Per capire come si è arrivati al tracollo dell’Azienda Napoletana Mobilità, di proprietà del comune di Napoli, nell’ultimo decennio – con un parco mezzi ridotto da circa novecento unità a poco più di quattrocento, intere tratte cancellate, tagli operati sia dal governo centrale che dal Comune, conflittualità sindacale tornata ai livelli dei primi anni Novanta – bisogna fare qualche passo indietro. Siamo nel marzo 2014, e con una delibera che si adegua senza troppe proteste all’austerity imposta dal governo (il cosiddetto “patto di stabilità”) la giunta dispone tagli al bilancio delle aziende del Comune per almeno l’otto per cento nel 2015, e per almeno il sei per cento nel 2016, che si sarebbero aggiunti a quelli precedenti. Nel luglio 2014 – siamo ormai a metà del primo mandato di de Magistris – sembrano arrivare buone notizie: le sezioni riunite della Corte dei Conti accolgono il ricorso presentato dal Comune contro la sezione campana, sul diniego del piano di riequilibrio economico e finanziario. «Una notizia enormemente positiva», esulta il sindaco. Passano due anni, la sezione campana della Corte dice che il disavanzo è aumentato, ma il sindaco parla di malafede politica e disonestà intellettuale: «Anni fa ci avevano detto che eravamo morti e invece noi andammo a Roma dove abbiamo vinto su tutta la linea». Si uscirà finalmente dal pre-dissesto? Non proprio: nell’ottobre 2017 (de Magistris intanto è stato riconfermato sindaco) i revisori di Roma affibbiano un’altra mazzata: il Comune ha recuperato sì parte del disavanzo originario di 850 milioni dal 2013 al 2015 – viene spiegato – ma l’ha fatto per effetto di un’errata contabilizzazione delle entrate. Ci risiamo: nuova delibera della Corte, nuovo invito al Comune a rientrare nei ranghi finanziari, con procedure urgenti.
È in questo scenario che la situazione per Anm, nel frattempo, precipita. I tagli stabiliti nel 2014 sono scaricati – come prevedibile – sui servizi sociali e sui trasporti, in un contesto in cui da anni tutte le partecipate del Comune sono in perdita, e indebitate ciascuna mediamente per oltre un milione di euro. In alcuni casi – vedi Napoli Servizi S.p.A. – queste partecipate appaltano ad altri privati i lavori per i servizi di sanificazione, pulizia e manutenzione degli uffici comunali, per alimentare quello che l’ex assessore al bilancio Riccardo Realfonzo (ora nemico giurato di de Magistris) ha definito “il principale canale attraverso il quale a Napoli la spesa pubblica viene piegata a strumento di potere e consenso”.
E così arriviamo ai giorni nostri. Il 20 ottobre scorso, a notte fonda, viene raggiunto un accordo tra Comune, rappresentanti sindacali e Anm per un nuovo piano di risanamento, l’ennesimo. I capisaldi comunicati, l’indomani, alla stampa sono: “Dare continuità all’azienda”, “preservare la continuità aziendale”, “qualificare il trasporto pubblico migliorando e l’offerta”, la “scelta politica” di mantenere totalmente in mano pubblica l’azienda così come l’impegno a “valorizzare e salvaguardare i livelli occupazionali”. Che si tratti dell’ennesimo temporeggiare lo si scopre appena un mese dopo – siamo al 23 dicembre – quando il Comune coglie tutti di sorpresa e, insieme ad Anm, annuncia di aver scelto la via del concordato preventivo, una sorta di shock therapy per ristrutturare il debito attraverso un accordo tra impresa debitrice e creditori. I sindacati sono furibondi. Il punto è che il Comune probabilmente conosceva già la relazione che sarebbe stata presentata quattro giorni dopo dai soci di Anm all’assemblea già convocata. Oscar Giannino, economista di sponda iper-mercantilista, l’anticipa sulle pagine de Il Mattino: un piano di austerity rafforzato con 20,7 milioni in meno di spese per il personale rispetto al 2016, cui si sommano 8,6 milioni stimati da recupero dell’evasione, un biglietto ulteriormente aumentato a un euro e trenta centesimi e, grazie a una norma del decreto Madia che favorisce il prepensionamento nel settore pubblico, ancora più esuberi rispetto ai 194 già contestati dal sindacato. Il Comune, insomma, si è barcamenato tra promesse impossibili da mantenere e la realtà aziendale, e ha scelto la via della fuga, per posticipare la resa dei conti. Posticipare mica tanto, se come sappiamo gli scioperi e i disservizi si sono moltiplicati in questo primo scorcio di 2018, con il sindaco mai così duro nei confronti dei manifestanti.
Ma se la società di consulenza Ernest&Young aveva segnalato il rischio default già dalla primavera del 2016, con un Comune incapace di frenare le perdite pluriennali, una salvezza dalla Regione che pareva già allora improbabile, con l’incapacità di far cassa, con la chiusura anticipata serale delle funicolari, l’impossibilità di garantire la metro per il post-partita in caso di gare notturne al San Paolo, e con l’unica strada possibile che sembrava quella di un risanamento drastico, perché, se era chiaro già allora tutto questo, si è perso un anno e mezzo?
Risposta: c’erano le elezioni locali. E, soprattutto, la speranza che dalla legge di bilancio del governo potessero arrivare fondi per risanare le casse societarie. Il problema, però, è che se da un lato Gentiloni ha fatto il suo dovere, spalmando il debito e protraendo a venti anni il pre-dissesto del Comune (dandogli così la possibilità di rimandare il commissariamento), dall’altra non gli ha dato modo di utilizzare la cassa a breve. Che vuol dire? Che, per esempio, i trecento autobus su seicentocinquanta a disposizione che sono fermi nei depositi continueranno a restare là.
Oggi si arriva al paradosso per cui se c’è una cosa in cui torna utile il concordato è che spiana la strada alle privatizzazioni; oppure – una ipotesi più fantascientifica che altro – agli investimenti stranieri (ma Napoli non è Londra, Parigi o Hong Kong; anche volendoli invitare, difficilmente uno sceicco del Qatar o un conglomerato cinese guarderebbero con interesse alla città). Mettere a gara ugualmente, dunque, e magari più brutalmente di come sarebbe avvenuto con un’operazione alla luce del sole. Del resto, con l’Aeroporto di Capodichino – l’unica società partecipata in attivo della città – sta avvenendo proprio questo, con il governo comunale che intende procedere alla vendita delle proprie quote all’interno del pacchetto azionario Gesac, la società di gestione aeroportuale, e fare un po’ di cassa con quello.
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Se siete arrivati fino a questo punto, può essere interessante, credo, fare un parallelo tra la situazione napoletana e quella romana. Cosa succede nella Capitale? L’Atac è sempre più indebitata, e il comune di Roma si ritrova un sistema in sfacelo dopo aver ricapitalizzato l’azienda di trasporti per anni (con la destra, il centro e la sinistra al governo). Una situazione simile dal punto di vista economico, se non fosse che l’Atac ha maggiori capacità di fare cassa rispetto ad Anm, grazie ai maggiori volumi, al minor tasso di evasione, alla migliore condizione della linea. Ma comunque: qual è la differenza nello scenario politico? È che in questi mesi i radicali hanno cercato di ottenere per l’Atac una messa in gara del servizio, raccogliendo per un referendum apposito ben trentatremila firme in tre mesi. Osteggiata da destra e da sinistra, l’iniziativa è stata resa praticamente nulla da una delibera della giunta di Virginia Raggi del dicembre 2017, con cui si proroga al 2021 l’affidamento in house del trasporto pubblico locale.
Secondo il segretario dei radicali romani Alessandro Capriccioli, mettere a gara non significa per forza privatizzare. Ma concretamente – gli chiedo durante una telefonata (ci conosciamo da dieci anni) – come spiegheresti a una persona ignara di economia questa differenza? «Gli spiegherei che alla gara possono partecipare altri soggetti pubblici più efficienti e in salute, come per esempio l’Atm di Milano. O persino una nuova Atac ristrutturata». Il comune di Roma dovrebbe riprendere il controllo del servizio pubblico, “spacchettarlo” e decidere per conto suo quale tratte devono essere servite, con quali orari, a che prezzi. Ma – gli faccio – diciamo la verità: una situazione come quella attuale farebbe sì che a presentarsi alla gara sarebbero per lo più grandi aziende private. «Sì, il rischio c’è – dice Capriccioli –. Ma per come stanno le cose, il rischio è che si finisca comunque con la privatizzazione selvaggia. Anzi, con una svendita totale».
Certo, i radicali non sono i ragazzi-poster del socialismo, quando parliamo di economia. Quello che però vorrei far notare è come la “democrazia diretta” messa in campo con il loro referendum – piaccia o no l’obiettivo che si ponevano – si è dimostrata molto più trasparente del famigerato “bilancio partecipativo”, sventolato in mille assemblee da consiglieri comunali e intermediari politici, che nei momenti cruciali o di crisi (vedi Anm, ma anche Bagnoli) sono stati tenuti all’oscuro dalla giunta o si sono dileguati per evitare polemiche. Ma cosa ci sarebbe più popolare di una grande manifestazione per un trasporto pubblico rinnovato, diffuso, più giusto?
L’Anm è, a oggi, tecnicamente fallita e ci vorrebbe un miracolo per resuscitarla. Il miracolo potrebbe concretizzarsi in due modi: con un cospicuo afflusso di fondi dal governo centrale o con la destinazione di parte dei cinquecento milioni di attivo di bilancio della Città Metropolitana. Che il primo caso sia al momento improbabile lo si evince dalla situazione del trasporto pubblico nazionale: con l’importante eccezione di Milano, ovunque il parco vetture è antiquato, l’evasione è altissima, la gente preferisce l’automobile, le metropolitane sono al palo e i trasferimenti pubblici valgono tre volte i ricavi da biglietto: una vera e propria concezione “welfaristica” del trasporto pubblico, insomma, che lo fa dipendere dai finanziamenti pubblici più di qualsiasi altro stato europeo. Non è una cosa necessariamente negativa, se il servizio fosse corrispondente al sacrificio. La seconda ipotesi – quella di mettere mano al tesoretto di cinquecento milioni – è invece più controversa: perché se è vero che il sindaco sa che quei soldi sono destinati al ripianamento dei conti (e non al salvataggio di aziende pubbliche già fallite), è anche vero che, nel passato recente, quando si è trattato di assumere “d’imperio” delle educatrici d’asilo o i dipendenti dell’azienda speciale per l’acqua, l’amministrazione è stata piuttosto “creativa”. Si ritorna sempre lì: tra sogni di disobbedienza e realismo diplomatico. (paolo mossetti)
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