Ombre digitali sul lavoro sociale, a cura di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2022, pp. 128, 16 euro), è il risultato di un laboratorio di socioanalisi narrativa svolto in cinque incontri tenuti tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, il primo al Folletto25603 di Abbiategrasso e gli altri nell’ambulatorio medico popolare di via dei Transiti a Milano, con la partecipazione di circa quindici persone.
Il libro richiama i temi di un precedente cantiere di socioanalisi, di cui scrivemmo qui, ma il tempo passa e i contesti cambiano, così stavolta al centro della ricerca è il ruolo che la tecnologia, con un’accelerazione evidente in questi anni di pandemia, è andata assumendo nel ridefinire ogni ambito del cosiddetto lavoro sociale, con decisive implicazioni sull’organizzazione del lavoro, sulle relazioni di aiuto e soprattutto sulle linee di comando, affidate sempre meno agli esseri umani e sempre più ai dispositivi tecnologici. Una fase di transizione in cui anche i poveri e i marginali – “oggetto” dell’intervento, e ormai da tempo ridefiniti come “clienti” o al massimo “utenti” di un servizio da espletare al minor costo possibile – vedono cambiare ulteriormente il proprio statuto, risignificati come numeri e dati da cui estrarre un sia pur minimo margine di valore e di potere. Responsabili del tracciamento, della catalogazione, della sorveglianza, in questo sistema che si va configurando, sono gli operatori sociali stessi, ovvero gli addetti a quella funzione che ancora qualche illuso si ostina a definire “di cura”.
Il mondo del lavoro sociale, inoltre, non è solo chiamato a digitalizzarsi in modo sempre più accelerato e massiccio, ma anche a favorire il processo di digitalizzazione dei propri interlocutori. L’“inclusione digitale” dei soggetti più fragili deve procedere a tamburo battente, eliminando le zone franche, per favorire da un lato l’estrazione dei dati-valore, dall’altro le linee di comando interne all’organizzazione.
La parabola del lavoro sociale – si afferma in sostanza nel libro –, cominciata negli anni Settanta con ben altri presupposti e prospettive, è ormai giunta al capolinea. Un lavoro basato sulla relazione in presenza e sulla prossimità con le persone in difficoltà, sta rapidamente traslocando nella dimensione virtuale. È un passaggio d’epoca, in cui non cambia solo l’organizzazione del lavoro, ma il vertice stesso della gerarchia. A governare la transizione, infatti, non sono più le cooperative o le associazioni che erogano il lavoro, e neppure gli enti di governo e le fondazioni che con i loro bandi le finanziano, ma un ristretto numero di multinazionali che gestiscono le tecnologie di drenaggio dati a livello globale. Un’oligarchia digitale che ha messo sotto controllo anche gran parte del welfare mondiale e che controlla i dati di milioni di persone, “assistite e stoccate dai nuovi sistemi di welfare. Povere ma connesse”.
RENDICONTAZIONI OSSESSIVE
Lo smantellamento dei servizi pubblici, dati in appalto a cooperative, fondazioni o società “accreditate” – cominciato più di trent’anni fa – è un sistema che per funzionare richiede un tipo di monitoraggio quantitativo che nel tempo si è fatto sempre più stringente, al fine di documentare il profilo degli enti nelle domande di accreditamento, per partecipare agli appalti o per richiedere fondi. Per accreditarsi, insomma, bisogna esibire delle credenziali, e queste credenziali non sono altro che numeri.
“Nonostante io amassi compilare ‘diari narrativi’ – afferma una delle partecipanti alla ricerca – che raccontassero anche le sfumature delle relazioni per non sminuirne o perderne la complessità, smisi presto di farlo visto il disinteresse generale […]. La richiesta istituzionale era di quantificare le prestazioni e ogni attività sul lavoro diventava subordinata a questa richiesta. […] Per me è sempre stato evidente quanto l’unico interesse dietro queste procedure fosse l’ottimizzazione dell’azienda in funzione della sua spendibilità sul mercato dei ‘servizi’ a scapito della reale qualità della vita delle persone coinvolte. La fluidità, la complessità, la vitalità delle relazioni umane non erano contemplate nella gestione burocratica del quotidiano” (p. 36).
La transizione dal diario di lavoro al registro elettronico, dal cartellino cartaceo al badge digitale, e così via, non è solo un cambio di strumenti per svolgere la stessa funzione. Gli strumenti modificano la qualità del lavoro, influenzandone sia l’efficienza che i contenuti. Anche prima si rendicontavano le attività svolte, ma la rendicontazione digitale aggiunge due funzioni inedite: il tracciamento e il controllo “in tempo reale” delle attività. In questo modo, tra l’altro, ogni garanzia di riservatezza, un tempo assicurata a chi entrava nell’orbita di questi servizi, viene spazzata via con un click, senza spiegazioni ulteriori, per il collegamento intrinseco, automatico, tra i dispositivi e le banche dati.
La rendicontazione è diventata, insomma, più importante del progetto in sé, almeno per i dirigenti degli enti e per i loro finanziatori. “Io vivo questo passaggio con una certa filosofia – osserva un altro partecipante –; forse mi sono un po’ rassegnato, non so come dire. Mi chiedi le ore che faccio? D’accordo! Dedicherò parte del tempo a rendicontare. D’altra parte, c’è anche quel fondo di consapevolezza che ti porta a chiederti: ‘Ma io, all’oggi, sono ancora un operatore sociale che deve fare un certo intervento, oppure sono diventato un tale che monitora e inserisce in qualche macchina dei dati?’” (p. 69).
Chi gestisce la piattaforma non è interessato al contenuto del lavoro, ma al set di dati che può raccogliere e sfruttare in altre sedi. D’altra parte, agli operatori interessa ancora meno questo tipo di “restituzione” – arida, burocratica, standardizzata – incapace di rendere la minima complessità del proprio lavoro; essi sanno benissimo qual è la sua funzione, e così moduli e diari elettronici vengono compilati a cervello spento, semplicemente per compiacere il controllore. La conseguenza, però, è che il lavoro d’equipe risulta sempre meno incentrato sulle specificità del lavoro e sempre di più sui modi e i tempi per rendicontarlo. Schede, piattaforme, budget. I lavoratori vengono progressivamente investiti di una serie di aspetti amministrativi che esulano dalle loro mansioni. Ma per poter lavorare – e in definitiva per continuare a esistere – gli enti da cui dipendono devono adeguarsi alle richieste della committenza. Niente storie quindi: prima i dati e poi, eventualmente, le persone.
INVASIVITÀ E PRODUTTIVITÀ
È una deriva che si rispecchia, tra l’altro, nella formazione degli operatori, ai quali non viene più richiesto di attivare relazioni complesse, o di affinare le capacità di comunicazione interpersonale, ma di imparare a usare determinati dispositivi, piattaforme e applicazioni, “macchine digitali standardizzate che rispondono a una ragione computazionale rigida e niente affatto relazionale” (p. 28). Sono questi strumenti a plasmare il profilo professionale dell’odierno lavoratore sociale.
Gli strumenti elettronici, però, appaiono del tutto inadeguati a sostituire le relazioni vissute. In pandemia, come sappiamo, nelle scuole si è fatto un massiccio ricorso alla cosiddetta didattica a distanza. Le testimonianze dei partecipanti alla ricerca allargano una casistica che ha avuto grande diffusione in questi ultimi tempi nonostante la propaganda orchestrata dall’alto, perché si tratta di una modalità che ha investito uno spazio di massa come la scuola pubblica e non solo i recinti dell’assistenza sociale. Ecco quindi arricchirsi il catalogo di assurdità e criminali idiozie generate da questa fallimentare modalità di insegnamento; i casi in cui il rifiuto degli scolari ha assunto forme anche dure, ostinate, all’invasione del proprio spazio privato, accanto all’indifferenza delle istituzioni per il merito della questione, la loro preoccupazione esclusiva per il fatto che la connessione avvenisse, al di là del suo contenuto e delle sue contraddizioni.
“Fino a un paio di anni fa – racconta uno dei partecipanti – usavo a malapena il telefono e la posta elettronica. Adesso invece mi accorgo di passare molto tempo davanti a uno schermo per partecipare a riunioni online, inserire dati, compiere rendicontazioni, mandare e leggere mail. […] Nel periodo dell’accelerazione imposta dalla pandemia, i referenti del personale e della formazione mi hanno fatto tre comunicazioni. Con la prima – poiché ero rimasto uno degli ultimi, se non l’ultimo a non averlo fatto – mi hanno suggerito di passare dalla mail personale alla mail aziendale; in questo caso è Microsoft. Con la seconda mi hanno invitato a partecipare alla formazione per l’utilizzo di Microsoft Teams e tutta l’organizzazione è stata spronata a utilizzare quella piattaforma nel suo lavoro quotidiano. […] Un terzo invito è stato quello di utilizzare maggiormente il calendario digitale” (p. 46).
Le piattaforme, strutturate come sistemi che controllano più sottosistemi – la posta, i calendari, ecc. –, si dispongono di fatto a esercitare le funzioni di un caporeparto, di un caposquadra: sono impostate per sorvegliare l’andamento produttivo di ciascun lavoratore affinché non vi siano disfunzioni nei piani dell’azienda. Allo stesso tempo, dai racconti emergono anche elementi di vulnerabilità – per esempio, il lavoratore che lancia uno sciopero utilizzando la piattaforma per denunciare le ingiustizie che avvengono nell’ambiente di lavoro (p. 53) –, e quindi possibili usi antagonisti, o quantomeno forme di resistenza attiva a questa implicita, pressante richiesta di automatismi passivi e subalterni.
L’invadenza delle piattaforme si estende ormai anche al di fuori dell’orario di lavoro. Whattsapp, da strumento di comunicazione personale si è trasformato – spesso per impulso dall’alto ma anche per la poca consapevolezza esercitata dal basso – in strumento di lavoro che richiede una disponibilità senza pause. Tutte le comunicazioni lavorative, anche riservate, passano per quel canale. A tutti gli orari. Il mondo relazionale scivola così sullo sfondo. La normalità diventa la risposta veloce, l’interruzione di qualsiasi cosa si stia facendo per immergersi nella sfera digitale. “Non sei tu che decidi i tempi della risposta, ma la macchina che ti insegna a rispondere immediatamente, se non vuoi essere qualificato come un soggetto fuori norma o inaffidabile”. L’accelerazione dei processi droga l’organizzazione del lavoro, fornendo una spinta ulteriore alla produttività del gruppo, tanto sul terreno operativo che su quello della valorizzazione economica.
DUE GENERAZIONI
“L’espressione Terzo settore non ha più senso alcuno. Internet infatti è un sistema di sistemi digitali privati e per niente terzi, che con la nozione di no-profit, essendo orientato al profitto, non ha proprio nulla a che fare” (p. 105), scrive il curatore.
Sebbene siano ancora molti quelli che ce lo raccontano così, il mondo del sociale non è (mai stato) un’isola felice. La cultura politica da cui queste pratiche sono sorte più di cinquant’anni fa, è stata prima erosa e poi definitivamente cancellata. Eppure, mi chiedo, c’è mai stata una reale preminenza della qualità sulla quantità? È mai esistita una reale autonomia nell’impostare e realizzare il proprio lavoro? E, soprattutto, che grado di consapevolezza politica e di antagonismo rispetto alle leggi del profitto e del mercato hanno espresso, anche in passato, le persone che “lavoravano nel sociale”?
Quando ho cominciato a frequentare questo ambiente, a metà degli anni Novanta, la “egemonia aziendalista sulla cultura del cooperativismo comunitario” era già operante, anzi era largamente preponderante. Certo, qualche margine di manovra poteva essere coltivato, si era affiancati da colleghi di lavoro magari anche molto capaci, inventivi, motivati, ma tutto il lato politico, la disposizione conflittuale verso il contesto istituzionale, l’esigenza di usare certe pratiche, certe inedite vicinanze con altre classi, con altri soggetti, non per consolidare una posizione professionale ma per mandare all’aria quegli assetti sociali e politici che erano, e sono, la causa stessa del disagio che avevamo di fronte, è sempre stato patrimonio di pochissimi.
Oggi, aggiunge il curatore, nella deriva digitale in atto si aggiunge un ulteriore ostacolo, ovvero la diversa attitudine generazionale nei confronti degli strumenti tecnologici, la frammentazione determinata da un lato dalla “arretratezza” dei più anziani, dall’altro dalla precarietà e deresponsabilizzazione dei più giovani. La difficoltà non solo di introdurre dei cambiamenti ma di esigere anche solo i propri diritti appare sempre più grande. Un tempo forse la conflittualità era meglio indirizzata perché l’avversario si vedeva meglio, si ipotizza nel libro; ma c’è mai stata davvero questa conflittualità? O non è stata, anche nei più consapevoli, l’accettazione di una sorta di schizofrenia, di scissione tra l’identità politica e quella professionale, o al limite sindacale? Forse il grande equivoco è stato pensare, quando la situazione cominciava a degradarsi, che “dall’interno” si potesse fare ancora qualche battaglia. Adesso che la partita è persa, e che quel sistema – sebbene sempre più espansivo e legittimato nell’opinione pubblica – appare come un feticcio da smascherare e distruggere, sarà forse più facile prenderne definitivamente le distanze e cominciare a costruire un nuovo sistema di pratiche, ma soprattutto di alleanze, che poggi su presupposti e obiettivi completamente diversi. (luca rossomando)
Leave a Reply