Quando a inizio settembre sono tornata nel rione De Gasperi, ho incontrato Francesco. Era esattamente dove l’avevo lasciato prima delle vacanze, con la testa dentro un cassonetto dell’immondizia a cercare vecchi oggetti da riutilizzare, ma non allo scopo per il quale erano stati fabbricati. Francesco è un bambino di dieci anni con occhi azzurri e accigliati. Vive a Melito, ma passa le vacanze estive a casa dei nonni nel rione De Gasperi.
«Francè, ma si può sapere che cerchi sempre dentro alla munnezza?».
«Le cose che mi servono».
«Ma a che ti servono?».
«Le faccio funzionare un’altra volta».
Un bambino risoluto, con la fissazione per l’ingegneria. Ho commesso l’errore di dirgli che stavo andando a intervistare la gente del quartiere. Mi ha seguito fin dentro le case, lasciando sul marciapiede un lavabo e una tazzina. Ha detto che li avrebbe ripresi al ritorno.
Abbiamo attraversato via De Meis per entrare nelle nuove palazzine Iacp, Comparto N. Una serie di lotti di colore giallo, costruiti esattamente di fronte al vecchio rione De Gasperi. Qui il comune ha previsto gli alloggi per gli assegnatari del De Gasperi. Tra giugno e settembre centocinquantotto famiglie si sono trasferite, in due tornate. Cinquantasette famiglie a fine giugno e centouno a settembre; circa dieci famiglie al giorno per garantire il normale svolgersi delle operazioni, e per paura delle occupazioni.
Proprio in questi giorni, e poi a dicembre, verranno ultimati i trasferimenti. Il trasloco funziona così: arriva la ditta di traslochi, a spese degli assegnatari del rione, e più o meno contemporaneamente arriva il dirigente dell’ufficio patrimonio del comune per la consegna delle chiavi, seguito da una pattuglia di polizia municipale e dalla ditta di operai cui spetta il compito di murare le case. L’assessore al patrimonio Fucito aveva parlato dell’abbattimento in tempi rapidi delle vecchie palazzine fatiscenti, ma ciò risulta impossibile perché dentro ci abitano ancora coloro che non hanno diritto a un alloggio popolare. Alle duecentodieci famiglie assegnatarie, infatti, vanno aggiunte quasi settanta famiglie appartenenti a queste categorie: occupanti rientrati nella sanatoria del 2010, approvata in sede regionale ma non deliberata dal consiglio comunale; nuclei familiari in cui uno dei coniugi è condannato per reati associativi; e poi un numero imprecisato di abusivi, la maggior parte dei quali vive nei sottoscala. Le venticinque famiglie occupanti che rientrano nella sanatoria del 2010 hanno fatto causa al comune, e l’hanno persa.
La signora Anna è tra gli assegnatari e ha sempre pagato l’affitto. Mi invita a visitare la casa nuova, tutt’altra storia rispetto a quella umida in cui mi aveva accolto l’estate scorsa. Doveva tenere una bacinella per raccogliere l’acqua che scorreva dal soffitto in corridoio. Ricordo la cappa d’aria umida, che mescolata alle temperature del luglio più caldo da cent’anni a questa parte, asfissiava chiunque entrasse. Ora Anna abita in una casa ben rifinita al sesto piano; di fronte si vede il Vesuvio, i palazzi fatiscenti del vecchio rione, la rampa costruita appena sopra la stazione della Vesuviana e mai completata. Una strada troncata di netto a mezz’aria, o slanciata nel vuoto, a seconda dei punti di vista. Insieme al caffè Anna mi porge una matassa di documenti: moduli di contratto e dichiarazioni dei redditi, bollette, il canone d’affitto vecchio e nuovo, nonché il nuovo contratto di locazione dello Iacp della provincia di Napoli. Cerco di capirci qualcosa, lei mi aiuta con un rapido calcolo: cinquecento euro per la ditta di traslochi, seicento per il nuovo contratto di locazione, calcolato in base al reddito (così come l’affitto), cento per l’allacciamento dell’acqua, centoottanta per quello di luce e gas. Aggiunge che da luglio a settembre sono stati senza gas perché alcuni inquilini hanno ritardato l’allacciamento. Il problema, mi spiega, è che ci sono famiglie che sono indietro con il pagamento dell’affitto – alcuni non l’hanno mai pagato – e nel momento in cui entrano nella casa nuova devono pagare anche gli arretrati, sebbene ci sia la possibilità di rateizzare. Sul nuovo contratto c’è scritto che dopo tre mesi di affitto non pagato scatta lo sfratto.
Le palazzine di via De Meis furono commissionate dal comune alla fine degli anni Ottanta, ma le ditte che facevano i lavori fallirono una dopo l’altra. Ne seguì un contenzioso: il comune rivendicava i suoli ma la situazione si sbloccò solo nel 2002, con l’accordo di programma tra ministero dei lavori pubblici, comune, Regione e Iacp. I soldi però arrivarono molto più tardi, e i lavori ripartirono otto anni dopo, nel 2010. Anno in cui le palazzine vennero acquistate dallo Iacp, che appaltò alla Dp Costruzioni l’edificazione. Sono pronte dal 30 aprile 2013.
In realtà, gli scheletri di questi palazzi in costruzione sono noti da almeno vent’anni agli abitanti di Ponticelli. Durante gli anni Novanta erano un ritrovo per i tossici, ma anche per i bambini del rione De Gasperi: accatastavano materiali e poi li bruciavano; chi faceva il falò più grande acquisiva maggior prestigio. Francesco Paolillo, quattordici anni, si era intrufolato nel cantiere con i suoi amici per costruire un “giglio” di legno da bruciare nella notte di Ognissanti. Era il 25 ottobre 2005. Cadde dal sesto piano precipitando in quello che ora è il vano ascensore.
A lavori ultimati, le palazzine Iacp sono state finalmente consegnate al comune, nello specifico alla Napoli Servizi, l’azienda che si occupa della gestione del patrimonio immobiliare di proprietà comunale. Nel frattempo l’ufficio patrimonio provvedeva al censimento delle famiglie del rione. Il biennio 2013-2015 è segnato da un palleggio di responsabilità tra comune e Iacp. Carlo Lamura, commissario straordinario Iacp di Napoli, candidato con Fratelli d’Italia per Caldoro alle ultime elezioni regionali, accusa il comune di non riuscire a stilare le graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari. In effetti l’ufficio comunale trova non poche difficoltà, essendo la maggior parte degli abitanti del De Gasperi occupanti abusivi.
Tra il 2013 e il 2015 gli appartamenti, pronti e vuoti, sono stati forzati quattro volte da altri occupanti abusivi e sgomberati dalla polizia. Gli abitanti del rione sottolineano di essere arrivati, in più di un’occasione, prima della polizia, per difendere le “loro” case, o almeno quelle che un giorno sarebbero diventate le loro case. Le ripetute occupazioni hanno posto il problema della sicurezza, risolto con un paio di vigilanti e un sistema di telecamere a circuito chiuso. Sembra di camminare in 1984 di Orwell, ma la guardia giurata mi rassicura, non funzionano.
Una voce conosciuta mi chiama dall’alto. Alzo la testa e il giallo della facciata taglia in modo netto l’azzurro del cielo. Mi stupisco del fatto che tra due palazzine ad angolo ci sia così poco spazio che può passarci un solo braccio. L’effetto è straniante: sembra di stare all’interno di un cubo perfettamente squadrato, giallo su tre lati e con la parete superiore di colore azzurro cielo. Metto a fuoco una sagoma al sesto piano. È Carmela. Le chiedo se ha più organizzato la festa di benvenuto per i primi trasferimenti. Aveva previsto una grande festa con i fuochi d’artificio nello stradone che circonda le palazzine: tanto è isolato, non porta da nessuna parte. Carmela mi dice che alla fine non s’è fatto più nulla. Sono nati malumori tra gli abitanti del rione, molti hanno ritenuto che fosse di cattivo gusto nei confronti dei non assegnatari.
In trentacinque anni di edilizia popolare post-terremoto non è cambiato niente. Anche le palazzine Iacp, come la maggior parte degli edifici popolari di Ponticelli, sono state costruite secondo quel modello. Sono colate di cemento in mezzo al nulla. Nel caso di Ponticelli, quartiere prima contadino e poi operaio, quel nulla era fatto di terre coltivate. Oggi qualche fondo contadino resiste, negli interstizi di un’urbanizzazione sregolata. Dopo decenni, i lotti di “nuova edilizia popolare” sono corpi estranei al tessuto sociale del quartiere. Ogni blocco, che al suo interno non ha né negozi né servizi, rimane chiuso in se stesso e gli estranei si guardano bene dall’entrarvi. Qui vivono le circa ventimila persone arrivate a Ponticelli dopo il terremoto, spesso provenienti dagli strati di popolazione più deprivata del centro città. Insieme formano un grande quartiere parallelo delimitato da stradoni a scorrimento veloce. Una vera e propria linea di confine tra il nucleo storico del quartiere e quelli che, secondo le formule di rito, vengono etichettati come i malamente. Tutti distribuiti in torri e lotti senza condividere nulla, se non l’esasperazione e la rabbia per uno stato che “li ha abbandonati”. Uno stato che ogni tanto si fa vivo, per esempio a settembre scorso, sotto forma di un presidente della repubblica che viene a inaugurare l’anno scolastico presiedendo una cerimonia vistosa e scomposta, con tanto di cori di protesta, giornalisti che si lamentano della scarsa organizzazione, grande e dispendioso palco all’aperto di cui poi non si farà niente, coro scolastico, e la partecipazione di un ospite speciale, il cantante Lorenzo Fragola che intona il suo successo “hashtag fuori c’è il sole”. Il problema è che a fronte di interventi statali sul territorio, come l’assegnazione delle case popolari o il lavoro estenuante degli insegnanti nelle scuole, non fa seguito l’intervento per cambiare le condizioni strutturali del territorio. Fino a quando Ponticelli sarà il quartiere con il più alto tasso di evasione scolastica, con una popolazione più giovane rispetto alla media cittadina, ma anche meno istruita e con un tasso di disoccupazione più elevato; fino a quando le istituzioni e le pur numerose associazioni di quartiere imporranno il loro linguaggio, inquadrando il problema secondo i propri parametri, nulla cambierà. (piera boccacciaro)