da: L’almanacco de La Terra Trema (n.27)
L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario conosce in questo periodo una certa mass-mediazione, essendo diventato oggetto di diversi appelli per tentare di salvare la vita di Alfredo Cospito, dal 20 ottobre 2022 in sciopero della fame. Tante attenzioni gli erano mancate negli ultimi quattro decenni. Della legge Gozzini (633 del 1986), infatti, si è preferito per molto tempo valorizzare le opportunità di reinserimento dei detenuti nella società a cui sono stati strappati con l’arresto. Tuttavia è quella legge che sposta il testo dell’articolo 90[1] dopo l’articolo 41, deputato a definire l’impiego della forza fisica dentro agli istituti carcerari.
L’evidente incostituzionalità dell’articolo 41bis – come dell’articolo 90 nel decennio 1975-1986 – stava già allora nel fatto che alludeva inequivocabilmente all’uso della forza fisica, oltre a disporre il trattamento dei detenuti che vi sarebbero stati sottoposti in deroga a tutte le regole (dell’ordinamento penitenziario, e di tutte le acquisizioni di quella che si sbandiera essere la “nostra civiltà”).
Le narrazioni di quei reclusi che hanno inaugurato la stagione dell’“emergenza mafia” all’Asinara e a Pianosa, all’inizio degli anni Novanta del Novecento, testimoniano l’inferno[2] del regime in 41bis allo stesso modo in cui i detenuti del decennio precedente avevano documentato il circuito speciale e i braccetti della morte.[3] Sono noti i termini del trattamento – l’isolamento assoluto, le botte, i vermi, quando non di peggio, nel vitto, l’umiliazione costante, le variabili di crudeltà che cambiano di giorno in giorno, in base all’arbitrio di chi gestisce la sezione – e non mi ci soffermerò.
Volendo invece mostrare come il regime in 41bis si possa assimilare alla tortura, è necessario guardare alle tappe legislative che lo hanno progressivamente stretto come un cappio al collo di certi detenuti. È infatti con l’introduzione (L. 203 del 1991) dell’articolo 4 bis nella L. 354/75 che si profila l’idea di escludere dall’ammissione ai “benefici di legge” – vale a dire i percorsi di reinserimento previsti dall’ordinamento – certe categorie di reati, prevalentemente quelli associativi. Un’idea reiterata e precisata con la legge 306 del 1992 che, modificando il 41 bis, lo connette strettamente al trattamento di quelle tipologie di detenuti. Ben due ministri, dell’interno e della giustizia, possono chiedere un nebuloso “accertamento della pericolosità sociale” dei condannati per taluni delitti. Nebulosità che si chiarisce nel 2002 (L. 279), quando si precisa che i “benefici di legge” possono essere concessi a chi è inquisito per reati associativi “solo nei casi in cui tali detenuti o internati collaborino con la giustizia”. Vale a dire che chi non è disposto a scambiare sul mercato della giustizia la sua sofferenza con quella di un altro da mettere al suo posto può restare indefinitamente in quel regime. Come la tortura – quella dell’acqua e sale e degli elettrodi attaccati ai genitali, di cui il nostro paese conosce i segreti [4] – anche il 41 bis si propone, dunque, di distruggere l’identità della persona per sostituirla con un’altra, consona ai voleri di chi la detiene.
Così, private di aria, di parola, di socialità, di colloqui, di libri e di matite, circa settecentoquarantanove persone, di cui tredici donne – tra le quali Nadia Lioce, detenuta in 41bis da diciotto anni, alla faccia della transitorietà della misura – sono condannate oggi a “un limbo senza fine in attesa della morte”, come scrive Alfredo Cospito.
L’esistenza stessa di questo limbo per centinaia di persone negli ultimi trentasette anni non ha scandalizzato nessuno: d’altra parte serve allo Stato per stabilire a chi riconoscere il diritto di cittadinanza e chi invece criminalizzare. Va dunque detto con coraggio che il 41bis e il 4bis devono essere aboliti per tutti, perché le persone – chiunque esse siano e qualsiasi cosa abbiano fatto – non possono essere tenute in questo limbo da uno Stato che non si dichiari apertamente autoritario.
Un’istituzione statale che tortura, che detiene persone affidandole a corpi speciali addestrati per gestire le emergenze, come il GOM,[5] a una polizia penitenziaria quasi completamente composta da addetti che vengono da ferme volontarie – e quindi hanno subito un addestramento militare,[6] con tutte le implicazioni che questo comporta – in che modo può essere considerata legale dal punto di vista della nostra costituzione? Ma l’indignazione scarseggia, mentre facilmente ci si sdegna dei reati e, appiattendo le persone al loro reato, nella mentalità giustizialista, il 41bis in chiave vendicativa viene reclamato per quelli che si ritengono essere i reati più esecrabili, ma soprattutto per i mafiosi, i terroristi, quelle etichette che hanno dimostrato di funzionare così bene nella guerra contro le insorgenze interne degli anni Settanta-Ottanta del Novecento e successivamente contro il Sud Italia, tanto da consegnarci eloquenti statistiche che indicano le origini meridionali dei reclusi: tra il 90% e il 100% in particolare tra chi è trattato con 41bis e 4bis.[7] E la restante percentuale ha connotazioni politiche.
Va quindi compreso che un simile dispositivo, in mano al potere esecutivo, costituisce un vulnus per la “democrazia” e riguarda tutti i cittadini, stante che i ministri cambiano a ogni tornata elettorale, e il nemico interno – a cui si riconoscerà la “pericolosità sociale” di radice fascista – contro il quale utilizzare questo randello può, di conseguenza, cambiare. Come scrivevo nel 2012: “C’è il carcere per dei ‘gruppi sociali a rischio’, per figure virtuali, costantemente ridefinite e ridefinibili (un giorno sarà la mafia, un altro la camorra, un altro ancora la ‘ndrangheta, un altro gli anarchici e poi ancora gli zingari, i comunisti, in una serie infinita di corsi e ricorsi della storia). […] D’altra parte per il Terzo Reich erano “pericolosi socialmente” i pacifisti, in quanto mettevano in discussione la guerra”.[8] Una suggestione, nel tempo che stiamo vivendo, non del tutto impropria.
Il 41bis e il 4bis costituiscono una sentenza di morte sociale e dunque si prestano bene a togliere di mezzo chi sia ritenuto pericoloso per il potere statale. Per una istituzione che nell’ultimo anno ha contato duecentotré morti e ottantaquattro suicidi, e che tra il 2009 e il 2020 ha già lasciato morire di sciopero della fame almeno quattro detenuti,[9] senza nemmeno contare i tanti morti in 41 bis,[10] queste considerazioni non hanno alcun senso. Mi auguro lo abbiano per quei cittadini che non hanno rinunciato a interrogarsi sul mondo in cui vivono. (maria rita prette)
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[1] Una “disposizione finale e transitoria” della Legge 354 del 1975 che doveva regolare “la sospensione degli ordinari trattamenti in casi eccezionali, di rivolte o di altri gravi situazioni di emergenza”
[2] R. E. Indelicato, L’inferno di Pianosa, 2015; P. De Feo (a cura di), Le Cayenne italiane, 2016 (Sensibili alle foglie)
[3] Progetto memoria, Il carcere speciale, Sensibili alle foglie, 2006
[4] Progetto memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998/2022
[5] Gom (Gruppo Operativo Mobile), “composto da circa settecento agenti della polizia penitenziaria, si forma nel 1997, viene ufficializzato da Oliviero Diliberto, allora ministro di Grazia e Giustizia, con decreto ministeriale nel 1999 e regolamentato […] nel 2007 […]. Gli agenti del Gom, alle dipendenze del Direttore Generale del DAP, hanno il compito di occuparsi dei detenuti in 41bis e di fronteggiare quelle che vengono definite emergenze. È precisato nel decreto che la loro attività può essere svolta, ‘per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia’. Per sapere che cosa questo significhi concretamente mi limito a richiamare tre circostanze nelle quali ha operato il Gom: nel 1998 nel carcere di Opera; nel 2000 a Sassari, nel carcere di San Sebastiano; e nel 2001, curiosamente, non a caso insieme ad agenti del Nocs, a Genova, nella caserma di Bolzaneto che sarà teatro delle torture inflitte ai manifestanti contro il G8”, in: M. R. Prette, Tortura, Sensibili alle foglie, 2017
[6] Vedi: C. Barnao, “Il soldato (im)perfetto. Addestramento militare, polizia e tortura”, in : Ordines, n. 2, Dicembre 2018; e C. Barnao, P. Saitta, “«Pump!»: The Construction of Fascist Personalities in the Italian Armed Forces”, in: Capitalism Nature Socialism, 26 Mar 2014
[7] P. De Feo (a cura di), Le Cayenne italiane, op. cit.
[8] M. R. Prette, 41 bis, Sensibili alle foglie, 2012
[9] S. M. Ben Gargi, nel 2009, Cristian Pop nel 2012, Gabriele Milito nel 2018, Carmelo Caminiti, nel 2020. Vedi Luca Sofri, ilpost.it 23/11/22
[10] Una certa tracotante soddisfazione (“se vogliono morire a casa che parlino”) per la morte in 41 bis di Cutolo, Provenzano, Riina, Di Lauro e altri, e per la compatibilità con il 41bis delle condizioni di salute di un malato terminale come Denaro.