Ho messo piede la prima volta in accademia nel 1999, non ci ho capito nulla, neanche sapevo che si potesse scegliere un docente piuttosto che un altro, sapevo solo che volevo frequentare un corso di pittura, assecondare una passione. Ancora non riuscivo a mettere a fuoco, allora, quella frustrazione di gran parte dei docenti che spesso sono lì non per vocazione alla trasmissione feconda, quanto per garantirsi lo stipendio sicuro che le arti (tutte le arti) non riescono neanche lontanamente ad assicurare. Mi capitò un professore che si nascondeva prima dietro i cavalletti, poi dietro la cattedra e per finire dietro i suoi folti baffi. Era così ottuso che la prima cosa che mi disse quando mi vide fu: «Non ne vogliamo qui di filoamericani». Si era fermato ai pantaloni larghi e al cappellino da baseball, senza voler capire che sì, guardavamo all’America, ma a quella nera e proletaria, che ci aveva mostrato senza troppi proclami come riprenderci spazi della città a colpi di spray, che ci stava insegnando a farci voce, con la musica e con la danza, a tamburo battente.
Cambiai corso il secondo giorno, passando a un altro docente sconosciuto ma che almeno non si presentava mai in aula, così il rischio di subire sproloqui era pari a zero. Avevo un’energia incontenibile, una notte sì e una no stavamo nelle yard a dipingere vagoni, incuranti di polfer e vigilanze private che non avevano scrupoli a intimidirci a colpi di pistola. L’accademia, col suo lento fluire pareva immobile, un pantano che avrei abbandonato da lì a pochi mesi e di cui ho un unico buon ricordo, il corso di antropologia. Lo teneva un poeta, si chiamava Michele Sovente. Erano lezioni affollate le sue, quasi non lo si vedeva – basso com’era –, nascosto da teste allungate dagli immancabili dread-lock e dai turbanti improvvisati delle studentesse. Ci diceva, con una vocetta stridula, che fino a quando non avremmo riconosciuto l’altro non avremmo conosciuto neanche noi stessi.
Durante i venti anni trascorsi sono tornato poche volte in accademia, giusto per qualche visita alla pinacoteca, in occasione di qualche sporadico evento o per consultare la biblioteca, anche a dispetto di modalità scoraggianti. Poi a febbraio gli studenti hanno occupato l’edificio, un’occupazione durata quaranta giorni, una quarantena di autogestione e presa di possesso delle proprie vite, fino allo sgombero avvenuto all’alba del 30 marzo.
A metà marzo, scortato da una pioggia incessante, avevo varcato l’ingresso che da via Costantinopoli dà accesso diretto al cortile dell’accademia. Fu come varcare la soglia che separa la morte dalla vita: mentre fuori le livide luci blu delle sirene strisciavano per le strade, invitando silenziosamente al coprifuoco, lì, sovrastati dalla chioma di alberi secolari, gruppetti sparsi di occupanti ascoltavano musica diffusa da casse senza fili, qualcuno danzava, i più discutevano tra loro. Riuscii persino ad assistere a un’improvvisazione teatrale: un uomo e una donna si parlano, lui si siede, lei danza, alternando scatti nevrotici a una sensuale fluidità. Aldilà di ciò che vidi sul palco (era forse un miraggio?), il solo accomodarsi sulle poltrone del teatro, l’attesa che le luci si spegnessero, gli applausi finali, tutto aveva un vago sapore di resurrezione.
Uscendo ripassai dal cortile. Tutt’intorno, poggiati alle pareti, pannelli dipinti con chiari riferimenti alle restrizioni dei decreti governativi, oppure alle molestie che tante studentesse hanno subito e subiscono dal corpo docente e che nel corso dell’ultimo anno stanno lentamente venendo a galla. Non conta la qualità di queste opere – realizzate magari frettolosamente perché dettate dall’urgenza –, conta che siano una presa di parola e che queste parole, se coltivate con ostinazione, porteranno a discorsi via via più strutturati. Come quelli che abbiamo raccolto poche ore dopo lo sgombero della Digos. Le voci degli studenti e delle studentesse ci sono arrivate addosso con la rabbia che un’intera generazione sta covando sotto la cenere di una pandemia globale, ma anche come un sibilo capace di farci volgere la testa e guardarci intorno in cerca di sodali che come noi sentono che la misura è colma, e che il tempo dell’azione è ora.
VOCE AL MEGAFONO 1
[Questo sgombero è inammissibile, forme di repressione così gravi non si vedevano da vent’anni! Veniamo accusati di tre cose diverse: occupazione, danneggiamento e uso improprio di un bene culturale… ma che cazzo significa uso improprio? Abbiamo riaperto laboratori, abbiamo fornito aule studio, abbiamo dato spazio alle persone per fare attività…].
La voce arriva netta, per informare le persone accorse in strada dopo lo sgombero e i pochi giornalisti presenti. A pochi metri un cordone di poliziotti è schierato a difesa del portone d’ingresso, mentre gli agenti della Digos – nonostante un caldo prematuramente estivo – scrutano i presenti impettiti nei loro piumini blu notte da cento grammi al pezzo. Dopo una breve pausa si riprende…
VOCE AL MEGAFONO 2
[Ci siamo riappropriati di spazi che sono nostri di diritto. Per tornare a fare arte, per guardarci negli occhi, perché l’istruzione è fatta di scambi, di rapporti… Abbiamo chiesto al nostro direttore di aprire il cortile per studenti e studentesse, di riaprire la biblioteca chiusa da un anno, di avere un’aula autogestita così da aprire uno sportello per tutelare studenti e studentesse. Perché in questo istituto per dieci anni, ricordiamocelo, è stato permesso di compiere abusi e molestie… Abbiamo cercato il dialogo con il direttore, ma lui ci ha ignorato, ci ha risposto con intimidazioni, minacce, ha cercato di metterci contro gli altri studenti…].
Per chiarirmi le idee prendo in disparte una studentessa e uno studente. Il tono delle loro parole è influenzato dalla situazione frenetica che stanno vivendo, all’ansia per le denunce che vedranno pioversi addosso, si mescolano la rabbia e la determinazione di chi nel percorso accidentato che ha intrapreso sente d’aver trovato una strada maestra.
M.
«Abbiamo occupato il 23 febbraio. A un anno dalla chiusura dei luoghi della cultura. […] Abbiamo fatto rivendicazioni in tredici punti al nostro direttore, che poi abbiamo ridotto a quattro: un’aula autogestita; la riapertura del cortile in sicurezza; l’istituzione di aule studio; la riapertura della biblioteca dalle 9 alle 18, perché i libri di testo sono molto costosi – di solito è aperta dalle 9 alle 15, un orario ridicolo, senza nemmeno poter prelevare i libri. Abbiamo chiesto un tavolo di confronto al direttore ma si è rifiutato. Dopo una settimana ci ha risposto con un comunicato che le nostre richieste non erano possibili durante l’emergenza sanitaria, ma noi queste cose le vogliamo ora perché non sappiamo quando l’emergenza finirà. La direzione ha strumentalizzato la consulta degli studenti con sondaggi e petizioni per metterci gli altri studenti contro. Stamattina poi, lo sgombero senza alcun preavviso. Il direttore avrebbe dovuto avvisarci, avrebbe dovuto tutelarci. Dell’intero corpo docenti solo una persona si è schierata con noi; gli altri, a cui abbiamo mandato un centinaio di mail, non ci hanno risposto. Li abbiamo invitati, non si è presentato nessuno».
L’anno scorso, dopo la denuncia di una studentessa, sono venute a galla storie di ripetute molestie da parte di un docente. Grazie al supporto del collettivo Non una di meno altre testimonianze stanno emergendo. Evidentemente non era un caso né isolato né riguardava un unico docente. Alcune storie sono state raccolte in un’auto-inchiesta femminista in continuo aggiornamento dal titolo Il libro marrone.
L.
«Sai che in questa accademia da dieci anni si fanno abusi di potere e molestie? Se ne parla da un anno perché una ragazza ha avuto il coraggio di denunciare per stupro un docente, ma noi riteniamo che la violenza possa abbracciare molti più comportamenti. Gli altri docenti e il vecchio direttore sapevano tutto, ma nulla è stato fatto. Credo che parte dell’energia e della rabbia che ci hanno portato a occupare nascano molto da questa situazione che abbiamo vissuto. Solo da quando stiamo qua le ragazze che hanno subito queste violenze hanno avuto il coraggio di parlare, di confrontarsi tra loro, di creare una rete solidale. Pensiamo che questo sia l’unico modo per evitare che accadano di nuovo episodi del genere, o almeno di farli riconoscere, perché i docenti utilizzano delle modalità così subdole, dicono che si innamorano, costruiscono relazioni che non possono essere paritarie, senza comprendere l’impatto di un rapporto con una persona di trent’anni più piccola… Quando il docente denunciato si è dimesso, Giulio Baffi, il presidente dell’accademia, ha detto che abbiamo perso un “grande docente”, un docente che peraltro anche in aula reiterava modalità violente insultando studenti e studentesse. Dall’inizio dell’occupazione il presidente è scomparso… Il direttore, Renato Lori, è in carica da quattro mesi, lui ci ha detto che non è affare suo questa cosa degli stupri…
«Durante l’occupazione abbiamo lavorato a tre opere d’arte. La prima al terzo piano, dove c’è un forte addensamento di “grandi docenti”, alcuni dei quali sono direttamente coinvolti in questa storia, anche se non tutti sono stati nominati. Le ragazze hanno deciso di non denunciare perché non credono nella denuncia. Invece hanno deciso di spogliarsi, di coprirsi con la pittura rossa e di lasciare le tracce dei corpi che loro hanno guardato, toccato e sedotto sulle pareti dell’accademia, come un monito. Abbiamo voluto ricordargli cosa significa essere ossessionati da queste situazioni. A queste tracce sono state aggiunte delle frasi: non sono un abuso; non sono solo un corpo; sono un cervello ossessionato; sono le lacrime che non avete visto; sono stata brava e silenziosa ma adesso urlo… E abbiamo deciso di far urlare delle pareti, così ogni docente la prossima volta ci penserà due volte a posteggiarsi le ragazze nell’atrio, perché è proprio quello uno dei luoghi in cui le cose accadevano.
«Ci hanno accusato di danneggiamento, certo, ma il fatto che le nostre esistenze siano state danneggiate non fotte un cazzo a nessuno… Se invece vai a toccare un bene culturale abbandonato a sé stesso, che se ne cade a pezzi, pieno di crepe, di scritte oscene e intonaci sbriciolati, allora tutti si risvegliano. Si preoccupano più di un muro scrostato che dei corpi e delle coscienze di noi ragazze. Noi parliamo di corpi, di vissuti e di ossessioni e loro ci dicono che stiamo disegnando sui muri. Scusa ma adesso ti devo lasciare che stiamo per organizzare una performance…».
Su un lungo striscione bianco segni di corpi vengono marchiati dal fuoco di una vernice rossa. Un testo in nero recita: denunciate per aver denunciato la violenza. Il traffico viene bloccato, nel pomeriggio verrà un presidio, la lotta continua. (cyop&kaf)
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