L’articolo che segue è tratto da Camminando-Domandando, foglio comunitario di quartiere pubblicato a Napoli e attaccato sui muri del centro storico della città.
Il palazzo del Monte di Pietà, in via San Biagio dei Librai 114, è stato costruito alla fine del Cinquecento. In quell’epoca l’istruzione, l’assistenza ai bisognosi, la sanità non ricadevano ancora nelle sfere di intervento dello stato: erano ambiti affidati quasi esclusivamente alla chiesa, alle comunità locali, a privati o a confraternite. Sarebbero dovuti passare altri secoli prima che uno stato assumesse, almeno formalmente, il compito di contrastare le diseguaglianze sociali.
Furono quindi dei privati cittadini napoletani (mercanti o nobili) a fondare, nel 1539, la confraternita del Monte della Pietà, con l’obiettivo di offrire microcredito su pegno ai ceti più in difficoltà. Intorno al 1692, il prestito era gratuito fino a dieci ducati, una somma che permetteva di comprare quasi quattro quintali di grano, oppure di pagare l’affitto, per sei mesi, di due camere in piazza San Lorenzo o di una bottega alla Vicaria. Sui prestiti di somme maggiori c’era invece un interesse del 6-7%.
Gli oggetti ricevuti in pegno venivano conservati per due anni, dopodiché, se non riscattati, venivano venduti all’asta. Se dalla vendita si ricavava di più, la differenza veniva restituita al proprietario. Il Monte della Pietà si occupava poi del riscatto dei prigionieri dei turchi, della scarcerazione delle persone arrestate per debiti e della fornitura di dote alle ragazze povere.
Dopo vari cambi di sede, nel 1597 il Monte fece iniziare i lavori di costruzione della sua sede attuale in via San Biagio dei Librai, con l’annessa cappella, piena di opere di artisti molto importanti, tra cui Pietro Bernini, il padre di Gian Lorenzo. L’architetto è Giovan Battista Cavagna.
Il Monte di Pietà si guadagnò presto una fama molto positiva. Per questo numerose famiglie borghesi e aristocratiche cominciarono ad affidargli il proprio denaro: cominciò così, già nel 1570, l’attività di banco. Il Monte di Pietà è quindi il nucleo più antico del futuro Banco di Napoli, e perciò quest’ultimo, nell’Ottocento, acquisì la proprietà del palazzo di via San Biagio dei Librai. Come si sa, il Banco di Napoli è scomparso nel 2018, per la fusione con Banca Intesa, ma già nel 2002 era stato incorporato nel gruppo Sanpaolo.
Nel 2017, il gruppo Intesa Sanpaolo ha deciso di mettere in vendita il palazzo. Un imprenditore campano si è fatto avanti, con l’idea di farne un albergo di lusso. La trattativa è segreta: il che vuol dire che molto probabilmente il palazzo sarà ceduto per un valore molto inferiore a quello reale. Ma quel palazzo non ha prezzo! Rifiutiamo l’idea che quell’edificio, memoria di un’istituzione fortemente radicata nella vita e nella società della città storica, sia venduto a un privato. Rifiutiamo l’idea che sia trasformato nell’ennesima struttura ricettiva, in un quartiere che, fino allo scoppio della pandemia, nel 2020, stava cambiando rapidamente volto, investito dal 2015 da flussi turistici senza precedenti.
Mentre la pandemia di Covid continua ancora, numerosi attori economici spingono per la ripresa del turismo e i pubblici poteri continuano a non preoccuparsi delle conseguenze negative del turismo incontrollato: conseguenze molto gravi per gli abitanti, come la trasformazione di molti appartamenti in case vacanze, e quindi l’aumento dei canoni di affitto di abitazioni e attività commerciali.
Chi ha a cuore la sorte della nostra città deve chiedere che quel palazzo sia restituito alla fruizione pubblica, come per secoli è stato, e che la comunità degli abitanti possa dire la sua sull’utilizzo futuro del palazzo stesso. Sarebbe importante che questa destinazione futura fosse coerente con la storia del Monte di Pietà. La sede, per esempio, di una nuova istituzione mutualistica, a partecipazione popolare, per il sostegno al diritto all’abitare per abitanti e attività commerciali di vicinato.
Sarebbe il modo per denunciare l’abbandono dei meno abbienti da parte di stato, regione e comune. Anche perché nella nostra epoca, a differenza che nel Cinquecento, il compito di contrastare le diseguaglianze i pubblici poteri se lo sono assunti eccome. E non può essere un impegno soltanto formale.