Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41 bis è una piattaforma di sensibilizzazione e rivendicazione che punta all’abolizione dei due istituti più inumani dell’ordinamento penitenziario italiano. Il documento di lancio della piattaforma è stato sottoscritto da centinaia di gruppi e singoli cittadini (si può aderire scrivendo una mail a [email protected]).
Sul blog della piattaforma c’è una sezione che si chiama PERCHÉ NO!, dove si forniscono risposte e chiarimenti alle più comuni obiezioni di chi ritiene impossibile l’eliminazione dell’ergastolo e del 41bis. Le pubblichiamo qui di seguito.
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1. Quali sono le limitazioni previste dal regime di 41bis?
L’articolo 41bis della legge sull’Ordinamento penitenziario prevede la sospensione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. I settecentocinquanta detenuti sottoposti a questo regime, secondo quanto espressamente disciplinato dalla disposizione, vengono ristretti in istituti di solito a loro esclusivamente dedicati, spesso in aree insulari, custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria. Il regime si caratterizza per una serie di misure definite solo parzialmente dal punto di vista normativo, tendenti all’annientamento del detenuto, che poco o nulla hanno a che vedere con la dichiarata necessità di interrompere i suoi rapporti con l’organizzazione ancora attiva all’esterno. Tra queste misure, oltre a generiche e discrezionali “misure di elevata sicurezza interna ed esterna”, vi sono: riduzione o eliminazione dei colloqui con i familiari (che avvengono al massimo, in ogni caso, una volta al mese, dietro un vetro divisorio anche per i figli dai dodici anni in su); registrazione audio e video dei colloqui; impossibilità di partecipare dal vivo alle udienze dei processi; frequenti e invasive perquisizioni personali e all’interno della cella; limitazione delle somme di denaro, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; divieto di avere in cella medicinali, fotografie, poster, orologi, apparecchi elettronici; limitazione degli oggetti concessi in cella (anche matite, penne, quaderni, libri); controllo e censura totale alla corrispondenza; limitazione delle ore d’aria (non più di due al giorno, talvolta in aree fintamente aperte: per esempio, stanze in cui vi è in realtà un soffitto, sotto forma di grata che non permette di vedere con chiarezza neppure il cielo); limitazione nel contatto con altri detenuti durante le ore d’aria (massimo quattro persone, tutte soggette allo stesso regime penitenziario e quindi spesso fortemente provati nella psiche e nel corpo); impossibilità di cuocere cibo.
2. Perché il regime di 41bis non è tollerabile (indipendentemente dal reato per cui si è condannati)?
Le forti restrizioni previste dal 41bis, prolungate nel tempo, provocano effetti estremamente dannosi nei detenuti, spesso irreversibili, capaci di alterare le facoltà sociali e mentali degli uomini e delle donne ristrette. Non esiste reato – che si parli di eversione, terrorismo o mafia – che possa giustificare l’esistenza di uno strumento torturatorio da parte dello Stato nei confronti di un detenuto o una detenuta (d’altronde anche l’articolo 27 della Costituzione vieta di irrogare “trattamenti contrari al senso di umanità”).
Nel 2003 Amnesty International ha definito il 41bis un trattamento “crudele, inumano e degradante”. Ancora, quattro anni dopo, gli Stati Uniti hanno negato l’estradizione del boss mafioso Rosario Gambino, definendo il carcere duro italiano un regime “assimilabile alla tortura”.
Normativamente, infine, per esistere, il regime del cosiddetto carcere duro deve ritenere la presenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”. Occorre, cioè, che il paese o una parte di esso versi in una condizione di elevata e allarmante insicurezza e di disordine generalizzato, situazione che appare neppure all’orizzonte oggi, a oltre trent’anni dalla cosiddetta “stagione delle stragi” (in risposta della quale fu creato il 41bis).
3. Perché si può affermare che il vero obiettivo del 41bis è l’annientamento del detenuto piuttosto che l’interruzione dei rapporti con l’organizzazione di riferimento?
Esiste in Italia il circuito dell’Alta Sicurezza (AS1, per i condannati per reati di mafia), estremamente duro e che già prevede una maggiore sorveglianza anche allo scopo di evitare il mantenimento dei rapporti tra il detenuto e la sua organizzazione di riferimento. Il 41bis nasce inasprendo ulteriormente le misure finalizzate a questo scopo, ma in casi di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica (vedi domanda n.2). Oggi che queste eventualità appaiono non realistiche, l’obiettivo di questa misura sembra essere diventato l’annientamento fisico e psichico dell’individuo. Piuttosto che il fine di interrompere i rapporti tra i detenuti e le organizzazioni, il 41bis assume un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà. D’altronde, un regime che si definisce “duro” richiama esplicitamente l’idea di un sistema inflessibile che mira ad annichilire (anche sul piano psicofisico) chi ne è sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia come “principale criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”.
4. Perché l’ergastolo è assimilabile alla schiavitù e alla pena di morte?
La mancanza di un quantum di pena a un numero di anni definito in sede processuale elimina nel detenuto l’esistenza stessa delle idee di speranza e di attesa rispetto al possibile futuro, creando in lui una condizione di non-vita perpetua. La pena dell’ergastolo appare in questo senso più assimilabile alla schiavitù (d’altronde l’ergastolum romano era proprio una prigione dedicata agli schiavi): lo Stato entra in possesso del corpo della persona detenuta, oggettivandolo, e attribuendosi la prerogativa di decidere, senza che questa possa nemmeno entrarne a conoscenza, se, quando e a quali condizioni restituirglielo.
L’idea di rinchiudere un soggetto a vita in un carcere si scontra inoltre con il principio della risocializzazione del reo presente nella Costituzione. È per questo che la legge è stata costretta a prevedere la possibilità che il detenuto goda (ma solo in taluni casi molto specifici!) di alcuni benefici come permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale. Sul problema legato al tema dell’ostatività si veda il punto successivo.
Si evidenzia infine come le condanne alla pena dell’ergastolo siano in aumento: i detenuti condannati sono oggi circa mille e ottocento, mentre all’inizio degli anni Novanta erano quattrocento (dal 2,8 al 5% della popolazione detenuta).
5. Perché è importante richiedere l’eliminazione dell’ergastolo e non semplicemente dell’ergastolo ostativo?
Tra il 2001 e il 2020 centoundici ergastolani sono morti: un numero enorme che dimostra come il tema dell’ostatività sia spesso utilizzato per aggirare un dibattito – ormai necessario – riguardo l’eliminazione dell’ergastolo. Se sulla carta, infatti, è l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (quello che riguarda l’ostatività) a privare i detenuti condannati all’ergastolo della possibilità di accedere a permessi e semilibertà, è vero anche che pure per gli altri ergastolani – non soggetti a misure ostative – la possibilità di accedere ai benefici è molto relativa (soltanto al 10% circa dei detenuti all’ergastolo viene concessa la libertà condizionale).
Con la recente legge approvata dal parlamento, inoltre, la possibilità di ottenere una liberazione condizionale viene ulteriormente ridotta: bisogna essere sopravvissuti a trent’anni di pena scontata (e non più a ventisei), senza contare che numerose altre misure rendono altamente improbabile la possibilità di affrancamento dalla pena. La più dura tra queste prescrive che il detenuto sia obbligato a fornire (dal carcere!) elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti non solo con l’organizzazione ma anche con il contesto nel quale il reato è stato commesso (una interpretazione, quella del “contesto”, che può essere estesa per esempio a un qualsiasi rapporto di parentela, a una residenza in una stessa città o paese rispetto a membri o ex membri dell’organizzazione, rendendo quindi l’attribuzione del beneficio ancora una volta estremamente discrezionale).
6. Perché, in relazione alle pratiche di collaborazione con lo Stato, il regime di 41bis e l’ergastolo sono considerabili regimi ricattatori?
Il legislatore indica il regime differenziato del 41bis come strumento indispensabile per evitare contatti tra il detenuto e la sua realtà criminale di riferimento. Nella pratica, in realtà, questo istituto si traduce in un’arma di pressione per spingere il reo alla collaborazione con la magistratura, dal momento che collaborare è l’unico modo per poter uscire da tale trattamento.
Nato come strumento da applicare temporaneamente, condizionato all’accertamento della pericolosità sociale “attuale” del detenuto, nei fatti il 41bis viene prorogato in automatico a ogni scadenza (a meno di decisione a collaborare da parte del detenuto) sulla base di una generica esistenza, per esempio, di attività mafiose spesso non ancorate nei fatti a collegamenti specifici con la persona. Se non collabora, in sostanza, il detenuto in 41bis sa che vi rimarrà con ogni probabilità per tutta la vita (gli investigatori si troverebbero inoltre dinanzi a una versione dichiarativa estorta e pertanto estremamente debole rispetto alla ricostruzione dei fatti).
Se nel caso dell’ergastolo ostativo la collaborazione è l’unica via per poter accedere ai benefici, anche nel caso di un provvedimento non ostativo le condizioni poste al detenuto per usufruirne (vedi domanda n.5) sono talmente difficili da verificarsi, e talvolta persino non dipendenti dalla volontà del soggetto, da costituire un notevole strumento di pressione, pur non rappresentando una conditio sine qua non. Se il detenuto condannato all’ergastolo anche non ostativo non collabora, sa che vi rimarrà con buone possibilità per tutta la vita.
È evidente che armi di pressione di questo genere, impugnate da un potere istituzionale nei confronti di un individuo, costituiscono una grave ingerenza rispetto alle sue legittime libertà di scelta, compresa quella di non voler collaborare con l’istituzione stessa.