L’improvviso rientro del tema droghe nel dibattito pubblico e la sua diffusione virale a seguito della docu-serie di Netflix sulla comunità di San Patrignano ha aperto uno spazio di discussione che può rappresentare un’opportunità per rilanciare temi rimasti nel cassetto.
La serie parte dall’esperienza pionieristica di SanPa, il vezzeggiativo che “umanizza” la Comunità, mette in rilievo le scarse risorse di partenza e l’improvvisazione, ma nello stesso tempo sottolinea il grande entusiasmo, in particolare di fronte “all’assenza delle istituzioni” e al forte consenso da parte delle famiglie e dei tossicodipendenti stessi. Poi si passa alla fase successiva: l’edificazione più strutturata della comunità, la sua crescita a dismisura, fino a raggiungere le duemila persone. E sembra che tutto rimandi all’eccesso di personificazione dell’impresa sulla figura eccentrica e autoritaria di Vincenzo Muccioli.
In realtà, nella serie si vede bene che l’impresa è molto altro: un’organizzazione verticale e gerarchica strutturata secondo una suddivisione per settori legati alle attività produttive; le regole ferree per controllare la struttura nei minimi aspetti e individuare ogni comportamento deviante, da correggere con punizioni sempre più violente. A un certo punto gli “ospiti” non esistono letteralmente più come persone, sono pedine distribuite nello scenario della Comunità; posseduti dal demone della droga, per liberarli è consentito qualunque mezzo, fino ai riti magici e di iniziazione.
Nella serie sono ben documentati gli episodi di violenza che hanno portato alla morte di ben quattro persone. Emerge meno la violenza quotidiana che gli ospiti subiscono, il divieto di interrompere il percorso, il plagio continuo, la finzione di condividere le regole per resistere, la quasi impossibilità a interrompere il programma e la logica maschilista e misogina che penalizza ulteriormente le donne. E si percepisce poco, quindi, che la struttura di SanPa è quella tipica di una istituzione totale: spersonalizzazione, grandi numeri e logica del gregge, sostituzione delle regole di comportamento alle pratiche di cura, violazione e sospensione dei diritti, violenza psicologica quotidiana e violenza fisica come sistema per mantenere l’ordine.
La serie di Netflix tende a rappresentare le due verità quasi in un contrappunto continuo: l’anomalia è pur sempre frutto dell’improvvisazione, dell’impreparazione; è legata alla personalità autoritaria di Muccioli ma trova “giustificazione” nell’obiettivo di “salvare” le persone dalle droghe.
Non escludo che così sia stato agli inizi. Ma il progetto si è delineato poi secondo un orientamento ben preciso: l’edificazione di una istituzione totale sul modello della setta per i tossicodipendenti. Ed è un percorso che vede più attori in campo, economici, politici, mediatici, con una forte influenza sull’opinione pubblica, altrimenti non avrebbe retto da sola. Si comprendono così le passerelle dei politici sulla scena di SanPa che hanno legittimato il modello basato sulla violenza e sul plagio collettivo. Politici che stavano già elaborando una stretta penale e repressiva (vedi il viaggio di Craxi negli Stati Uniti) e che vedevano in San Patrignano un laboratorio formidabile per preparare il terreno della successiva legge, la Iervolino-Vassalli del 1990. Tutto questo mentre Franco Basaglia e il suo gruppo riuscivano nel 1978 a fare approvare la legge 180 che aboliva i manicomi, e nello stesso anno veniva approvata la legge 833 che istituiva, almeno nei principi, il modello di sanità territoriale nella logica della garanzia dei diritti universalistici.
LA LEGITTIMAZIONE DELL’ISTITUZIONE TOTALE
La serie riporta bene la documentazione dei processi che hanno portato alla completa assoluzione di Muccioli stabilendo con una sentenza che un tossicodipendente è capace di intendere ma non di volere, un vero “capolavoro” della giurisprudenza italiana dell’epoca. Il tutto con un forte rilievo dato alla grande partecipazione e gratitudine delle famiglie, che costituiscono tra l’altro una rete ben organizzata che fa proselitismi città per città (a Napoli si chiamavano Mamme coraggio) organizzando la propaganda e l’accoglienza diffusa alla comunità.
Nel contrappunto della doppia verità, non viene a galla però in modo chiaro lo sfruttamento intensivo delle persone ospiti di SanPa, che lavorano a una vera e propria azienda capitalistica che produce profitto e che Muccioli, il padre padrone, decide in modo per niente trasparente come reinvestire, anche lanciandosi in speculazioni finanziare in parte documentate dalla fiction. Ma non era sfruttamento? Era il tributo dovuto in cambio della liberazione dalla droga? Certo, si comprende bene come mai la comunità non chiedesse finanziamenti pubblici. Poi la famiglia Moratti, rappresentanti della destra economica e tanti uomini di spettacolo che saltavano la fila delle persone prenotate, inserendo i propri figli con donazioni cospicue che contribuivano all’assetto economico e alla pubblicità della struttura, metà azienda e metà istituzione coercitiva. SanPa godeva di uno statuto privilegiato, una sorta di impunità di fronte alle istituzioni, in quanto non risulta che sia stata all’epoca, né a tutt’oggi, a parte provvedimenti marginali e discutibili, mai sottoposta ai meccanismi istituzionali delle autorizzazioni necessarie per operare in assenza di convenzione.
L’ECCEZIONE CHE CONFERMA LA REGOLA
L’altro filone possibile della serie è che SanPa sia un caso isolato, un’anomalia, un’eccezione possibile solo in quelle condizioni; una grande sperimentazione irripetibile, con luci e ombre ma con risultati importanti, anche se mai dimostrati. In realtà, SanPa ha rappresentato l’eccezione che conferma la regola. La concezione del tossicodipendente incapace di intendere e di volere, da annullare come persona e ristrutturare nel programma terapeutico, sia in quel periodo che oggi, è un principio alla base di molte comunità terapeutiche e anche di molti servizi pubblici che ammantano di fantasie neurobiologiche questa concezione. Era ed è alla base della concezione del CEIS di don Picchi e delle Comunità Incontro di don Gelmini, per citarne alcune più conosciute. Non è un caso che nessuna di queste comunità abbia preso posizione, comprese le cosiddette società scientifiche degli operatori pubblici, archiviando l’evento a storia di trentacinque anni fa, come ha dichiarato il presidente della Fict (Federazione delle comunità terapeutiche). Fa eccezione il Cnca (Coordinamento delle comunità di accoglienza) che ha preso le distanze in modo netto dalla cultura e dai metodi di San Patrignano.
Questi principi sono alla base della già citata legislazione sulle droghe (dalla Iervolino-Vassalli al DPR 309/90), tuttora vigente, che operò una sterzata alla precedente legge 685/75 che aveva depenalizzato l’uso personale, con un contributo determinante proprio di Muccioli, unico interlocutore nel mondo dei servizi, istituendo un reato specifico che ha riempito le carceri italiane di tossicodipendenti, un terzo dei detenuti complessivi.
DA DEVIANTE A MALATO
Nel corso del tempo, di fronte alla maggiore diffusione del fenomeno, agli scarsi risultati, alle falle continue negli esiti, i modelli interpretativi del tossicodipendente si sono spostati sul livello patologico: un malato da curare. Ma la sua patologia è cronico-recidivante, per cui non potrà guarire, sarà condannato a essere utente a vita dei servizi. Il modello patologico innova e incorpora il modello morale; da una parte riconosce dignità di malato, ma dall’altra segna il destino di decine di migliaia di persone che usano droghe, considerate malati cronici a vita. Un modello che non ha nessun fondamento, legittimato e seguito da molti servizi pubblici che, piuttosto che assenti, sono stati e sono un elemento importante nello scenario di patologizzazione delle persone che usano droghe costruito con l’attuazione della nuova legge, che coinvolge anche le comunità terapeutiche convertite alla gestione della cronicità istituzionale.
Il modello della cronicità ha di fatto attivato un potente processo di istituzionalizzazione per decine di migliaia di persone ingabbiate a vita nella logica dei servizi pubblici e privati. Una persona che usa droghe, per la legge italiana, è stretto da un doppio destino: malato cronico recidivante a vita oppure criminale destinato a essere rinchiuso in carcere; molto spesso entrambe le cose. Anche in questo caso vi è contiguità tra SanPa, tuttora attiva con il marchio Moratti, e il resto del mondo: istituzionalizzazione diffusa e istituzione totale sono articolazioni dello stesso principio. E il mondo della politica, tacendo a sua volta, di fatto legittima e rinforza quel modello.
NÉ L’UNICA, NÉ ISOLATA
San Patrignano non è stata l’unica comunità terapeutica né la prima. Erano già presenti nella scena italiana altre esperienze che si muovevano nello stesso solco. Ma in quell’epoca erano attive anche realtà che andavano in altre direzioni: il Gruppo Abele di Torino con don Ciotti; San Benedetto al Porto di Genova con don Gallo; la Comunità di Capodarco con don Albanesi e altre ancora. Certo, anche queste nel corso del tempo hanno aggiornato i propri modelli culturali e organizzativi, ma hanno mantenuto sempre il principio etico del rispetto delle persone senza discriminazioni.
D’altra parte, fin dal 1975 erano attivi servizi pubblici distribuiti in modo disomogeneo nelle diverse regioni. Negli anni Ottanta, in seguito all’emergenza eroina, il ministro della sanità Aniasi istituì, con due decreti, i Servizi per le Tossicodipendenze su tutto il territorio nazionale. Servizi creati con decretazione d’urgenza, con scarsi riferimenti organizzativi, completamente scollegati, sul piano culturale e organizzativo, dal Servizio sanitario nazionale che si stava istituendo. Ciononostante si iniziarono a delineare spazi istituzionali diversi dal carcere, dai lager camuffati da comunità; spazi che accoglievano, anche se in modo inadeguato, le persone che usavano l’eroina in una fase critica del loro modello di consumo. Era allora dominante il paradigma morale e i servizi per le dipendenze avevano un unico principio “terapeutico”: la disintossicazione, anche se con diverse eccezioni, come le sperimentazioni con la morfina a Giugliano di Napoli e a Firenze nel servizio di Borgo Pinti, poi bocciate dal governo di orientamento proibizionista.
In ogni caso, nel corso degli anni i servizi pubblici (definiti prima SerT e oggi SerD) sono cambiati, si sono abbassate le soglie e si è messo tra parentesi il principio della disintossicazione. È innegabile che questa evoluzione, aprendo spazi, anche contraddittori, alla partecipazione delle persone che usano droghe ha cambiato radicalmente la fisionomia del fenomeno: sono stati azzerati i comportamenti micro-criminali, si è diffusa una maggiore attenzione alla salute e alla cura delle patologie correlate; moltissime persone, nonostante la gabbia del modello patologico, hanno appreso a autoregolarsi anche continuando a usare la sostanza psicoattiva, come è emerso anche in questa fase di emergenza sanitaria. E anche nel mondo delle comunità terapeutiche vi sono stati importanti cambiamenti: si sono ridotti i tempi e i programmi differenziati, con una forte integrazione con i servizi pubblici e senza pretese di liberazione dalle droghe, scegliendo uno stile di accompagnamento al di fuori degli stigmi verso scelte autonome soggettive.
VERSO UN CAMBIO DI PROSPETTIVA
C’è ancora un’altra storia che non compare nella docu-serie di Netflix. Fin dagli anni Ottanta si sono diffuse in Italia una molteplicità di esperienze che si rifacevano alla prospettiva della Riduzione dei Danni e Limitazione dei Rischi (RdD/LdR) con modelli organizzativi diversi. L’obiettivo era ed è la tutela e promozione della salute, valorizzando e potenziando le competenze delle persone.La prospettiva “ospitale” della RdD/LdR non giudica né stigmatizza le persone che usano droghe, si centra sulla garanzia dei diritti e sul rispetto delle persone, si occupa della loro salute offrendo strumenti e strategie per gestire e contenere i rischi, offre spazi di accoglienza e opportunità di cura basate sulle esigenze e sugli obiettivi possibili e concordati. Una prospettiva diffusa ormai anche in diversi SerD e comunità terapeutiche che hanno elaborato una critica radicale al modello patologico promuovendo una nuova de-istituzionalizzazione delle persone che usano droghe.
La RdD/LdR non etichetta le persone come tossicodipendenti ma considera i molteplici modelli di uso focalizzando l’attenzione sui diversi contesti. Si ha ben chiaro che sono le leggi e le influenze culturali a determinare i rischi maggiori e che le persone sono in grado di “dominare il demone” e di mantenere i propri interessi di vita se rispettate, valorizzate e sostenute, come si afferma nella Carta dei Diritti delle Persone che usano sostanze. Oggi la RdD/LdR è un diritto in quanto inserito dal 2017 nei Livelli Essenziali di Assistenza del sistema sanitario nazionale, ma non è un caso che mancano ancora gli Atti attuativi.
La serie di Netflix ci offre l’opportunità di orientare il dibattito pubblico, dissodando il terreno scivoloso della doppia verità e rilanciando l’esigenza di un cambio radicale nelle culture e nelle politiche sulle droghe. Un nuovo impegno per neutralizzare i processi di stigmatizzazione, liberare i fenomeni sociali dalle gabbie dei modelli patologici e per cambiare le leggi introducendo principi di regolazione politica dei fenomeni sociali attraverso la de-criminalizzazione e de-penalizzazione dei comportamenti legati all’uso di droghe e la legalizzazione della cannabis. (stefano vecchio)
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