Negli ultimi anni, Salvatore Cantalupo ha sempre più orientato la sua ricerca teatrale intorno a due elementi che egli ha sempre considerato fondativi del suo sguardo di artista attore legato alla esperienza poetica di Antonio Neiwiller, suo maestro, prematuramente scomparso nel ’93: da un lato l’attività di laboratorio con una comunità di giovani incentrata sull’improvvisazione e sulle “azioni fisiche” all’interno di una struttura, con particolare attenzione al rapporto con linguaggi espressivi diversi; dall’altro una costante interrogazione sullo smarrimento dell’uomo contemporaneo di fronte agli illusionismi postmoderni, che tendono a disumanizzare le nostre vite e a cancellare la nostra stessa identità. Ora, la prima impressione di Maledetti, il suo nuovo spettacolo andato in scena al Teatro Elicantropo (dal 8 all’11 febbraio) – presentato da Teatro del Sottosuolo e Memini Mutamenti Teatro – è che in esso questi due momenti si fondono in una messinscena che evoca il mito, le nostre tradizioni e le nostre più remote radici, mescolando immaginario e reale, arte e vita.
L’impulso a questa sua ultima sperimentazione, al regista attore napoletano è venuto da un testo, Il Mulino di Amleto di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, in cui è ben spiegato il procedere del mondo dal mytos al logos. A questa lettura, Cantalupo ha associato suggestioni culturali provenienti, oltre che dalla Bibbia, soprattutto dalla Genesi, anche da iscrizioni su tavolette sumere ritrovate nell’Ottocento nei territori di Mezzaluna, che parlano di mondi arcaici e di strumenti del sapere non inferiori alla nostra sensibilità umana e alle nostre conoscenze illuministiche. È del tutto evidente già in queste precise scelte ideali, una radicale critica alla Modernità e a quel Potere oligarchico – economico, finanziario, politico – che governa il mondo e che tutto corrompe, appiattisce e distrugge, mentre crea dovunque inenarrabili tragedie umane. La scena è scarna e il pubblico è accolto in sala, nella penombra, da una musica dal vivo di un trio – formato, oltre che dallo stesso Cantalupo alle percussioni, da un batterista (Carl Marino Robinson) e da un chitarrista (Rosario Di Lullo) – che introduce una pièce che, sin dall’inizio, allude a una remota alba del mondo. Questo sentimento di struggente dolore per una innocenza definitivamente perduta si scopre anche nel canto arcaico della donna che entra dal fondo seguita da un corteo di altri uomini e donne, intonando una ninna nanna cui seguirà il racconto del suo vissuto e della sua solitudine.
Questo meccanismo drammaturgico che vede l’attore narrare al centro della scena la propria vita – utilizzando spesso un dialetto aspro e antico – e quella dell’uomo, di “quel mollusco che credeva di essere un dio e che tutto ha distrutto e avvelenato: il mare, l’aria la natura”, ritorna in altri momenti dello spettacolo. L’altro elemento che crediamo giusto segnalare è il passaggio dalla riflessione sull’attualità del mito all’evocazione – secondo la chiave letteraria di un caustico autore di fantascienza come Robert Scheckley – di un’altra dimensione dell’uomo sottratta alla gabbia della moralità borghese. Anche se il regista sembra convinto che oggi sia quasi impossibile sfuggire all’assedio violento del Potere, di ogni potere, anche di quello che utilizza forme di comunicazione multimediali apparentemente innocue. E chi, come quell’uomo vicino ai clan, manifesta alla fine il desiderio di fuggire da quel mondo, finirà inevitabilmente per soccombere per mano di sicari che conoscono solo il tempo dell’uccidere, la distruzione di ogni gesto di fratellanza e di amore tra umani: un orizzonte di morte di cui quasi un simbolo è quel grande cuore rosso che pende dall’alto trafitto dalle numerose lame dei coltelli.
Al di là della visione pessimistica della contemporaneità, ciò che più convince in questo lavoro è un linguaggio teatrale che esalta il comportamento attoriale e tende all’unità di espressioni artistiche tra loro molto diverse: con un dinamismo dei corpi che ricorda la linea delle azioni fisiche di Grotowski e gli stessi laboratori di Neiwiller – qui evocato con alcuni tra i più significativi aforismi di Non ho tempo e serve tempo – giocati sulla ripetizione di azioni semplici e sull’idea di spazio scenico come spazio poetico. In questo senso davvero emblematica appare una delle ultime azioni della messinscena, che vede Cantalupo srotolare un grande telo bianco a terra per poi apporvi, con gesti rapidi e spontanei, alla maniera di Shimamoto, dei segni con vernice rossa, lasciando poi spazio a una giovane danzatrice che, insieme con altri attori, libera una straordinaria energia e ci fa riscoprire tutta la magia dello stare insieme per un altro teatro. Tutti molto bravi gli attori artisti in scena, dallo stesso Cantalupo a Gianluca Guarino (che si fa apprezzare per gli assoli di sax), ad Alessio Guerriero, Ambra Marcozzi, Amelia Longobardi, Cristina Messere, Ramona Pisano, Anna Ragucci, Carolina Romano, Bruno Toro, Sara Volpe; le coreografie sono di Ambra Marcozzi; le maschere e gli interventi artistici di Ramona Pisano. (antonio grieco)
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