L’acronimo ADHD sta, in inglese, per deficit dell’attenzione/sindrome di iperattività (Attention Deficit/Hyperactivity Disorder). È una patologia psichiatrica, introdotta negli anni Settanta, che viene diagnosticata ai bambini, anche in tenera età. Una volta effettuata la diagnosi, ai bambini non rimane che intraprendere una terapia farmacologica che li accompagnerà per molti anni. Parte da qui, sin dal titolo, Stella Savino, autrice e regista di ADHD. Rush Hour, film documentario che, attraverso l’esperienza diretta di due madri, (una italiana, l’altra statunitense) e le parole di esperti, ricostruisce e racconta cosa significhi, nella vita quotidiana, una diagnosi di ADHD.
Un tema controverso e complesso, di cui si discute ancora poco in Italia (dove il protocollo terapeutico è stato approvato solo nel 2007), ma che riguarda negli Stati Uniti oltre otto milioni di minori che assumono, a seguito di questa diagnosi, farmaci che appartengono alla categoria dei neurolettici di seconda generazione, i cosiddetti psicofarmaci. Secondo alcune stime, la sindrome colpirebbe tra il tre e il cinque per cento della popolazione minore mondiale.
Il primo ordine di problemi nasce proprio dalla genericità della definizione. L’ADHD è un “disturbo del comportamento caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività motoria che rende difficoltoso e in taluni casi impedisce il normale sviluppo e integrazione sociale dei bambini. Si tratta di un disturbo eterogeneo e complesso, multifattoriale che nel 70-80% dei casi coesiste con un altro o altri disturbi”. Quando bisogna considerare “malato mentale” un bambino iperattivo, che ha problemi a concentrarsi a scuola, che preferisce giocare piuttosto che rimanere seduto composto in un banco, che “sogna ad occhi aperti” mentre una maestra spiega? La diagnosi si effettua, sulla base del manuale DSM IV, la bibbia degli psichiatri, e si effettua se sono rilevati contestualmente più sintomi (in alcuni questionari i sintomi sono rilevati attraverso domande del tipo: “Se sente un rumore, abbandona subito il compito per andare a vedere cosa succede?”). E, ovviamente, l’approccio non prende in considerazione altri fattori, come il contesto sociale di provenienza o la condizione familiare del minore.
Il secondo punto delicato è quello degli interessi espansionistici delle case farmaceutiche nel settore della neuropsichiatria infantile. Un esteso mercato di “piccoli consumatori” destinati a rimanere per sempre “clienti” è un’occasione da non farsi sfuggire. E non è segreto per nessuno, la forza dell’azione di lobbiesdelle multinazionali del farmaco nei confronti della classe medica, per indirizzare verso un certo tipo di diagnosi piuttosto che un’altra.
Questi, in estrema sintesi, i nuclei critici del tema ADHD. Il documentario di Stella Savino li affronta con stile e sguardo discreti. Si sofferma in particolare sul primo punto, la fragilità di una diagnosi, lasciando solo intravedere sullo sfondo il pericolo di interessi economici. Non impone un punto di vista, anche se quello critico dell’autrice è evidente, né si sovrappone alle voci che hanno scelto di raccontare la propria esperienza. E bisogna dire subito che, contrariamente alle attese, le voci, sofferte, delle madri che raccontano, non sono affatto critiche sugli effetti e sui risultati della terapia farmacologica. La mamma americana soffoca le lacrime, mentre racconta come già il giorno successivo all’assunzione dei farmaci il figlio sia stato in grado di scrivere, con grafia corretta, il proprio nome. Le immagini seguono il figlio alle prese con le sue giornate scolastiche in una scuola specializzata. Mostrano un ragazzino esuberante e simpatico, alle prese con un rigido sistema di premi e punizioni. La mamma italiana mostra orgogliosa le pagelle del figlio, quelle negative, prima della diagnosi e della terapia, e quelle positive che seguono l’assunzione del farmaco. Un percorso cominciato prima ancora che il farmaco fosse disponibile in Italia (lo è solo a partire dal 2007), procurandosi ogni cosa in Svizzera. Per nessuna delle donne si tratta di un racconto semplice, né di un’esperienza che non sia costata loro dubbi, dolori e preoccupazioni. Ma entrambe sono soddisfatte nel vedere i loro figli recuperare quella “normalità” che sembrava impossibile. A contrasto le testimonianze degli esperti che, pur con toni e argomenti diversi, si esprimono con voci critiche e prudenti sulla capacità di effettuare una diagnosi puntuale, sui danni dei farmaci assunti in tenera età e così lungamente, sugli interessi delle multinazionali.
Un effetto “dissonanza”, che, pur in presenza di un chiaro punto di vista dell’autrice (che ricorda come anche Picasso e Einstein fossero bimbi irrequieti), porta a interrogarsi più a fondo. In primo luogo a chiedersi quale sia il sistema sociale che “produce” bambini “irrequieti” al limite di ogni capacità di concentrazione e attenzione. Ma, a nostro avviso, porta soprattutto a dire che è più che mai urgente non solo segnalare un pericolo (perché è indubbio pericolosa una condizione in cui un minore assume psicofarmaci così potenti sulla base di una diagnosi così generica), ma anche interrogarsi su quale debba essere l’offerta di servizi e di assistenza che possa consentire a una famiglia di disporre di un’alternativa concreta tra il farmaco e la disperazione.
Dalla visione del documentario di Stella Savino si ritorna con le idee più chiare sull’ ADHD, ma anche con molte più domande che risposte nella testa. E questo ci sembra, indubbiamente, un ottimo risultato. (dario stefano dell’aquila)
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