Da pochi giorni ha aperto a Milano il Centro di Permanenza per Rimpatri di via Corelli. Una struttura di detenzione per stranieri senza permesso di soggiorno in attesa del provvedimento di espulsione. Contro il CPR di Milano si è mobilitata un’ampia rete di associazioni cittadine con il fine di contrastare la sua apertura, informare e sensibilizzare l’opinione pubblica. Abbiamo chiesto a Teresa, attivista della rete “Mai più lager – No ai Cpr”, di ricostruire le tappe di questa vicenda e spiegarci quali iniziative verranno messe in campo nei prossimi mesi.
Quando è nata la rete “Mai più lager – No ai Cpr” e per quale ragione è stata costituita?
La rete è nata il 5 settembre 2018 dopo l’assemblea cittadina che l’associazione Naga (che da oltre trent’anni offre tutela medica e legale gratuita alle persone senza permesso, rom e sinti) ha indetto con tutte le realtà antirazziste milanesi, all’annuncio che l’allora ministro Salvini aveva indicato la città di Milano come sede del Centro di Permanenza per il Rimpatrio per la regione Lombardia, in esecuzione del decreto Minniti-Orlando che ne aveva previsto l’anno precedente l’istituzione in uno per ogni regione d’Italia. Da allora le assemblee si sono tenute ogni martedì sera, a turno tra le sedi delle varie realtà aderenti. Il 1° dicembre 2018 si sono unite in piazza con noi ventimila persone per opporsi all’apertura del centro e nel gennaio successivo oltre quattrocento realtà milanesi, lombarde e non solo, hanno sottoscritto un appello-manifesto; in questo, poi illustrati in “pillole” sui nostri social, sono stati condensati gli obiettivi della Rete, incentrati, oltre che sulla chiusura di tutti i CPR e la non apertura di nuovi, anche sull’abrogazione dei decreti sicurezza (i due di Salvini e quello Minniti) e sulla revisione dell’intero impianto normativo (e poliziesco, se si pensa ai trattati con le milizie libiche e simili, che per il parlamento non sono mai passati) che pretende di regolare i flussi migratori verso l’Italia e il diritto di soggiorno.
L’istituzione dei primi centri detentivi per stranieri risale alla legge Turco-Napolitano del 1998. Da allora sono cambiate le denominazioni ma non gli spazi e le funzioni. Qual è la vostra opinione?
La detenzione amministrativa nasce con la legge Turco-Napolitano da un governo di centro-sinistra. Per la prima volta nel nostro paese, in strutture chiamate CPT (Centri di Permanenza Temporanea), le persone potevano essere private della libertà personale fino a trenta giorni, per il solo fatto che la loro presenza sul territorio non era considerata regolare ai sensi della legge (sempre più restrittiva). Queste strutture, nelle quali ancora oggi non sono garantiti neppure i diritti dei carcerati del sistema ordinario penale, si rivelano presto luoghi di degrado umano, trovandosi segregate al loro interno persone che non hanno commesso alcun reato, anche in sette per cella, senza alcuna possibilità di monitoraggio dall’esterno e con possibilità di comunicazione ridotte all’osso.
Nel 2002 è entrata in vigore la legge Bossi-Fini, ancora più restrittiva in termini di rilascio di permessi di soggiorno, che ha raddoppiato i tempi massimi di trattenimento, fino a sessanta giorni, e modificato la denominazione dei CPT in CIE (Centri per l’Identificazione e l’Espulsione); ma a cambiare fu solo il nome, restando i centri gli stessi luoghi di detenzione senza controllo e con il potere di disporre le visite in mano alla piena discrezionalità dei prefetti. Nel 2017 il decreto del ministro degli interni del PD Minniti (del quale l’attuale ministra Lamorgese era collaboratrice) rinominò i centri in CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio), disponendo che ve ne fosse uno per ogni regione e innalzando il periodo massimo fino a centottanta giorni.
Con le modifiche del decreto Salvini, in vigore da pochi giorni, il tempo massimo di detenzione è stato ridotto a novanta giorni (più trenta per coloro che provengono dai paesi con cui siano in essere trattati di rimpatrio: discriminazione nella discriminazione; si tratta in particolare dei tunisini). Sono però state ampliate le possibilità di trattenimento e introdotta una specie di diritto penale “speciale” incredibilmente valevole solo nei CPR (che non a caso chiamiamo “non-luoghi del diritto”, lì dove è previsto l’arresto e il processo per direttissima anche fuori dei casi ordinari, per i casi di danneggiamento di persone e cose: in pratica una norma deterrente contro eventuali proteste dei trattenuti. Al di là del cambio di denominazione però la situazione è sempre la stessa: da vent’anni a questa parte nei centri di detenzione amministrativa si continua a morire (sono oltre trenta, ormai, i casi), e pestaggi, abusi, atti di autolesionismo e negazione di ogni diritto di difesa, oltre che di libertà individuale, sono all’ordine del giorno.
Chi sono i soggetti che formano la Rete e come il vostro impegno si è strutturato nel tempo?
L’appello-manifesto del gennaio 2019 è stato sottoscritto da oltre quattrocento realtà, dal Trentino alla Sicilia. Ovviamente l’attività concreta della rete è portata avanti da molte meno realtà, molto trasversali (associazioni, partiti, centri sociali, collettivi studenteschi, singoli cittadini e cittadine italiani e non), a Milano, mentre con altre realtà e campagne con sede altrove in Italia restano vivi e costanti i contatti. Attraverso la campagna LasciateCIEntrare siamo poi connessi con altri attivisti che si occupano di CPR sul territorio. Teniamo tutti e tutte aggiornati attraverso i nostri canali social, una mailing list che distribuisce i report delle assemblee e raccoglie comunicazioni, e una newsletter. Con la campagna “Siamo qui! – Sanatoria subito!” quest’anno ci siamo connessi con decine di associazioni in Italia per chiedere una sanatoria generalizzata e incondizionata; l’esperienza è stata replicata sul territorio milanese dove abbiamo fondato una rete tecnica con lo stesso obiettivo che sta monitorando l’andamento della procedura di sanatoria 2020.
Quali iniziative avete messo in campo per contrastare le scelte governative e sensibilizzare l’opinione pubblica?
La nostra attività in questi due anni ha seguito due filoni: il primo, quello di informazione dell’opinione pubblica, attraverso la divulgazione, a mezzo dei social e di un paio di opuscoli, dei principali capisaldi della legislazione in materia e della vita nei CPR, attraverso una lettura critica agevolata da grafiche esplicative. In questa direzione vanno anche le nostre “news” sui social che rileggono le novità della politica nazionale e cittadina che più rilevano nel nostro settore, nonché gli approfondimenti di denuncia, gli appelli, le lettere aperte e i volantini.
Rilevante è stata la nostra presenza nelle scuole superiori con materiale divulgativo e incontri mirati. Abbiamo poi organizzato due incontri di approfondimento sui decreti sicurezza e in particolare sul secondo decreto, come pure un doppio appuntamento nel quale abbiamo invitato un ex trattenuto nel CPR di Torino, giornalista dissidente turco, a raccontare la sua storia insieme ad attivisti della lotta contro i CPR. Abbiamo anche tenuto un No CPR Lab nel giugno 2019, una due giorni di lavori suddivisa in tre tavoli (hotspot, frontiere e cpr; diritto alla residenza; precarizzazione del lavoro e del permesso di soggiorno) che ha visto una grande partecipazione e ci è servita a impostare il lavoro per i mesi successivi.
L’altro filone è quello della mobilitazione, con tre cortei regionali: uno, di cui abbiamo detto, il 1° dicembre 2018, e gli altri a ottobre 2019 e febbraio 2020, contro i CPR e i decreti sicurezza. A questi eventi abbiamo intervallato molti flash mob, dei quali due in piazza Duomo a Natale 2018 e 2019, presidi vari davanti alla prefettura e al comune di Milano e infine il sit-in di qualche giorno fa davanti al CPR per impedire l’ingresso dei primi trattenuti nel centro.
L’uno e l’altro percorso mirano ad attirare l’attenzione su un argomento scomodo sia per i politicanti di destra che di sinistra, i quali nella staffetta Minniti – Salvini – Lamorgese si sono dati il cambio nella costruzione di questo obbrobrio delle strutture di detenzione amministrativa (quando già in quella penale si registrano abusi quotidianamente). Né a livello locale le cose migliorano: l’illusione della Milano “città dell’accoglienza” ha tradito, anzi ucciso le sue promesse, rivelando l’insostenibile ipocrisia sulla quale era fondata. Prova ne sia il totale silenzio del sindaco sull’apertura del CPR, rotto solo da un’emblematica dichiarazione di “non contestazione” della scelta del governo.
Cosa farete ora che il CPR di Milano ha aperto?
Con questa novità, alla quale eravamo preparati, dovremo lavorare più alacremente di prima sui due binari di sensibilizzazione e mobilitazione; sotto quest’ultimo profilo, per quanto sia possibile organizzarsi nella nuova situazione determinata dalla pandemia (che per forza di cose ha pesato gravemente sui nostri margini di azione). Le realtà specializzate nell’assistenza legale e la tutela delle persone migranti si stanno già attivando per entrare in contatto con i trattenuti, anche se è praticamente impossibile farlo, data l’assenza di possibilità di comunicazione per chi è dentro con l’esterno e viceversa. In ogni caso stato è istituito un centralino SOS CPR Milano Naga, mentre sia attraverso questo canale sia attraverso altri monitoreremo la situazione denunciando gli abusi dei quali dovessimo avere notizia, fermo restando che il CPR è già un abuso di per sé. Già si stanno preparando richieste di accesso agli atti e alla struttura.
In ogni caso l’obiettivo prioritario resta quello di ottenere l’immediata chiusura del CPR di Milano, come già avevano fatto le proteste del 2013 con il CIE di via Corelli, augurandoci che possa essere il primo di una corta ma amara serie, nel resto d’Italia. (intervista raccolta da salvatore porcaro)