Se c’è una cosa che in questi ultimi anni non è mancata alle politiche culturali della città e della Regione, di certo sono state le risorse. Sarebbe interessante discutere se questa abbondanza di risorse abbia portato anche a una ricchezza di idee o, più prosaicamente, se abbia portato più turisti o visitatori o spettatori. Ma ci vorrebbe altro tempo e altro spazio. Così come altro tempo richiederebbe rispondere alla domanda se è possibile “fare cultura” liberamente se si accede a un finanziamento, pubblico o privato che sia.
Vorrei invece partire dalla considerazione che questa abbondanza di risorse europee (centodieci milioni di euro solo nella programmazione regionale FESR 2007-2013, sull’asse 1.10) rischia di lasciare ben poca traccia in termini di “infrastrutture culturali”. E non per incapacità di spesa o di gestione delle risorse, ma perché si è scelto un modello di governo che fa delle politiche culturali uno strumento di visibilità e consenso per il potere politico. Credo sia evidente a tutti, e bene lo ricordava Maurizio Zanardi nel suo intervento all’assemblea di domenica al Forum occupato, che non è possibile immaginare di rilanciare un’idea di politiche culturali se contestualmente non si avvia una riflessione sui meccanismi che, nel recente passato, hanno consentito questo saldo e malefico connubio tra il potere politico e le politiche dell’arte. Una genealogia delle regole e dei dispositivi che hanno consentito che tutto ciò si verificasse senza alcuna opposizione, esclusa qualche voce coraggiosamente dissonante.
Propongo tre assi, sui quali a mio avviso andrebbe impostata una strategia di nuove politiche culturali in grado di segnare una netta discontinuità con i dispositivi di governo attuale. In primo luogo, la programmazione delle politiche culturali e delle risorse loro dedicate andrebbe resa pubblica ed evidente in documenti di programmazione, condivisi e discussi in modo reale, ampio e partecipato. Non è un esercizio impossibile, né si tratta di immaginare documenti di pianificazione modello soviet. Ma documenti in cui siano chiare le strategie e gli indirizzi nonché i trasferimenti che annualmente un ente pubblico intende destinare al sostegno delle politiche culturali. Ancora oggi, pur a fronte di milioni di euro investiti, è difficile comprendere, visto quanto scarni sono gli atti che li accompagnano, quali siano i principi in base ai quali si sono fatte delle scelte piuttosto che altre.
In secondo luogo, è necessario chiudere fondazioni ed enti strumentali e ricondurre l’attuazione delle politiche culturali all’interno degli uffici (regionali, provinciali, comunali) competenti per materia. Perché pur con tutti i limiti della pubblica amministrazione, un ente pubblico è obbligato dalla legge a rispettare criteri di imparzialità, pubblicità e trasparenza. La scelta di operare in questi anni con organismi pubblici nelle risorse e nella presenza di soci fondatori, ma privati nel modo di gestirle, è stato uno dei meccanismi che più di altri ha, a mio avviso, determinato la creazione di poteri personali, monopoli culturali, abnormi concentrazioni di risorse. Nessuna scelta di efficienza può giustificare il superamento di logiche di trasparenza né si comprende il perché sia necessario creare presidenti e consigli di amministrazione di organismi privati che vivranno solo e sempre di soldi pubblici. Per quanto possa essere pieno di difetti, almeno il personale amministrativo (con esclusione di quello apicale) non è diretta emanazione del potere politico. Non è molto, ma è qualcosa.
In terzo luogo, chiedere che alla logica dei grandi eventi si possa sostituire una politica di interventi culturali diffusi e disseminati, con criteri di investimento che non premino solo progetti faraonici o interessi organizzati già costituiti, ma che promuovano la continuità dell’impegno e l’affidabilità a lungo termine, rispettando una equa ripartizione delle risorse sul territorio regionale e che sostengano progetti di intervento culturale e non di semplice intrattenimento.
Naturalmente tutti sappiamo che non è la forma che dà sostanza alle cose. Non basta immaginare un diverso modello di governo delle politiche pubbliche perché le cose funzionino. Ma deve essere proprio di un movimento di critica, che non vuole occupare o spartire posti di prestigio, interrogarsi sui dispositivi che hanno consentito la riproduzione di logiche di potere e, ove possibile, modificarli. A questo servono le lotte. (dario stefano dell’aquila)