Un ordinario controllo di documenti nel quartiere di San Berillo a Catania. Quattro poliziotti sul corpo di una giovane donna trans, altri su quello della madre e su chiunque cercasse di filmare quel che stava accadendo. Le botte, le ginocchia sul collo, l’irruzione in casa, la ricerca folle dei cellulari, le manganellate ai passanti, l’arrivo in questura e le altre violenze fisiche e verbali. Nelle ultime settimane, i fatti avvenuti il 18 marzo nel quartiere di San Berillo hanno avuto una forte eco. Eppure, come chi vive in questo quartiere sa bene, il comportamento delle forze dell’ordine non ha nulla di straordinario.
Solo quattro mesi fa, un corteo di camionette e di agenti in tenuta antisommossa aveva “scortato” l’ingresso delle due ambulanze venute a soccorrere, con estremo ritardo, un giovane abitante del quartiere. «Sono arrivati a decretare un funerale», aveva detto allora qualcuno tra i presenti. In effetti, solo la mediazione di alcuni abitanti aveva impedito che quella giornata si concludesse con un’altra escalation di fermi e violenze. La morte di Illah – molto più che un caso di malasanità – aveva portato nuovamente a galla conflitti e contraddizioni. Insieme all’evidente disuguaglianza nell’accesso ai servizi di cura, aveva svelato il confine tra umanitarismo e securitarismo, compassione e repressione.
Azioni dimostrative con un forte potere simbolico. Poco importa che il problema di ordine pubblico sia reale o meno, poiché la legittimità di questo tipo di interventi è sempre garantita dallo stigma che colpisce il quartiere e chi lo abita. Non è un caso che la “spettacolarità” delle operazioni risulti sempre inversamente proporzionale agli esiti: qualche fermo, qualcuno senza documenti, qualche grammo di sostanze. Dinamiche che giocano sulla ricattabilità delle persone e che costituiscono nient’altro che un periodico richiamo all’ordine. Ma, come direbbe l’antropologo francese Didier Fassin, questo richiamo non punta tanto al mantenimento dell’ordine pubblico, quanto alla riproduzione dell’ordine sociale.
Queste sono solo alcune delle innumerevoli storie che vedono protagonista questo quartiere. Ma perché proprio qui? Perché a San Berillo?
Su San Berillo si è detto e scritto molto. Per alcuni si tratta di un territorio in cui “più della metà del patrimonio immobiliare versa in uno stato di abbandono e degrado, con numerose pratiche di occupazione illegale”. Per altri è un “quartiere spaccato socialmente, dove i poveri si fanno la lotta tra loro”. Eppure, se proviamo a spingerci oltre le solite rappresentazioni, il quadro diventa assai più complesso.
San Berillo, nel centro storico di Catania, da più di settant’anni si confronta con numerosi tentativi di “rigenerazione”, dall’alto e “dal basso”, da destra e da sinistra. Un quartiere che è frutto di quel grande episodio di speculazione edilizia passato alla storia come lo “sventramento di Catania”, un progetto urbanistico iniziato nel secondo dopoguerra e mai portato a compimento.
Nel corso del tempo, coloro che hanno continuato ad abitare gli spazi sfuggiti alle demolizioni, si sono spesso trovati a doversi ritagliare un posto all’interno dei “vuoti lasciati aperti”, mettendo in campo delle pratiche che manipolano e trasformano lo spazio, che in qualche modo lo politicizzano e che spesso costituiscono le sole modalità per far fronte all’assenza di istituzioni e servizi. Non vi è nulla di particolarmente romantico in questo, si tratta di calcoli e strategie, di sopperire a bisogni, di rimboccarsi le maniche e di autorganizzarsi. Si tratta, più semplicemente, di fatti.
È un fatto che chiunque si svegli la mattina a San Berillo sentirà nell’aria un forte odore di aceto e disinfettante. È l’odore della pulizia delle strade, un’attività che gli abitanti del quartiere, come una squadra autogestita di netturbini, portano avanti quotidianamente. È un fatto camminare per strada e potersi trovare nel mezzo di una lite tra un ragazzo africano e una vecchia abitante; così come è un fatto vederli scherzare il giorno dopo tra loro, mentre lei gli prepara una tazza di caffè o gli mette in carica il cellulare. È un fatto che durante i mesi di lockdown alcuni abitanti abbiano organizzato, in completa autonomia, una rete di mutuo aiuto interna al quartiere, distribuendo buste della spesa a chiunque ne avesse bisogno. È infine un fatto che spesso chi si scaglia aspramente contro certi abitanti, sia poi lo stesso che si prodiga – talvolta anche più di altri – in gesti o azioni a sostegno degli stessi.
Zuffe e mutuo aiuto, individui e collettività. Una complessità che ci invita a rigettare letture approssimative o semplicistiche, come quelle di chi traccia divisioni e confini tra “fronti contrapposti”. Ma, soprattutto, una complessità che ci mostra quanto si impossibile rintracciare, tra queste strade, l’assenza di movimento. Contro le narrazioni di un luogo afflitto dall’abbandono, quest’insieme di forme di appartenenza, sfruttamento e gestione dello spazio, ribadiscono l’autodeterminazione degli abitanti. E se – per definizione – non si dà spazio che sia neutro o passivo, poiché esso è sempre pensato, politico, strategico, vissuto e praticato, allora tali pratiche costituiscono la miglior risposta nei confronti di chi continua, imperterrito, a progettare piani di intervento.
Dopo lo sventramento, per anni San Berillo ha rappresentato per la città di Catania la testimonianza tangibile di uno scandalo. Oggi la situazione è mutata e con essa sono apparsi i primi segnali di cambiamento: nuovi edifici, nuovi progetti, nuove idee di intervento sullo spazio, nuovi attori che si fanno strada in cerca di opportunità. Emblematica è stata, in tal senso, la Conferenza istruttoria dei servizi per la riqualificazione e il recupero del quartiere di San Berillo del 22 settembre scorso: un tavolo istituzionale a cui sono stati invitati tutti, fuorché gli abitanti del quartiere. E sebbene pochi giorni dopo la Conferenza, la risposta istituzionale sia arrivata in quartiere sotto forma di retata, parte degli abitanti aveva già manifestato la propria posizione: “Volete risolvere il problema delle case pericolanti, della spazzatura, delle strade dissestate? Ben venga! Ma che questo venga fatto per gli abitanti che vi abitano, e non per trasformare San Berillo nell’ennesimo polo di attrazione turistica”.
Anche nel caso della rigenerazione, l’esclusione degli abitanti da qualsiasi grado del processo decisionale è la conferma di una modalità d’azione che relega queste persone ai margini della struttura sociale. E questo vale tanto più per le soluzioni “progressiste”, che individuano nelle soggettività implicate degli assistiti, non soggetti ma oggetti, non attori-autori ma destinatari di interventi. Di conseguenza le soluzioni – a cui manca un reale confronto con la comunità – finiscono per scoraggiare esperienze collettive di solidarietà e mutuo aiuto lontane dalle logiche del profitto, e per ridefinire i termini del conflitto sociale.
Ma questo chi vive a San Berillo lo sa, e quel 18 marzo, all’uscita dalla questura, se ne è avuta conferma: abitanti e solidali erano lì fuori: se toccano una, rispondiamo tutte. «Questa è la nostra lotta e non la deleghiamo. Siamo noi le protagoniste e vogliamo lottare in prima persona». (lavina lòpez)