Ho il foglio bianco davanti a me da qualche minuto; penso e ripenso a come poter iniziare a parlare di lui, a parlare di Francesco Silvestri. Perché l’inizio è importante, in alcuni casi, nel caso dei suoi lavori drammaturgici, l’inizio sa essere sfolgorante. Penso a Saro e la Rosa, penso a Fratellini, inizi che sembrano farti subito precipitare nel vortice delle sue parole, delle sue storie. Perché le storie che ha raccontato Francesco Silvestri, sono storie di sogni infranti e da infrangere, di desideri velati e svelati, di passioni di cui vergognarsi e per cui arrossire, di amori impossibili eppure a un tiro di schioppo da lì, dalle anime dei suoi personaggi sempre vortici entro cui perdersi, perché i personaggi-vortice di Francesco Silvestri non ti spostano il corpo, ti spostano l’anima. Te la mettono a soqquadro, te la ingarbugliano, e te la fanno sorridere come forse prima non era mai accaduto.
Ecco, se dovessi visualizzarvi Francesco, se dovessi disegnarlo, lo renderei con un sorriso, il suo sorriso timido e sornione, accennato ma decisivo, che ti raccontava tutto di quel momento ch’era di pura condivisione, di pura complicità. Ma chi è, in fondo, Francesco Silvestri? Chi lo conosce? Chi sa e a chi importa, davvero? Queste parole resteranno, dunque dovrò fare un buon lavoro, dovrò fare del mio meglio per raccontarvelo bene. Così che possiate amarlo, come lo abbiamo amato noi.
Francesco Silvestri nasce a Napoli, nel 1958. Nasce, per la precisione, il 16 aprile del 1958; nasce, per essere proprio precisi, il giorno in cui muore Rosalind Elsie Franklin.
Una buffa coincidenza. Perché questi due illustri sconosciuti che s’incrociano all’inizio e alla fine, in realtà sono stati specularmente decisivi – uno per il teatro, l’altro per la scienza – eppure non ce li ricordiamo. La Franklin è probabilmente la vera scopritrice del DNA, di ciò ch’è alla base della vita, Silvestri è probabilmente lo scopritore di un modo di intendere il teatro, di scriverlo, di interpretarlo da cui non si tornerà più indietro.
Del giovane Silvestri si sa poco; probabilmente nulla, eccetto il suo percorso teatrale; perché il suo percorso teatrale è stato talmente aderente alla vita, alla vita di tutti i giorni, che sarebbe difficilissimo ora scindere le due cose. Inizia da adolescente, a portare il teatro in posti dolorosi, come le carceri o gli istituti per diversamente abili. Fa animazione, scrivono le biografie. In realtà non credo proprio che uno come Silvestri facesse animazione. Lui era animazione. Quando sei animazione, non puoi farla. Il teatro diviene sempre più presente e viene portato avanti come vocazione in modi del tutto singolari, lontano dai luoghi istituzionali, dalle accademie. Francesco frequenta la strada, frequenta chi come lui era alla ricerca di una nuova voce che valicasse i confini delle note sonorità che da Napoli echeggiano in tutto il mondo; frequenta Annibale Ruccello, frequenta Enzo Moscato, frequenta quella ricerca che non ha nome, che qualcuno chiama in modo sterile e riduttivo post-eduardiana, come se ci fosse la necessità di andare post Eduardo. Loro non avevano questa necessità – a mio modesto parere –, loro erano “altrove”, con i loro personaggi, i primi tentativi drammaturgici, le prime messe in scena. I primi successi. Come nel 1989, a soli trentun anni, quando Francesco Silvestri è sulla bocca di tutti, tutta Italia si compiace del suo Saro e la Rosa, che riceve riconoscimenti e attestazioni di gran fattura. Ma non vi parlerò di questo testo; come non vi parlerò di nessuno dei suoi testi, perché è possibile reperirli, i suoi testi. Leggerli. E così si fa per conoscere Silvestri; si reperisce, si legge. Da questo momento in poi, la sua vita teatrale acquisisce forza e riconoscibilità; è impegnato come regista, come drammaturgo, è un grande interprete e non solo dei suoi testi ma anche di lavori impegnativi, interpretando personaggi solo apparentemente lontani da lui e dal suo teatro. Memorabile è il suo Luigi Janniello di Sabato Domenica e Lunedì, diretto da Toni Servillo, per il quale Silvestri ottiene il più importante riconoscimento italiano per l’interpretazione, ovvero il premio Ubu come miglior attore non protagonista; una versione, quella del capolavoro di Eduardo, che dovrebbe essere vista e rivista per poter apprezzare in toto l’arte del Teatro, dalle interpretazioni, alla regia, al testo.
Sono anni fertili, per Silvestri, quelli di inizio secolo; oltre alle memorabili interpretazioni, gira su e giù per l’Italia – dalla scuola Holden di Torino ai laboratori in Sicilia, dove si stabilirà per molto tempo – per raccontare non come si scrive, ma per bisbigliare i segreti che si nascondono dentro le strette maglie della drammaturgia. Francesco, con semplicità ed efficacia, la racconta rendendola affascinante, mistica e restituendo al testo il suo significato, la sua forza, persino la sua dignità.
Ma come ogni parabola che si rispetti, arriva il momento discendente, un momento che in realtà per Francesco è sempre dietro l’angolo. Francesco è un uomo fragile, che dopo una serie di circostanze personali, quasi come fosse uno dei suoi indimenticabili personaggi, si ritrova solo. Nonostante l’amore di molte persone, si ritrova solo. Perché Francesco ha fatto capire – semmai ce ne fosse ancora bisogno – che la solitudine non è una condizione matematica, che la solitudine esiste anche tra la moltitudine. E così, il giorno di Natale dell’anno scorso, ad appena sessantaquattro anni, Francesco è uscito di scena, lasciando pagine bianche, lasciando palcoscenici vuoti, lasciando tutti noi in silenzio. Senza più parole. O meglio, lasciandoci in eredità le sue, di parole. Quelle parole che lo hanno raccontato, lo raccontano e – spero – lo continueranno a raccontare per sempre. Dunque prendiamoci cura di ciò che Francesco è stato in grado di regalare al teatro, che poi è un po’ come dire, di regalare alla vita, alla nostra vita. Concludo con i primi versi di uno scritto che mi inviò in privato, qualche tempo fa, uno scritto che sembra quasi un commiato, un addio. Il titolo, Il Colore delle Lacrime: “Questo mondo qua, questo mondo qua, piccerillo mio, tu non lo sai, non lo sai ancora, ma è pieno di colori”. (fabio pisano)
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