra nazionale e forse internazionale. «L’incendio di un pullman pieno di tifosi del Napoli – spiegano gli organizzatori dell’iniziativa –, per lo più famiglie, in piena Roma, prima di una partita importante, a cui assisteranno il presidente del consiglio e quello del senato, avrebbe potuto scatenare una guerriglia urbana al centro di Roma, con riflessi rilevanti sull’ordine pubblico e la stabilità politica del paese».
A difendere Ciro – che finché resta in vita è agli arresti, in considerazione degli scontri che hanno preceduto la sua uccisione – e a tutela della famiglia, costituitasi parte civile nel processo contro De Santis, vengono scelti gli avvocati De Rosa e Pisani, quest’ultimo noto personaggio mediatico (difensore di Maradona nella sua battaglia contro Equitalia), politico vicino alle forze dell’ordine e soprattutto presidente, e quindi primo rappresentante, della ottava municipalità (Piscinola, Chiaiano, Scampia) di Napoli. Il processo inizia l’8 luglio del 2015, poco più di un anno dopo i funerali di Ciro, a cui partecipano migliaia di persone e durante i quali la madre del giovane invita nuovamente a rispettare la volontà della famiglia, di cercare giustizia per il proprio figlio all’interno delle aule di tribunale.
L’avvocato Politi, difensore di De Santis, punta tutto sulla legittima difesa. De Santis, nel corso degli interrogatori, dice di aver sparato dopo aver subito una aggressione, anzi sostiene di non aver portato con sé alcuna pistola, ma di averla tolta di mano a un tifoso del Napoli che con il calcio dell’arma lo stava colpendo alla testa. Una ricostruzione smentita durante il processo, in considerazione di molteplici elementi. Tra quelli più rilevanti, l’atteggiamento mostrato da De Santis nel corso della prima perquisizione al Ciak Village, dove negava ripetutamente la presenza di una pistola (gettata da una testimone in un bidone dell’immondizia), mentre la sua posizione avrebbe tratto notevole vantaggio se avesse spiegato l’appartenenza dell’arma a un tifoso napoletano. Inoltre, stando alla ricostruzione di De Santis, il napoletano a cui avrebbe sottratto l’arma lo avrebbe colpito alla testa utilizzando la parte posteriore della pistola, mantenendo quindi l’arma per la canna, noncurante di puntarla verso la propria faccia, con il colpo (è stato dimostrato) pronto a partire.
I pubblici ministeri Albamonte e Di Maio chiedono l’ergastolo, non considerando la possibilità di una legittima difesa. È da escludere, infatti, che De Santis sia stato ferito prima dello sparo, come evidenziano le testimonianze oculari. Anzi, il suo assalto al pullman, armato di bombe carta e di una pistola, e ancor più l’aver estratto l’arma sparando ad altezza d’uomo e a distanza minima dai suoi inseguitori, fermandosi solo all’esaurimento dei colpi, ne dimostrano la piena coscienza rispetto alla possibilità di uccidere. A quell’assalto l’ex ultras giallorosso si presenta sotto effetto di cocaina, e dopo aver confidato a un amico: «Vado a risolvere una situazione e torno». Tra gli elementi più importanti emersi dalle testimonianze – a cominciare da quella di Domenico Pinto, cugino di Ciro Esposito – e sottolineati al momento della sentenza, vi è poi la possibilità che, tra le intenzioni di De Santis, vi fosse quella di lasciarsi inseguire (sopravvalutando, sotto effetto delle sostanze stupefacenti, le proprie capacità fisiche) dai napoletani scesi dal pullman fino al centro sportivo, dove altri testimoni hanno segnalato la presenza dei restanti appartenenti al commando, incappucciati e coperti da caschi integrali, pronti a colpire (come in parte accade) gli accorrenti napoletani.
Fino alla fine del processo Danielino non finisce mai in carcere. Il tempo antecedente il dibattimento lo passa tra il Policlinico Umberto I e l’ospedale Belcolle di Viterbo, dove per motivi di sicurezza è destinato in una stanza singola nel settore in cui sono ricoverati i malati di Aids a lunga degenza. Al suo arrivo al Belcolle, i medici affermano che una ferita superficiale che De Santis riporta sulla natica sia compatibile con un accoltellamento. Questa ferita diventerà l’elemento chiave della strategia difensiva, nel tentativo di far passare lo sparo come atto di legittima difesa. Anche a questa tesi, però, rispondono le dichiarazioni di un medico del Gemelli, Giandomenico Logroscino, che visitò De Santis al suo arrivo all’ospedale. Logroscino contesta la messa in discussione della propria serietà professionale. «Se De Santis fosse stato ferito – taglia corto – lo avremmo operato». Dalla prima visita effettuata al Gemelli, invece, né dalla cartella clinica dell’ospedale, De Santis risulta essere stato accoltellato a una natica nel corso degli scontri.
La sentenza, emessa il 24 maggio, condanna Daniele De Santis, ex ultras della Roma e militante fascista, a ventisei anni di reclusione. Il reato è l’omicidio di Ciro Esposito, trentenne tifoso del Napoli, bravo ragazzo, conosciuto dalle “guardie” a Scampia solo perché gli lavava le macchine. (riccardo rosa)
Leave a Reply