Barcellona è una città bellissima. Che si sfogli una Routard, una Lonely Planet o le edizioni ribelli della Voland, attraversare questa metropoli non lascia indifferenti. Che vi si arrivi per ragioni accademiche, politiche o semplicemente per cambiare vita, dopo pochi passi nel barrio Gotico si sente immediatamente la forza del genius loci, la sensazione di trovarsi in uno di quei posti dove da un momento all’altro vivremo un’esperienza unica. Enjoy Barcelona, suggerisce la sindaca Colau, parafrasando lo slogan della Coca-Cola.
Da quando si è insediato il governo di Barcelona en Comú, la città sembra vivere l’ennesima fase di espansione economica illimitata. La capacità di attrazione, di capitali e persone, produce una escalation di cui il governo cittadino fa vanto, una base su cui elaborare una convivenza tra gli interessi dei maggiori attori economici mondiali e il benessere economico dei suoi abitanti. Il sogno di tutti gli amministratori di sinistra: battere il capitalismo con le sue stesse armi, quelle della costruzione di un’immagine, di un relato, di un racconto che convince e vince.
Con un programma “rivoluzionario” Barcelona en Comú aveva provato a condurre un blitz, una guerra di movimento, che portasse i suoi membri a “occupare” le istituzioni e finalmente rendere possibile quel cambio di cui la città aveva assolutamente bisogno: il neo-municipalismo.
Il municipalismo vecchio stile, quello di Porto Alegre per intenderci, quello del bilancio partecipativo e della diplomazia dal basso, aveva provato a organizzare nuove forme di democrazia radicale, in alternativa e spesso in opposizione alla crisi dello stato-nazione. Da questa crisi non erano stati risparmiati i partiti e le forme tradizionali di partecipazione politica e di esercizio della cittadinanza; il progetto municipalista intendeva rilanciare così una vasta operazione di resistenza dei territori, sia urbani che rurali, all’aggressione che il capitalismo estrattivo aveva lanciato ai loro danni. Questo neo-municipalismo, invece, fa della dimensione urbana globale una sua caratteristica strutturante.
Le pratiche di autorganizzazione, dentro e fuori le città, che avevano caratterizzato una lunga fase di lotta per una generazione di militanti, erano state incapaci di produrre organismi in grado di “inventare” nuove forme di governance da contrapporre al neo-liberalismo di Banca Mondiale e Organizzazione mondiale del commercio. Il neo-municipalismo su questo piano mostra di aver fatto una scelta chiara: concentrare sulle città il rilancio di un progetto di emancipazione individuando il cittadino metropolitano come soggetto protagonista. Da qui dovrebbero nascere processi di liberazione planetaria connettendo le città (e i cittadini) tra di loro in una rete ribelle, capace di delineare spazi di possibilità, “eterotopie” le chiamava Henry Lefebvre.
A due mesi dalla fine del suo mandato, Ada Colau si trova a promuovere questa “rivoluzione urbana” da una posizione egemone. È lei che sta moviendo las piezas nel tentativo di trovare delle convergenze con il suo progetto, sia all’interno che all’esterno dello stato spagnolo, trovando soprattutto a Napoli interlocutori con le orecchie aperte.
Si sta aprendo quindi uno scenario nuovo? Se i mezzi di questa strategia ci lasciano perplessi, sentiamo il bisogno di analizzarne anche i fini, che ci pare siano rimasti completamente evasi.
Ada Colau vinse le elezioni municipali del 2015 con la promessa di chiudere per sempre l’esperienza nazionalista moderata di Convergencia, degenerata negli scandali che l’avevano travolta, quindi trasformare le istituzioni e metterle al servizio dei cittadini, valorizzando la partecipazione attiva e i beni comuni. Ma per arrivare a ricoprire la carica di sindaca, e soprattutto per mantenerla, ha dovuto accettare che i Comú si aprissero a una serie di personaggi che avevano ricoperto cariche importanti nell’amministrazione durante gli anni in cui Ada, portavoce della PAH, la piattaforma contro gli sfratti, e gli altri attivisti della città, contestavano duramente le politiche municipali. Jordí Martí, socialista doc, uno della casta, è stato valutato abile e arruolato nelle fila dei Comú. Lluís Gomez sistemato alla Commissione della promozione economica per rafforzare il patto tra i capitali privati e la città, che per attirarne deve essere sempre più business-friendly.
Come gran parte delle città europee, Barcellona fin dall’inizio degli anni Novanta, ha dovuto affrontare il problema della gestione dei conti e del bilancio comunale, iniziando una selvaggia dismissione delle imprese di sua proprietà, in larga parte cedute ai capitali privati. Se analizziamo questi quattro anni di governo, dobbiamo sottolineare alcuni successi significativi della giunta presieduta da Colau. Attraverso un meccanismo di regolazione delle utenze la sindaca è riuscita a far scendere il prezzo dell’acqua pubblica del quindici per cento, procedendo verso la municipalizzazione; inoltre, successo ancora più significativo, ha approvato l’istituzione di un’impresa municipale dell’energia: Barcelona Energia, che dovrebbe cominciare a funzionare proprio quest’anno.
Eppure, la città continua a soffrire di contraddizioni le cui conseguenze meriterebbero misure urgenti che invece non arrivano. Basti pensare al problema della turistizzazione, alla quale Barcellona è stata esposta nel corso degli ultimi vent’anni, durante i quali si è deliberatamente scelto di trasformarla in un enorme parco di attrazioni per turisti. Il centro della città è invaso da orde di visitatori il cui potere d’acquisto ha completamente stravolto il mercato immobiliare, innescando meccanismi di sperequazione e creando seri problemi di convivenza con gli abitanti dei quartieri centrali, dovuti al rumore, alla sporcizia e all’inciviltà dei vacanzieri occasionali. Solo negli ultimi mesi la giunta è riuscita a far registrare iniziative degne di nota, come l’approvazione del Piano speciale urbanistico di alloggio turistico, uno strumento di controllo importante. Da quest’anno, infatti, nei quartieri del centro bisognerà ridurre il numero degli appartamenti destinati ad alloggio turistico e non se ne potranno fare di nuovi, mentre nei quartieri vicini al centro non ci potranno essere altri appartamenti turistici e solo nella periferia della città potranno aumentare.
Queste misure sono però assolutamente insufficienti a combattere il fenomeno. L’accesso alla casa e la speculazione sugli affitti rimane uno dei principali problemi della città, in tutti i quartieri. La sindaca ha messo a disposizione delle risorse economiche per i quartieri più svantaggiati, ma senza un piano preciso, e a volte portando avanti i progetti speculativi o distruttivi delle precedenti amministrazioni.
Insufficienti, quando non controproducenti, sono le misure adottate dalla giunta per far fronte a un’emergenza che è collegata tanto al fenomeno della turistizzazione come a quello della speculazione urbanistica: i narco-appartamenti. Si tratta di case occupate da trafficanti di droga, sopratutto di eroina e crack, che diventano centri di vendita e consumo, pur essendo spesso proprietà di imprese immobiliari. I narco-appartamenti proliferano soprattutto nel centro storico. È stato il coordinamento di associazioni Acció Raval dell’omonimo quartiere a far notare alla sindaca che per combattere questa piaga, l’aumento del numero dei poliziotti nei quartieri è una misura inutile.
Molto si potrebbe ancora dire sul piano della gestione economica e sui limiti che questa giunta ha dimostrato in termini di lotta alle ingiustizie, ma è forse su un piano prettamente politico che registriamo la delusione maggiore. La promessa, infatti, del coinvolgimento da parte dei cittadini di Barcellona alla gestione della città, non è stata mantenuta. Ci sono state consultazioni pubbliche, votazioni telematiche o riunioni che periodicamente gli assessori hanno garantito, ma sono misure del tutto insufficienti a giustificare la descrizione di un progetto di ristrutturazione del rapporto tra istituzioni e cittadinanza.
La democrazia diretta, la co-gestione dei beni comuni, il coinvolgimento dei quartieri, la collaborazione con il tessuto associativo sono rimasti nobili intenti a cui non sono corrisposte misure concrete. Nonostante la Colau abbia provato a dare voce al coro che gli Indignados scandivano con forza durante le mobilitazioni del 2011, “non ci rappresentano”, il tanto atteso cambiamento politico e culturale contro le reti clientelari e i partiti che si limitano a gestire il potere e a legiferare per difendere gli interessi loro e di pochi privilegiati, non c’è stato.
Nonostante i cavalli di battaglia del pensiero neo-municipalista siano stati sbandierati e ripetutamente rivendicata da questa giunta la capacità di averli realizzati, sostenendo di aver superato il municipalismo indipendentista proprio sul suo terreno, a noi pare sia vero il contrario. Con strategie retoriche meno seduttive, con un “racconto” meno evocativo, le organizzazioni della sinistra indipendentista, soprattutto la Cup, hanno messo al centro del loro agire politico un nuovo rapporto tra istituzioni, governo e cittadinanza. Dovunque governano, il municipalismo frutto di queste esperienze non ci sembra affatto ancorato a idee primitivistiche, alla volontà di aderire a “comunità immaginate” dall’impianto identitario, come molti sostengono all’interno dei Comú. Perché quindi non guardare a questo pezzo della società catalana e ragionare sulle convergenze possibili all’interno della stessa Catalogna, piuttosto che screditarne le prospettive politiche e liquidarne il ruolo e la funzione stabilendo dei giudizi morali tra buoni e cattivi, resta per noi abbastanza incomprensibile.
Il subcomandante Marcos diceva sempre di “non volere il potere”, ma di voler entrare nelle istituzioni per svuotarle del potere e restituirlo al popolo. Costruire un progetto di democrazia dal basso non è cosa semplice da realizzare, ma se le formazioni neo-municipaliste vogliono rompere vecchie concezioni non possono rinunciare a promuovere pratiche di coinvolgimento, né rifiutare di smontare il meccanismo della delega. Quando si separano queste due cose, si torna a essere un partito tradizionale e si cede alla strumentalizzazione. In questo panorama, spesso, la giunta di Ada Colau si è accontentata di governare quello che già esisteva. (giovanni castagno/giuseppe ponzio)
Leave a Reply