Rimmergersi nell’anno nuovo significa riprendere quel che solo la cerniera tra i due anni sa interrompere, vale a dire una programmazione artistica che ha il sapore della ripresa. Così, per iniziare il 2018 è opportuno raccontare di due appuntamenti che funzionano solo se letti in continuità con quanto li precede. La settimana concede alla musica essenzialmente lo spazio dell’intrattenimento serale a partire dal giovedì ed ecco che ci tuffiamo immediatamente nelle atmosfere di classe del teatro Sannazzaro, pronto a ospitare il decimo appuntamento della stagione concertistica dell’Ente Morale Alessandro Scarlatti.
Un cartellone composito – di quelli che fanno onore a chi li pensa come dispositore di una offerta accogliente – prevede qalche rimando altro alla musica che, pur se esclusivamente classica, rimandi a essa. Nel caso specifico, il concerto di Marco Sannini 4et ft. Javier Girotto è di quelli esemplari sotto questo punto di vista: Cambiamo l’aria rilegge la tradizione compositiva partenopea svariati secoli dopo, assecondando quel cambio di funzione della cosa musicale che sembra essere finita dentro i cd che la diffondono.
Arriviamo giusto in tempo per godere delle operazioni di riempimento del teatro, mentre notiamo che la risposta del pubblico è di quelle affettuose. Il concerto, al solito, inizia poco meno che puntuale e si caratterizza per la forte presenza scenica del quintetto, la cui disposizione si armonizza nel palco pur non limitandosi i solisti al proprio posto: Sannini e Girotto dialogano con i diversi tappeti tramati da Costanzo alla batteria (di pregio la sua attitudine, forse alle volte troppo rumorista), De Tilla al contrabbasso e Pezzenati al vibrafono. Tutto molto bello, con la giusta dose di interplay e il pubblico che cadenza la performance con applausi infraesecuzione che si addicono al live jazz. Ascoltare la lucidità dei temi di compositori come Scarlatti, Paisiello, Durante è bella roba sempre, sebbene stavolta sembra quasi un pretesto. Della serie, il saperlo non cambia il mio modo di pormi nei confronti di quello che sto ascoltando. Sta succedendo sempre più spesso che il cinema arrivi a teatro, che la musica classica diventi elettronica o jazz, che la frittatina sia diventata gourmet, come se la contemporaneità non abbia altro da offrire che non la rivisitazione. A ogni modo, tutto a posto. Bella musica, bella gente, bello e bravi tutti. Torniamo a casa mentre la pioggia bagna Napoli.
Il giorno seguente è quello dedicato a Tim Hodkginson, musicista britannico in residenza presso l’Asilo Filangieri per una intensa tre giorni fatta di workshop dedicato a improvvisazione e sciamanesimo – quanto questa condizione si concili alla organizzazione tipicamente burocratica della nostra cultura è punto interrogativo mai riposto. Il quarantacinquesimo appuntamento di Geografie del suono registra la presenza di Fabrizio Spera alla batteria e Gandolfo Pagano alla chitarra preparata. Chi siano queste persone non è più un mistero data la forza pervasiva della rete nel presentare chiunque. Cosa avrebbero fatto invece rimaneva ancora aperto al punto di andarlo a sentire. E niente, bella roba anche qui tant’è che gli applausi ci sono stati. Ma la reazione più sincera è proprio quella di quei tipi dietro di me che hanno commentato in diretta l’azione musicali con frasi tipo: «Questo è il post del post», «Maronna santa» et similia, pur conservando il loro faro puntato sulla scena al fine di registrare fotogramma per fotogramma l’accaduto al fine poi di condividerlo con gli amici, vicini e lontani. Andandosene ventisette minuti dopo lo start.
Badate bene, non è che mi sia piaciuta troppo la cosa. Cioè, quando ho applaudito pure io era quasi per dire meno male, sebbene abbia apprezzato dei segmenti in cui l’attitudine improvvisativa dei tre è venuta fuori nella brillantezza, specie in quelli più tesi alla organizzazione dei suoni nel microsuono. Poi sono saliti sul
palco i ragazzi del workshop e si è fatta musica di insieme, mediando l’uno l’altro in una esecuzione che devo ammettere stava quasi per funzionare se non fosse per il fatto che sarebbe opportuno capire quando finire senza che intervenga un applauso a staccare la spina.
In soldoni, son tanto belli tutti i suoni del mondo, ma ancora più bello è quando sono organizzati musicalmente – che non devono piacere per forza, ma sono almeno da ascoltare tutti. (antonio mastrogiacomo)