“Per questo week-end sole su tutta la Campania…”. Clacson, qualche bestemmia, la macchina intrappolata nel traffico scivola via di pochi centimetri. Il rosso al semaforo lascia il tempo di guardare fuori dal finestrino. In un campo, sotto il livello stradale, un gruppo di giovani immigrati sta giocando a pallone. Concentrati, si urlano frasi in francese inseguendo il Super Santos sbiadito. Al verde la macchina percorre qualche metro, i corpi dei giocatori spariscono dalla vista in una nuvola di polvere e terra.
Camminando per le strade periferiche della provincia nord è molto comune imbattersi in alberghi con i cancelli chiusi e le insegne polverose, abitati solo da migranti. Queste strutture sono generalmente i Cas, centri di accoglienza straordinaria, una tipologia introdotta nel 2014 per la necessità di ampliare la rete ordinaria, costituita dai cosiddetti Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
I Cas sono strutture private che vengono riconvertite in centri di accoglienza grazie alla stipula di un contratto tra la prefettura e le cooperative. Trattandosi di misure emergenziali, solitamente per l’affidamento non vengono indette gare pubbliche ma – una volta individuate le strutture dagli uffici territoriali di governo – si procede con l’affidamento diretto del servizio.
Nei comuni a nord di Napoli – Marano, Calvizzano, Giugliano, Qualiano e Mugnano – molti alberghi, a causa dei guadagni scarsi, sono diventati centri di accoglienza straordinaria. Oggi sono ben ventotto, con una capienza totale di poco più di un migliaio di persone. Gli enti che li gestiscono ricevono per ciascun richiedente asilo circa trentacinque euro giornalieri, al fine di garantire i servizi basilari – tre pasti quotidiani, trasporti, assistenza legale, mediazione culturale e tutto ciò che può essere necessario per l’igiene personale e il vestiario. Da sottrarre alla cifra per i bisogni quotidiani c’è il pocket money di due euro e cinquanta, che i migranti ricevono sotto forma di ticket per le “altre necessità” e rappresenta l’unica somma di denaro che gli viene materialmente erogata.
Nell’estate del 2015 alcuni migranti ospitati presso uno dei centri di accoglienza di Giugliano hanno occupato il Cas per attirare l’attenzione della stampa locale sulle condizioni di vita nel centro. Hanno invitato i giornalisti a riprendere le stanze affollate e le scarse razioni di cibo; per placare la protesta è stato necessario un incontro congiunto con i gestori e i funzionari della prefettura.
«È il sistema in sé a essere sbagliato e degradante – dice un attivista –. Anche la migliore delle cooperative avrebbe difficoltà a fare un buon lavoro. Certo, poi molti gestori non garantiscono neanche il minimo e fanno solo business. Ma la mia domanda è: se tu domani facessi una cooperativa per ospitare i migranti, avresti davvero la possibilità di farli vivere da esseri umani?». Gabriele ha poco meno di trent’anni e una laurea in mediazione culturale che l’ha portato a insegnare italiano per alcuni mesi all’interno di uno dei Cas presenti nel comune di Calvizzano. Insieme a un gruppo di amici e attivisti raccoglie periodicamente dati e testimonianze dai centri di accoglienza della zona. Il centro in cui lavorava accoglieva circa ottanta richiedenti asilo di età compresa tra i venti e i quarant’anni: «Era una struttura privata, non un albergo. Quattro ragazzi per stanza, con una sola stanza comune e uno spazio esterno non attrezzato. Il pocket money veniva erogato in ritardo, ma questo dipende anche dalla prefettura. Il cibo veniva garantito, sorvolerei sulla qualità. L’assistenza legale e sanitaria era insufficiente viste le forze a disposizione». Il centro di accoglienza dista diciassette km dagli uffici della prefettura di Napoli, in cui i migranti devono recarsi per la richiesta di protezione internazionale.
La permanenza nei Cas può durare mesi. Stando alla circolare 1724 del 20 febbraio 2015, emessa dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’interno, i richiedenti asilo sono obbligati a rimanere nelle strutture di accoglienza fino all’accettazione della domanda, il che significa un periodo non inferiore ai sei mesi. In caso di diniego, i migranti possono chiedere il riesame della richiesta e la permanenza nel centro può essere prorogata di sei mesi in sei mesi fino all’arrivo della decisione definitiva.
I migranti possono lasciare il Cas nelle ore diurne, ma le difficoltà linguistiche determinano spesso uno stato d’isolamento rispetto ai cittadini dei centri abitati in cui le strutture si trovano. Per favorire l’integrazione, e dare un seguito concreto alla prima accoglienza, in diversi comuni dell’area nord si sono costituiti collettivi di cittadini che organizzano corsi di lingua e altre attività di supporto per le comunità di richiedenti asilo. Gabriella è insegnante, ma nel tempo libero si occupa insieme ad altre persone di impartire gratuitamente lezioni di italiano a una classe di stranieri a Mugnano: «Conoscere l’italiano è fondamentale per il buon esito della richiesta del permesso di soggiorno. Negli ultimi mesi – racconta – stiamo costatando come l’obbligo di garantire una scuola di italiano sia completamente ignorato nelle strutture di accoglienza, per cui capita spesso che persone che stanno in Italia da mesi non parlino una parola della nostra lingua».
Ai richiedenti asilo non è concesso di lavorare fino all’ottenimento del soggiorno. Il decreto Minniti, approvato pochi mesi fa, introduce – tra la presentazione della domanda e l’ottenimento del permesso – il rilascio di un documento che permette ai migranti di essere impiegati in lavori socialmente utili, ovvero senza ricevere alcun compenso. Ma dal momento che è poco dignitoso e pressoché impossibile sopravvivere con i pochi spiccioli del pocket money, molti richiedenti asilo, fin dai primi mesi della permanenza in Italia, finiscono per lavorare in nero, sfruttati dai caporali nelle campagne tra Napoli e Caserta.
«All’inizio è dura. Hai problemi con la lingua, e i soldi non bastano nemmeno per chiamare a casa. Allora bisogna inventarsi qualcosa, in qualche modo devi pur sopravvivere». Ridge è un trentaseienne nigeriano, in Italia dal 2013, che ha ottenuto lo status di rifugiato per motivi umanitari. Arrivato a Salerno dopo un viaggio estenuate, è stato trasferito in un Cas di Giugliano, dove è rimasto fino al giugno del 2014. La struttura ospitava quaranta migranti, provenienti in gran parte dall’Africa subsahariana. «C’è gente a cui non interessa se sei arrivato per mare e se non hai i documenti – continua –, la mattina presto ti caricano sui camion fuori città e ti danno cinque euro per una giornata intera di lavoro nei campi. La polizia non li ferma, nessuno fa domande. C’è un sistema che si arricchisce sulla pelle della povera gente».
Il sistema di accoglienza straordinaria, che continua a ingrossarsi, rappresenta un contenitore in cui confluiscono gli interessi istituzionali, quelli dei privati e, come dimostra la testimonianza di Ridge, quelli criminali. Nella provincia napoletana, soffocata da cemento e soprusi, ci sono esistenze che quotidianamente spariscono dietro cancelli chiusi e finestre annerite dal traffico e dalla polvere. (imma pepino)