Torna il carcere è il titolo del tredicesimo Rapporto nazionale sulle condizioni della detenzione in Italia dell’Associazione Antigone che si presenta domani mattina a Napoli, allo Scugnizzo Liberato. A discuterne con Luigi Romano (neo presidente di Antigone Campania), Mario Barone, Samuele Ciambriello, Bruno Larosa e Nicola Quatrano. Il rapporto è frutto di un’attenta analisi dei dati e delle visite effettuate in tutti gli istituti penitenziari di Italia dai componenti dell’Osservatorio nazionale sulla detenzione, promosso ormai da venti anni da Antigone.
Perché torna il carcere? Perché i dati indicano che dopo quasi cinque anni in cui avevamo assistito a una lieve (ma progressiva) riduzione dei numeri della popolazione detenuta, si registra una inversione di rotta. Questa la tesi di fondo del rapporto, ben rappresentata da Alessio Scandurra che ne disegna un quadro incontestabile. Per comprendere le dinamiche attuali occorre un passo indietro. Nel 2010 si registrò la presenza di 68.000 detenuti nelle carceri italiane per una capienza di circa 44.000 posti. Una situazione intollerabile che costrinse l’allora ministro della Giustizia, per la prima volta nella storia della Repubblica, alla dichiarazione dello stato di emergenza per i penitenziari italiani. Silvio Berlusconi, allora presidente del consiglio, dichiarò che «in passato, il problema del sovraffollamento veniva risolto con amnistie e condoni, noi invece vogliamo dare una soluzione duratura nel tempo. Per la prima volta abbiamo deciso di dar vita a un piano per affrontare questa emergenza nelle carceri italiane».
Il piano annunciato dal governo altro non era che un piano straordinario di edilizia penitenziaria che, nonostante le attese e le risorse promesse, dopo otto anni ha portato a un aumento della capienza di circa 6.000 posti. Evento più rilevante fu che a partire dal 2010 il numero di detenuti cominciò a diminuire, passando dai 68.000 del 2010 ai 52.000 del 2015. Se alla fine del 2010 il tasso di affollamento del sistema penitenziario era del 151% con punte di oltre il 180% in alcune regioni, alla fine del 2015 era del 105%, e solo in Puglia superava il 130%. Questa riduzione aveva inciso sulle condizioni di inumanità e di degrado delle carceri, per esempio si era ridotto il tasso di suicidi: se nel 2010 si erano verificati 8,1 suicidi ogni 10.000 detenuti, nel 2015 erano stati 7,4. Così come si era assistito a una lieve flessione della percentuale di stranieri presenti, dal 36,7% (2010) al 33,2 (2015).
Oggi, come osserva Scandurra, questa stagione sembra giunta a esaurimento. Siamo tornati a registrare 58.000 presenze (se ne contavano 55.000 nell’ottobre 2016) con una crescita di circa 1.500 detenuti a semestre. Se questo trend si conferma, nel 2020 si tornerà di nuovo a quota 67.000 detenuti, al punto che fece decretare lo stato di emergenza. Ma considerando che il numero di reati è in continua diminuzione (nel 1991 gli omicidi sono stati 1.916, 397 nel 2016 ), cosa ha determinato questo nuovo aumento? Oppure, meglio ancora, cosa aveva consentito di ridurre i numeri tra il 2010 e il 2015?
L’ipotesi di fondo è che “tra il 2010 e il 2014 c’è stata una grande attenzione pubblica sulle carceri e il sovraffollamento, sia giurisdizionale (sentenza Torreggiani del 2013 della Corte europea dei diritti dell’uomo) che politica (messaggio alle Camere del Capo dello stato, ancora nel 2013)”. Successivamente, “complice ovviamente l’avvicinarsi delle elezioni politiche, è ripartita una campagna sulla sicurezza che evita accuratamente di fondarsi su dati di realtà, ma piuttosto si appella alla ‘percezione’ di insicurezza, adottando un rinnovato atteggiamento repressivo nei confronti soprattutto di persone che vivono ai margini della società”. Nel 2015 è inoltre giunta a scadenza, “la misura straordinaria a tempo della liberazione anticipata speciale, che portava da 45 a 75 giorni il periodo di sconto pena per buona condotta concedibile a semestre”.
Il carcere torna, dunque, perché è di nuovo un tema centrale del discorso pubblico, di politiche punitive costruite sulla base di un clima di allarme sociale e di diffuso odio razziale. Interrogarsi oggi sul carcere va al di là degli aspetti, pure interessanti, posti dalla riforma dell’ordinamento penitenziario in corso di approvazione al limite di questa ultima legislatura. Significa piuttosto, come insegna Foucault, chiedersi quale è la posta in gioco della lotta politica in corso, che come tema centrale del proprio discorso ha la punizione e l’imprigionamento (dei migranti, dei marginali, degli esclusi, dei poveri). Significa chiedersi quali siano le condizioni di vita negli istituti penitenziari. Significa sapere che il carcere comincia molto prima delle mura di una prigione e che se ne proietta molto oltre.
Se il carcere torna, forse, è per costringere a porci tutti quegli interrogativi ai quali spesso fuggiamo. Primo di tutti: di quale e di quanta libertà siamo capaci? (dario stefano dell’aquila)
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