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napoli
8 Marzo 2012

La donna afgana e le ragazze del Mercato

Giulia Beatrice Filpi
(disegno di manincuore)

Elenco delle cose non permesse ad alcune fidanzate a Napoli.

‎1 ) Non possono indossare determinati abiti

2 ) Non possono truccarsi

3 ) Non possono parlare ad altri ragazzi

4 ) Non possono iscriversi a un social network

5 ) Non possono uscire da sole o con le amiche

6 ) Non possono rispondere alle chiamate anonime

7 ) Non possono intraprendere un viaggio scolastico o con le amiche

8 ) Non possono lavorare

9 ) Non possono andare a scuola

Sarah Khoudja, di origine francese e padre tunisino, parla un italiano impeccabile. Porta un bel vestito fatto con le stoffe di un burqa, disegnato da lei con l’idea di valorizzare la bellezza del corpo partendo da un oggetto pensato per nasconderla. Dal 2005 lavora per Medici senza frontiere, prima nel settore della prevenzione e dell’educazione alla salute, poi in quello dell’amministrazione e della contabilità. Nel corso dei suoi viaggi di lavoro in Ciad, Nord Sudan, Darfur, Congo e Afghanistan, ha collezionato vestiti e oggetti tradizionali fatti da e per le donne.

Di ritorno a Napoli ne ha parlato alla sua amica Pia d’Alessandro,professoressa di storia dell’arte nell’Istituto professionale “Isabella D’Este” di Napoli, ed è nata l’idea di incontrare le ragazze del corso di moda e abbigliamento, per mostrare loro i vestiti africani e afghani. «Anche se fisicamente sembrano donne, le ragazze si meravigliano di tante cose – spiega Sarah – e sono state da subito molto curiose. Allora abbiamo deciso di fare un lavoro più approfondito sulla condizione della donna, scegliendo l’8 marzo come data simbolica». Nei corridoi della scuola, i cartelloni in italiano e francese descrivono l’allungamento artificiale del collo delle “donne giraffa”, la fasciatura dei piedi, l’escissione, ma anche i corsetti ottocenteschi, la magrezza delle modelle, la chirurgia plastica. «Aver vissuto a Napoli mi ha aiutato molto ad ambientarmi in Afghanistan», racconta Sarah. «C’è una forma mentis molto simile, con la differenza che a Napoli c’è un accesso maggiore alla scuola e alla tecnologia».

I vestiti provenienti da Asia e Africa sono esposti con cura, dei pannelli ne illustrano nome, origine e caratteristiche. In fondo a uno dei corridoi c’è anche un burqa bianco. Sarah mi racconta che le studentesse sono rimaste molto colpite dal burqa e che hanno voluto provarlo, chiedendosi, con una punta di orgoglio per la propria cultura ed emancipazione: «Ma come fanno? Non si respira, non si vede niente!».

«Poi, però, il confronto è stato naturale: guidate dalle professoresse hanno capito subito la condizione della donna napoletana, che sta “sotto” il fidanzato. E poi, qui le ragazzine sono tutte così, con il fidanzato che vieta loro di andare in gita, di truccarsi», osserva Sarah. «Parlandone, hanno capito che il burqa era solo un simbolo, un oggetto che serviva agli afgani a fare… quello che faceva il fidanzato a loro, praticamente».

Le studentesse di Pia ci spiegano i messaggi e le tecniche espressi da alcuni artisti africani, poi saliamo al piano superiore, dove le ragazze hanno preparato delle letture ad alta voce. Tra un testo di Bennato e uno in ricordo di Teresa Buonocore, un brano di Khaled Hosseini e uno di Roberto Saviano, colpiscono soprattutto le scritture delle allieve: Francesca, del quarto anno del corso di studi sociali, legge la “lista delle cose non permesse alle fidanzate napoletane”. Sembra molto contenta del progetto fatto a scuola: «Ci siamo rese conto delle differenze e delle similitudini, del fatto che le donne hanno delle regole all’estero, ma pure noi, qua, abbiamo delle “regole”».

Prima di uscire, un ultimo sguardo ai manufatti e ai tessuti variopinti in mostra. Una delle bidelle chiede di poter vedere i documentari che sono stati proiettati poco prima – «Non li abbiamo potuti vedere, dovevamo tenere i piani!» –  poi guarda con curiosità una collana portafortuna esposta nella mostra, i suoi pendenti contengono delle sure del Corano che proteggono dal malocchio e dalle malattie. «Me la posso mettere?», chiede a Sarah. «Mi serve proprio!». Più tardi, mi chiederà di fare un articolo contro la ZTL, dal momento che la sua famiglia ha avuto una multa di ottomila euro.

Esco da scuola con un bel foulard colorato, un regalo delle allieve. Le professoresse sono state contente di vedere almeno una “giornalista”, come insistono a chiamarmi, tra tutti i giornali e le scuole che hanno invitato. Penso a quello che mi ha detto Pia: «Le iscrizioni sono in calo, e l’istituto rischia di chiudere, o essere accorpato a un’altra scuola». Il commento di Sarah era stato: «In qualsiasi altro paese d’Europa, una scuola come questa sarebbe messa al primo posto, anche per il ruolo che occupa nel difendere la tradizione sartoriale napoletana!».

Sul piano di offerta formativa della scuola si legge: “Il grosso degli alunni problematici è localizzato nelle strade vicine all’area di residenza del nostro istituto”. In altre parole, senza quella scuola, in posizione strategica tra piazza Mercato e la Ferrovia, molti di quei ragazzi “problematici” non la frequenterebbero per niente, la scuola. E mentre ragiono sulle sorti future dell’Isabella d’Este, un signore sulla sessantina mi riporta all’oggi, 8 marzo 2012: «Auguuuri, signorina! Dove vai? Tutto bene? Come stai?». Non rispondo, e mi lascio alle spalle i suoi commenti. (giulia beatrice filpi)

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