Abbiamo letto con perplessità l’ultimo articolo sulla questione catalana di Steven Forti e Giacomo Russo Spena su MicroMega, ripreso da Dinamopress. Un attivista italiano ha scritto alla redazione di Left che aveva ospitato un testo degli stessi autori: “Vivo a Barcellona da più di trentacinque anni ma in una realtà parallela a quella che analizza il vostro articolista”. La nostra sensazione è simile, ma non ci stupisce: il processo indipendentista catalano ha messo in discussione gran parte delle categorie politiche con cui siamo abituati a leggere la realtà; le sorprese sono all’ordine del giorno. Gli autori affermano di trovarsi di fronte a una “catastrofe”, rappresentata dal trionfo delle destre, e dal rischio di “ulsterizzazione” della Catalogna, cioè di una spaccatura della società come quella che in Irlanda del nord si è trascinata per decenni causando migliaia di morti. Chiunque conosca il contesto catalano sa bene che questa paura si addice ben poco alla realtà. In questi dieci anni di processo indipendentista, nonché nell’escalation di questi tre mesi, non è stata versata una sola goccia di sangue; la possibilità che in futuro esploda un conflitto armato tra spagnoli e catalani è veramente remota, perfino nelle periferie di Barcellona, il territorio dove è minore la concentrazione di catalani. Si legga, per esempio, questa intervista con un’attivista di Hospitalet.
Purtroppo, la retorica delle “due Catalogne” – catalani “casta” borghese e contro spagnoli poveri e oppressi – è precisamente lo strumento impiegato dalla destra ultraliberale e filofascista di Ciutadans (assurdamente definita “moderata” da alcuni commentatori nostrani) per creare il panico intorno al movimento per l’indipendenza. Questa costruzione etnicista, inoltre, riprende e rinforza gli stereotipi utilizzati in passato dalle élite che storicamente si contendono il potere in Catalogna. CiU, il partito catalano di centro, per decenni ha demonizzato le periferie dell’immigrazione spagnola, mentre il PSC, il partito socialista catalano, ha cercato di recuperare pezzi di potere promuovendo al contrario l’identità spagnola contro il governo regionale (si veda quest’articolo di Pérez Andùjar). Strategie riuscite sempre a metà, vista la profonda interconnessione di famiglie spagnole e catalane nelle periferie, e la storica collaborazione di gran parte dei settori popolari nelle battaglie per i servizi nei quartieri. Oggi, nessuna delle due strategie funziona più: entrambi i partiti si sono dimostrati corrotti fino al midollo, legati all’oligarchia spagnola postfranchista del PP, e intrinsecamente nemici dei settori popolari, qualunque sia la loro lingua. Il movimento degli Indignados, che non faceva distinzioni di lingua e origine, si scagliava proprio contro la corruzione di queste élite: la diade PP-PSOE al governo centrale spagnolo, i due partiti delle “buone famiglie” catalane CiU e PSC al governo regionale, e, nel caso di Barcellona, il tripartito (socialisti, ex comunisti e indipendentisti di sinistra). I partiti emersi da quella battaglia, per riportare nei ranghi della democrazia parlamentare la protesta si sono alleati con le sinistre contro cui gli Indignados protestavano, offrendo così l’occasione di rigenerarsi ai partiti allora stigmatizzati (gli ex comunisti di ICV e il PSC).
Ricapitoliamo per l’ennesima volta cos’è successo alla fine del 2017. Il primo ottobre abbiamo avuto uno dei più grandi atti di disobbedienza civile che si ricordi in Europa. Due milioni di persone hanno disobbedito a un’imposizione da parte del governo centrale. Nei giorni precedenti lo stato spagnolo aveva inviato in Catalogna migliaia di poliziotti alla ricerca delle urne del referendum proibito. Il paradosso di una votazione illegale (il voto è simbolo della legalità!), unito allo sconcerto di un governo regionale che contravviene a un’imposizione del governo statale, è esploso quando lo stato ha deciso di affermare la propria legittimità con la forza bruta. La repressione ha causato quasi mille feriti, anche tra chi voleva votare “no”.
Che percentuale di partecipazione deve avere un’azione illegale per essere considerata legittima? Metà della popolazione? Due terzi? Personalmente, consideriamo legittimi atti di disobbedienza molto meno partecipati, dalle occupazioni di stabili abbandonati all’immigrazione “illegale”, dalle manifestazioni non autorizzate alla renitenza alla leva. In Catalogna però si è toccato il nervo scoperto dell’intero sistema politico: lo stato nazione. Mettere in dubbio lo stato causa panico, anche tra molti di quelli che a parole si dichiarano rivoluzionari. Un atto di disobbedienza di queste proporzioni, unito alla disciplina pacifica con cui si è realizzato, è quanto di meglio ci possiamo augurare avvenga nel resto d’Europa, in un momento in cui sembra non esserci argine alla crescita dell’autoritarismo e della corruzione degli stati nazionali.
Quando si tocca lo stato nazione, succedono cose impensate. Dal referendum in poi, abbiamo visto di tutto: anarchici che difendono con i loro corpi i seggi elettorali, non per sostenere la creazione di uno stato ma per opporsi alla violenza di quello esistente; urne “proibite” nascoste sopra gli alberi, sotto le carrozzelle dei disabili, sotto la statua della madonna, per evitare il sequestro; corpi speciali con il passamontagna che sfondano le porte delle scuole nei quartieri popolari per impedire le votazioni; pompieri baschi che scendono in auto a Barcellona per aiutare i colleghi catalani a proteggere la popolazione dalla polizia. E ancora: il principale quotidiano della sinistra spagnola che diventa megafono delle peggiori posizioni nazionaliste e filomonarchiche; manifestazioni unioniste capeggiate da fascisti dichiarati che si concludono con comizi di riconosciuti intellettuali progressisti; il leader di un partito politico della borghesia catalana di destra che raggiunge il parlamento cambiando auto sotto un ponte per nascondersi dagli elicotteri; uno sciopero generale convocato da un sindacato anarchico che diventa la giornata di mobilitazione più grande della storia della Catalogna, con tre milioni di partecipanti; il leader di cui sopra che per rispettare il mandato elettorale è costretto a pronunciare – ma a sospendere subito – una “dichiarazione unilaterale di indipendenza”, provocando l’arresto di metà parlamento e la sua stessa fuga all’estero.
Dove sono la destra e la sinistra in tutto questo? L’unica cosa chiara è dov’è il fascismo. Lungi dall’essere stato “risvegliato” dalla mobilitazione, esso è stato sempre presente nelle strutture stesse dello stato spagnolo e del potere monarchico restaurato dal regime franchista: la forma che assume è la mancanza di separazione tra i poteri (si veda questo rapporto UE: la Spagna non rispetta neanche uno degli undici requisiti anticorruzione). È proprio vedendo la reazione del sistema che capiamo quanto il movimento indipendentista abbia colto nel segno. Rajoy, capo di un partito dichiaratamente neofranchista, appoggiato dalla monarchia illegalmente restaurata dal dittatore, dopo avere commissariato la regione, impone le elezioni del 21 dicembre sperando di disattivare la spinta indipendentista. I due milioni di catalani e catalane che avevano votato “sì” al referendum, credeva, avrebbero boicottato una votazione imposta dalla Spagna, perché consideravano già la Catalogna uno stato indipendente. Ma questi hanno scelto di risignificare le elezioni, accettandole formalmente, ma trasformandole nel referendum legale che non avrebbero mai avuto. I catalani e le catalane mobilitati dal primo ottobre non sono andati a votare per questo o quel partito, bensì a favore dell’indipendenza, contro la repressione e contro lo stato spagnolo. E hanno prediletto i due partiti che hanno deputati in carcere. La restante parte di società ha votato contro l’indipendenza; di nuovo, non per la destra o la sinistra. Siccome le sinistre non indipendentiste sono rimaste ambigue, i voti contro l’indipendenza sono andati a destra. Il messaggio finale di queste elezioni, compreso dalla stampa di tutto il mondo, è che gli indipendentisti hanno avuto più voti che nel 2015 – nonostante la violenza della polizia, le minacce dello stato e delle grandi imprese, le bande neofasciste che aggredivano per strada, l’impressionante (e carissima) campagna elettorale di Ciutadans. Ora, la coalizione indipendentista è formata da un partito di destra e uno di sinistra, in crescita, con la presenza influente, ma in calo, di un piccolo partito anticapitalista di base. Come interpretiamo questo agglomerato? Con Gramsci: “Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico […] non possono non essere partiti sui generis […]; più che partiti caratterizzati in tutti i punti particolari dei loro programmi di governo, [sono] partiti di un sistema generale di governo e non di governi particolari”.
Per questo, tutti i proclami catastrofisti sulla “vittoria delle destre” non fanno altro che distogliere l’attenzione dalla realtà. Ciò che avviene in Catalogna è un’occasione unica per vedere cosa possono fare tante persone quando scelgono di mettere seriamente – e pacificamente – in discussione un sistema di governo: anche oggi, anche in Europa. L’Unione Europea si basava, in origine, sull’idea di uno stato sovranazionale che garantisse maggiore autodeterminazione, anche di fronte a questioni territoriali come quella catalana. L’obiettivo era sopprimere gli stati nazionali, che “hanno precluso col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione di tutti i dissenzienti, ogni volontà legale di ulteriore correzione dello stato di cose vigenti”. È il manifesto di Ventotene, che sognava anche la nazionalizzazione delle banche e la limitazione della proprietà privata. L’Europa oggi invece è un massiccio sistema di sostegno e propaganda proprio a quegli stati nazionali e interessi privati che avrebbe dovuto combattere. Chi cerca ora di costruire un nuovo assetto territoriale in Catalogna, che parli catalano o spagnolo, o entrambe le lingue, persegue un obiettivo simile: immaginare un’alternativa a un sistema di governo nazionalista, corrotto e autoritario, che sdogana xenofobia, violenza politica e repressione poliziesca. Si veda il recente comunicato del collettivo Arran: “Vogliamo costruire dei paesi catalani di accoglienza e diversità, femministi perché né donne né LGBT vi devono soffrire aggressioni o discriminazione, e in ogni caso vogliamo un popolo unito che lotti contro tutte le forme di fascismo esistenti”. Proposte del genere, finché sono relegate nei circoli dei movimenti extraparlamentari, possono essere tollerate; quando iniziano a circolare tra centinaia di migliaia di persone, provocano la violenza del sistema, che si sente minacciato. “Impazziranno, avranno gli spasmi, gli uscirà la schiuma dalla bocca”, ha detto Manuel Delgado a giugno. Sta accadendo ora, sotto i nostri occhi. È sufficiente a farci capire da che parte stare. (stefano portelli / victor serri)